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Fascicolo 11/2020

Articolo originariamente pubblicato in Il Fatto Quotidiano, il 17 settembre 2020, all’interno della rubrica settimanale “Giustizia di Fatto”, a cura di Antonio Massari.

Ringraziamo l’Editore de Il Fatto Quotidiano per la gentile autorizzazione.

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L’ovvietà che il Giudice crea il diritto penale.

La legge che puniva il fatto d’aver causato la morte d’un uomo, per dolo o per colpa, c’era e da tempo; stava nel codice penale del Guardasigilli fascista Rocco, del 1930. Invero la legge che punisce l’omicidio per colpa c’è da tempo immemorabile, dacché la colpa si è staccata, come un frutto maturo, dall’albero della colpevolezza prima limitata all’intenzionalità del danno, cioè al dolo, ma, a dire il vero e come accennato prima, è evidente che il fatto che ci fosse la legge non vuol dire che ci fosse anche il diritto penale.

Il fatto della causazione per colpa della morte di un lavoratore esposto ad amianto è diventato un delitto solo da poco e se pm e giudici prima non vedevano nella legge che stava nel codice penale abbastanza “materia penale” per punire quel fatto, ci deve essere qualche ragione che l’idea tralatizia secondo cui la legge è il diritto penale contribuisce solo a velare cioè non aiuta a capire.

Il giudice serve la legge ovvero è servo della legge? La Legge governa e non il Giudice, come la speranzosa ideologia illuminista ancora vuol farsi credere vera? La Costituzione poi non sacralizza il principio di legalità combinato col principio della doverosità dell’azione penale del pm? La Costituzione non tutela come bene primario la vita e salute del lavoratore? Parrebbe di sì, ma sfortunatamente essa non funziona da sola, come da sola non funziona la legge ordinaria.

Se il nullum crimen è quel che la tradizione illuministica e liberale predica che sia, bisogna spiegare perché nel caso dell’amianto per tanto tempo ci fosse la legge e non ci fosse il delitto e perché a un certo momento il delitto è apparso là dove prima c’era solo la legge!

Il giudice serve la legge ovvero è servo della legge? La Legge governa e non il Giudice, come la speranzosa ideologia illuminista ancora vuol farsi credere vera? […] La Costituzione non tutela come bene primario la vita e salute del lavoratore? Parrebbe di sì, ma sfortunatamente essa non funziona da sola, come da sola non funziona la legge ordinaria

Il giudice fa e disfa diritto come sempre ha fatto, legge o no, Costituzione o no. Il problema vero, l’unico che conti, è se faccia buon diritto penale o no.

La legge, almeno, limita e contiene il potere creativo – o non creativo – di diritto del Giudice? Un tempo sì. Forse. Ma ora?

Diritto penale e cultura, ovvero giudice che costruisce e decostruisce diritto penale, ovvero diritto penale e politica: ecco una volta di più il vero grande problema che la cultura che ormai ha involgarito il positivismo giuridico formalista del XIX e XX secolo, non può vedere e non vuole vedere.

Il diritto penale vive come ogni cosa immerso e sommerso in un’ideologia – se preferite, chiamatela cultura – che lo trascende e che gli dà o gli toglie senso, lo muove o lo tiene immobile, rende visibili o invisibili i fatti sociali, alcuni li fa più grandi di quel che sono e altri li fa più piccoli e quasi invisibili, e quell’ideologia, al tempo in cui i fatti di morte di migliaia di persone a causa dell’amianto avvenivano, impedì per lungo tempo ai pm e ai giudici di renderli visibili e quindi punibili.

Di conseguenza, nessuno li ha visti. E neanche puniti.

Diritto penale e cultura, ovvero giudice che costruisce e decostruisce diritto penale, ovvero diritto penale e politica: ecco una volta di più il vero grande problema

La legge c’era ma il diritto no, ovvero, se volete, il diritto c’era ma la giustizia no.

