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02.12.2020
Luca Santa Maria

Amianto/5 – Il giudice deve deliberare di scienza, materia che molto spesso ignora

Fascicolo 12/2020

Articolo originariamente pubblicato in Il Fatto Quotidiano, il 1 ottobre 2020, all’interno della rubrica settimanale “Giustizia di Fatto”, a cura di Antonio Massari.

Ringraziamo l’Editore de Il Fatto Quotidiano per la gentile autorizzazione.

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La cosiddetta probabilità logica

I giudici, allora, come in un grande gregge senza pastore, cominciano a infiocchettare le loro sentenze con la rassicurante espressione “alto grado di credibilità razionale”, ma si dimenticano quasi sempre di spiegare come siano giunti a un così alto grado di… convincimento soggettivo. Pare difficile crederlo, ma forse quando i giudici scrivono “alto grado di credibilità razionale” non si avvedono del fatto che stanno solo scrivendo “credo di avere ragioni sufficienti per dire che A causi B».

Che cos’è allora codesta nuova probabilità che suona così bene alle orecchie?

Il giudice, per poter condannare, deve sempre spiegare le ragioni per cui è pervenuto a un “alto grado di credibilità razionale” circa la sussistenza di qualunque elemento costitutivo della fattispecie di delitto. Non solo la causalità, ma anche la colpa o il dolo. Non è forse ovvio?

I giudici, allora, come in un grande gregge senza pastore, cominciano a infiocchettare le loro sentenze con la rassicurante espressione “alto grado di credibilità razionale”, ma si dimenticano quasi sempre di spiegare come siano giunti a un così alto grado di… convincimento soggettivo

“Alto grado di credibilità razionale” è, al più, uno standard della prova, cioè una regola di giudizio e quindi “probabilità logica”, che della prima espressione è sinonimo, non ha a che fare con la causalità più di quanto abbia a che fare con la colpa o col dolo, perché ha a che fare con la prova della causalità così come con la prova della colpa e del dolo.

La Cassazione, nella sentenza Franzese, si limita a dire che il giudice deve cercare ovunque la prova della causalità individuale – cioè della causalità tout court –, ma nel dire questo, se ha avuto il bisogno di dirlo, lascia nel lettore la strana impressione che, prima del 2002, prima di Franzese, la causalità non dovesse essere provata.

È possibile che le Sezioni Unite della Cassazione abbiano scoperto nel 2002 che la causalità dev’essere provata nel processo penale al pari di qualunque altro elemento della fattispecie? No, non si può credere.

Che cosa c’entra la probabilità logica con la causalità? Nulla.

La vera e interessante domanda è «che cosa ha a che fare questa apparentemente nuova probabilità con la logica?» ovvero «quale logica – certo non la logica aristotelica – è in gioco qui?». In che cosa consiste la ragione, in questa logica? Probabilità logica significa implicazione logica parziale di una proposizione in un’altra? Che cosa significa?

Pare, invece, tant’è elegante il suono della perifrasi “alto grado di credibilità razionale”, che quei giudici credano d’avere finalmente in mano qualche formula magica che, una volta pronunciata, li esima dalla fatica del dover spiegare quali siano quelle buone ragioni, che essi personalmente hanno considerato sufficienti per ravvisare un rapporto di causalità tra A e B, e quindi condannare.

Il vuoto che formule di queste tipo velano è imbarazzante.

Il più delle volte, nei fascicoli dei processi per amianto e non solo, non c’è nemmeno una pubblicazione scientifica, ci sono solo le consulenze tecniche che sono evidenza scientifica di seconda mano e, come abbiamo detto prima, sempre parziali e cioè faziose, e non è certo un caso perché, se anche qualche pubblicazione ci fosse, il Giudice molto spesso non saprebbe come decifrarla.

Come può un giudice, allora, concludere di avere un’alta fiducia nel credere che l’esposizione ad amianto A abbia causato l’evento lesivo B, se non ha nel fascicolo nemmeno uno dei migliaia e migliaia di lavori scientifici sull’amianto e sul mesotelioma, e se anche li avesse non saprebbe leggerli?

La probabilità logica è soggettiva o oggettiva? Che cosa vuol dire che è oggettiva? Che deve essere basata sulle prove? No. Anche la probabilità soggettiva deve essere basata sulle prove.