Il principio di legalità – e il dovere per il pm di esercitare conseguentemente l’azione penale – e la Costituzione intera non sono evidentemente la roccia che il ceto dei giuristi crede e preserva come un totem intorno a cui gioca le sue danze di garantismo che non garantiscono quasi nulla se non a favore di chi è già ben garantito per conto suo. Il totem scivola nella stessa corrente in cui scivoliamo tutti noi e quella corrente oscura è come la notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere perché chi ci vive dentro spesso non si avvede dei condizionamenti che subisce e per il giudice è vero come per chiunque altro.

Sempre parafrasando Hegel, potremmo dire che, nel caso dell’amianto, la nottola del diritto penale si è levata in volo solo al tramonto quando tutto era già accaduto e già finito o quasi (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, 1965, p. 17). Questo non vuol dire ancora che la legge scritta è un nulla per il giudice, ma vuol dire che il rapporto tra la legge e il giudice che crea da essa il diritto è molto più complesso e sfaccettato di quanto si voglia continuare a credere.

Che cosa è causalità? Che cosa dice la legge sul concetto penalmente rilevante di causalità? Nulla? Eppure definire che cosa è causa e che cosa no, significa aprire e chiudere il rubinetto da cui scorre il diritto penale.

Un certo concetto di causa consente la punizione di un fatto che un altro concetto di causa vieta, e nella legge non è scritto né l’uno né l’altro. Ne parliamo ora.

Che cosa è causalità? Che cosa dice la legge sul concetto penalmente rilevante di causalità? Nulla? Eppure definire che cosa è causa e che cosa no, significa aprire e chiudere il rubinetto da cui scorre il diritto penale

E ora? Il processo penale per amianto come neo-ordalia post moderna.

Nemmeno oggi, in verità, il diritto penale dà segni d’avere la capacità di mantenere le promesse di giustizia che incautamente e comunque troppo tardivamente dice di voler fare alle famiglie dei morti di amianto. Il diritto penale infatti mostra l’impotenza di un vecchio cane che ora abbaia – prima nemmeno questo – ma non può mordere, o peggio, un vecchio cane che abbaia o morde senza regole.

È proprio vero, però, che il diritto penale si è risvegliato? Dal 2000 ad oggi ho censito non più di 54 sentenze della Corte di Cassazione in materia di responsabilità penale da amianto e se il lettore lo vorrà potrà controllare se siano di più le condanne o le assoluzioni. Anche ammettendo che in ciascuno dei 54 processi penali definiti dalla Corte di Cassazione ci fossero, come persone offese, almeno dieci vittime di amianto, il numero generale di casi di eventi di morte o malattia che sono arrivati a processo, è poco più che risibile.

La prescrizione si è divorata la maggior parte dei reati di omicidio e lesione colpose, la maggior parte di quei forse 100000 o magari molto di più casi di possibile delitto da portare a processo? Forse sì, ma una volta di più, sostenere che il problema sia la prescrizione è un ipocrita giochetto che deliberatamente confonde la causa con l’effetto. La domanda vera è perché è stato tollerato che la prescrizione uccidesse i delitti?

In quei 54 processi, almeno, è stata fatta giustizia, o, almeno, è stato applicato e tuttora è applicato un diritto penale chiaro razionale e oggettivo? No, come accennato condanne e assoluzioni si susseguono in modo quasi casuale, e, come diremo tra un momento, il problema è che tutte codeste sentenze s’incagliano sul medesimo fatto che evidentemente i giudici non sanno giudicare.

Un processo per una morte da amianto – come diremo – è un’ordalia post moderna in cui la probabilità della condanna o dell’assoluzione è molto meno prevedibile di quella del lancio di una monetina.

I possibili rei sono intanto quasi tutti morti, ormai. Le possibili vittime, invece, moriranno, e come abbiamo accennato, non siamo nemmeno certi che il picco di mortalità di questa vera epidemia sia stato già raggiunto, data la durata non prevedibile della latenza – comunque lunga o lunghissima – della malattia – il terribile mesotelioma della pleura – che fatalmente ucciderà ancora e ancora per molto tempo.

Un processo per una morte da amianto […] è un’ordalia post moderna in cui la probabilità della condanna o dell’assoluzione è molto meno prevedibile di quella del lancio di una monetina

Come proveremo a mostrare, il diritto penale quando si è trattato di punire i colpevoli delle morti d’amianto si è infranto sullo scoglio della causalità. Il problema causale dell’amianto è presto detto.

Il giudice nel processo d’amianto si trova alla sbarra una pletora d’imputati perché la cancerogenesi dell’amianto è un processo biologico lunghissimo che comincia con l’assunzione in fabbrica e termina, anche decenni dopo, con la malattia e, spesso, con una rapida morte per mesotelioma della pleura. Unicuique suum, dice il sacrosanto principio di giustizia che è il principio di personalità della responsabilità penale.

Il pm ha l’onere di dar la prova che ogni periodo di esposizione ad amianto, corrispondente al periodo della carica di ciascun imputato, fu un antecedente necessario dell’evento accaduto molto dopo che l’imputato cessò dalla carica stessa. Il pm deve provare quindi che ogni istante di esposizione ad amianto è stato talmente necessario che, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato.

Come si può dare questa prova? Perché si deve dare questa prova? Come detto all’inizio il concetto di causalità tuttora in uso nel lessico penalistico che pm, avvocati e giudici imparano nelle Università e nelle successive Scuole di (più o meno) Alta Formazione, è un residuato di altre ere del pensiero umano.

Che cos’è la causa penalmente rilevante?

È ora di provare a fare una camminata nella selva del principio di causalità rilevante per il diritto penale, provando a far sì che anche il non addetto ai lavori possa capire quel che di causalità crede di capire l’addetto ai lavori. Il codice penale parla del rapporto di causalità all’art. 40, ma se forse ne parla è del tutto certo ch’esso non dica nulla di che cosa sia il rapporto di causalità, poiché l’unica cosa che la legge dice è che l’evento per essere imputato all’uomo deve essere stato conseguenza della sua azione.

La parola causalità è una delle più antiche del lessico penalistico, le sue origini si perdono nella notte dei tempi, quando il greco aitia significava a un tempo “fatto” cioè la materia stessa del processo e “causa”. La parola, poi, è tra le più difficili del lessico ordinario di qualunque cultura. Stabilire che esistono cause e come si faccia a dire che A sia stato causa di B è problema straordinariamente e indissolubilmente connesso con l’accettazione di una o di un’altra metafisica, cioè con una filosofia che dica che cosa è reale, cioè che cosa è il mondo, e come il reale, cioè il mondo, funzioni.

Il diritto penale moderno – creato nei suoi fondamenti nel XIX secolo – alla fine ha accettato l’idea che causa fosse la condicio sine qua non dell’evento, il che vuol dire che causa per il diritto penale è qualunque antecedente dell’evento che se fosse mancato avrebbe impedito la successiva verificazione dell’evento stesso.

La dogmatica della condicio sine qua non è ovviamente munita di senso compiuto solo all’interno di una metafisica rigidamente deterministica, tale per cui l’evento B che si è verificato hic et nunc è il punto terminale di una forse infinita catena di antecedenti tutti legati tra loro come in una indissolubile catena di una ferrea necessità. Il mondo potrebbe anche non essere così e potrebbe esser vero che non esistano proprio condizioni necessarie ma solo fluttuanti e causali successioni di fatti.

Il diritto penale, così dice, però di come sia fatto il mondo non si occupa, non fa certo filosofia e invece è certo che il diritto penale faccia filosofia anche se non lo crede, perché credere che la causa sia una condizione necessaria significa credere che nel mondo esistano condizioni necessarie e questa credenza è filosofia.

Fin dove si spinge la catena delle condizioni necessarie? Alle cose prime e poi la medesima catena arriverà alle cose ultime del mondo.

Risaliamo indietro la catena e alla fine fatalmente arriviamo all’atto della creazione di Adamo ed Eva, se siete cristiani osservanti (e volete evitare di addossare a Dio la colpa del male del mondo) o, altrimenti, al big bang che secondo la cosmologia della scienza ha dato inizio all’universo, cioè anche allo spazio e al tempo e a tutte le leggi necessarie che governano il mondo.

Vi parrà strano ma vi assicuro che ancor oggi nelle aule universitarie i professori di diritto penale, quando spiegano la causalità, si pongono il problema del cosiddetto regressus ad infinitum e avvertono l’esigenza di spiegare ai loro allievi perché – ad esempio – la madre o la nonna dell’omicida non possano essere considerate causalmente responsabili dell’omicidio commesso dal figlio e dal nipote.

In verità non c’è modo di sfuggire al mortifero regresso causale, perché, per sfortuna della madre, della nonna dell’omicida e degli avi più lontani, Adamo ed Eva, tutti hanno realizzato una condizione necessaria dell’evento il corollario logico della teoria della condicio sine qua non è che tutte le condizioni necessarie dell’evento sono logicamente equivalenti le une alle altre.

Per fortuna, il diritto penale ha escogitato anche la causalità adeguata e la causalità umana, ma risparmio al lettore l’inutile fatica di comprendere questi vecchi concetti del secolo XIX che non dicono praticamente alcunché (che cosa sia adeguato e che cosa no ovviamente non è detto così come non è detto che cosa sia causa eccezionale e che cosa causa normale o “umana”).

Le condizioni necessarie, appunto perché necessarie, sono tutte logicamente equivalenti. Nel mondo deterministico delle condizioni necessarie le cause quindi non si pesano e, nel caso dell’amianto, ciò vorrebbe dire che non conta che tu abbia causato 1 giorno di esposizione ad amianto e lui 10 anni, perché tutti avreste fatto quel che era necessario perché l’evento si producesse.

Tutto facile, allora? Tutti responsabili? No. I penalisti, in verità, quando decisero che la causa rilevante per il diritto penale fosse la condizione necessaria, avevano in mente un mondo naturale e un mondo sociale abbastanza semplice in cui la conoscenza delle condizioni necessarie di un evento, il più delle volte era intuitiva, si raggiungeva anche solo col buon uso del senso comune. Chi ha premuto il grilletto della pistola che ha ucciso Tizio ha posto una condizione necessaria della morte di Tizio (così come chi gli ha venduto l’arma e così via all’infinito).

Se però a sparare furono in 10 e 1 solo causò la ferita mortale alla vittima? La vecchia dottrina aggrottava le ciglia perplessa (ma aveva visto il problema!). Quando, però, la causa della morte è un poco più complessa la teoria della condicio sine qua non nella versione ingenua che abbiamo appena visto fallisce.

Il problema vero della causalità nel diritto penale non è mettere un freno al regresso delle condizioni indietro nel tempo, ma è esattamente l’opposto, non limitare le cause, ma identificare le cause. È pensiero comune – tuttora rigorosamente insegnato – che per stabilire se una certa azione A è stata condicio sine qua non dell’evento B, bisogna fare un esperimento mentale (o giudizio controfattuale): si elimina col pensiero A e se B non si sarebbe verificato allora A ne è stata condicio sine qua non, altrimenti, se B si sarebbe verificato comunque, no.

Il problema vero della causalità nel diritto penale non è mettere un freno al regresso delle condizioni indietro nel tempo, ma è esattamente l’opposto, non limitare le cause, ma identificare le cause

Provate ora ad eliminare mentalmente un periodo di esposizione ad amianto lungo, diciamo, due anni, isolandolo dal resto del periodo generale, diciamo, venti anni, e, domandatevi se l’evento – cioè la morte per mesotelioma del lavoratore – si sarebbe verificato egualmente o no anche senza i due anni fatidici. La risposta è che… non lo sappiamo, the answer, my friend, is blowing in the wind.

È come se 10 hanno sparato e non ci sia modo di stabilire chi dei 10 abbia causato la ferita mortale. Uno, nessuno, centomila?

Per provare a dare una risposta, quanto soddisfacente è difficile dire, il diritto penale dovrebbe accettare una metafisica opposta a quella deterministica, una metafisica fondata sul caso e quindi sulla probabilità che è esattamente l’opposto della necessità. Soprattutto, che lo voglia o no, dovrebbe capir almeno più di zero di scienze e metodo della scienza, anzi di scienze e metodo delle scienze. La scienza, infatti, col crescere della sua conoscenza e quindi col crescere del campo dell’incertezza cioè della non conoscenza che è sempre il prezzo paradossale del progresso, ha escogitato complicate logiche di pensiero per dirimere siffatti nodi e garbugli, ma il diritto penale non lo sa.

Il problema del rapporto tra diritto penale e probabilità attende ancora di essere scoperto, anche se da sempre, occultamente, il suo spettro si aggira nella aule dei tribunali. Ben impostato il problema è eversivo, ne va del diritto penale stesso.

Il problema del rapporto tra diritto penale e probabilità attende ancora di essere scoperto, anche se da sempre, occultamente, il suo spettro si aggira nella aule dei tribunali

I fatti della società del rischio.

Che la causalità di Antolisei (F. Antolisei, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Giappichelli, 1960), intenta a promuovere la causalità cosiddetta umana contro la causalità adeguata, ma sempre fedele nei secoli alla causalità condizionalistica, vecchio arnese del XIX secolo, potesse funzionare nel nuovo mondo, non era cosa da credere. Nessuno, però, salvo Stella, se n’era accorto. Stella provò a far ballare il diritto penale al ritmo dei tempi che cambiavano, ma la sua impresa restò solitaria.

Stella rivitalizzò allora la causalità con iniezioni di filosofia della scienza della seconda metà del secolo XX – in primis con l’allora dominate paradigma del positivismo o neoempirismo logico – e sancì l’equivalenza concettuale tra causalità e i modelli di spiegazione scientifica che allora erano communis opinio nella filosofia e nella scienza, l’uno universale – il modello Nomologico Deduttivo – l’altro probabilistico – il modello Induttivo Statistico.

Né l’uno né l’altro però erano modelli di causalità. Essi erano il prodotto della cultura dell’empirismo logico di Russell (B. Russell, Storia della filosofia occidentale, traduzione di L. Pavolini, TEA, 2007) e del Circolo di Vienna (V. in particolare C.G. Hempel, The function of general laws in history, in Journal of Philosophy, 39(2), 1942, pp. 35 ss.) che, come si dovrebbe sapere, aborriva, sulla scia di Hume, il concetto di necessità, cioè di causalità.

«La legge di causalità, come molte delle cose che passano tra i filosofi, è un relitto di un’età tramontata, e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si suppone erroneamente che non rechi alcun danno», ha scritto Russell («The law of causality, I believe, like much that passes muster among philosophers, is a relic of a bygone age, surviving, like the monarchy, only because it is erroneously supposed to do no harm»; B. Russell, On the Notion of Cause, in Proceedings of the Aristotelian Society, 13, 1913, p. 19).

La legge di causalità, come molte delle cose che passano tra i filosofi, è un relitto di un’età tramontata, e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si suppone erroneamente che non rechi alcun danno

B. Russell

Nessuno se n’è accorto, però. Nemmeno Stella. Ora è il caso di cominciare a esser chiari. Stella dice a tutti che quando sono cominciati i problemi veri, quelli difficili, il diritto penale non serviva più a dire che cosa è causa ma serve la scienza, possibilmente buona scienza. Che cosa è una spiegazione scientifica? È davvero vero che una spiegazione scientifica è sempre una spiegazione causale?

 

(3/Continua)

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