Il più delle volte, nei fascicoli dei processi per amianto e non solo, non c’è nemmeno una pubblicazione scientifica […] e non è certo un caso perché, se anche qualche pubblicazione ci fosse, il Giudice molto spesso non saprebbe come decifrarla

La probabilità, però, essendo soggettiva, non è mai oggettivamente certa come il diritto penale pretenderebbe e, soprattutto, varia al variare del soggetto che l’abbia trovata, e con l’evidenza accumulata nel processo, il che vuol dire che è vero (e non si può più nascondere) che l’evidenza che, per me, è sufficiente a generare in me un alto grado di credibilità intorno a una certa ipotesi, per te, invece non basta.

Stella ha il torto di non averlo detto, cioè di non aver portato fine alle coerenti conseguenze la sua riflessione.

È necessario un vero e proprio balzo in avanti della cultura penalistica per cambiare il vocabolario e studiare nuove forme di pensiero, ma, in verità, il processo culturale non è ancora nemmeno iniziato. In realtà sarebbe un balzo… all’indietro.

La giurisprudenza medievale, di stampo scolastico tomistico, aveva elaborato il concetto di probabilità logica, pur senza averlo chiamato così, assai meglio di quanto spesso si faccia oggi.

È necessario un vero e proprio balzo in avanti della cultura penalistica per cambiare il vocabolario e studiare nuove forme di pensiero, ma, in verità, il processo culturale non è ancora nemmeno iniziato. In realtà sarebbe un balzo… all’indietro

Avete capito dove si arriva incamminandoci su questa strada?

C’è solo il rischio, allora, e non c’è mai la necessità? La poca dottrina nuova sulla causalità post Stella ha solo fatto il gioco di prestigio quasi alchemico di trasformare il piombo dell’aumento del rischio – cioè il concetto se e di quanto il rischio di B è aumentato e quindi è attribuibile ad A – nell’oro della condicio sine qua non, ma è ovvio che dire che A è condicio sine qua non dell’aumento di frequenza di B è, appunto, solo un modo diverso di dire che A aumenta la frequenza di B.

Qualcuno ha scritto che la differenza tra il rischio di X nella popolazione esposta ad A e il rischio di Y nella popolazione non esposta a A, significa che A è la condizione necessaria… di quella differenza di rischio.

Causare un rischio di B, cioè un aumento di frequenza di casi astratti di B, non è come realizzare una condizione necessaria di B, come evento hic et nunc.

Si galleggia fatuamente in un mare vuoto d’acqua. Nel nulla.

La prova è proprio la straordinaria imprevedibilità delle sentenze sull’amianto e, poiché l’amianto è materia molto più maneggevole di altre in cui sia in gioco l’imputazione di una malattia all’esposizione a una sostanza tossica o cancerogena – i rischi relativi dell’amianto sono molto alti –, c’è da temere che la situazione di crisi epistemologica della causalità duri a lungo ancora. E si estenda, ancor più intrattabile, a tanti altri processi che si proverà a far nascere.

Anche perché la cultura del diritto penale continua a non voler studiare la difficile filosofia della probabilità e della statistica, la sola che permetta di afferrare la difficile materia del rischio relativo, e così le sentenze dei giudici di merito, sull’amianto come su ogni altro analogo tema, continuano a dir tutto e anche il contrario.

Usano vocabolari forbiti, fatti di coefficienti nomici, di rapporto dose-risposta, concetto statistico regolarmente frainteso, e altre astruserie e amenità che danno l’illusione di sapere, ma che non celano il nulla di cui sono fatte.

Fraintendono però il significato di una correlazione tra dose e risposta perché, in non poche sentenze, si legge che il corollario di essa sarebbe che ogni dose di amianto fu condizione necessaria dell’evento concreto il che è semplicemente falso.

La cultura del diritto penale continua a non voler studiare la difficile filosofia della probabilità e della statistica, la sola che permetta di afferrare la difficile materia del rischio relativo, e così le sentenze dei giudici di merito […] continuano a dir tutto e anche il contrario

Chi lo dirà ai professori di diritto penale che continuano a insegnare la condicio sine qua non o la causalità adeguata o la causalità umana, che devono aggiornare in tutta fretta il centrale capitolo della causalità? Ora dovranno insegnare i misteri della probabilità, ma nessuno li ha ancora insegnati a loro.

Dove si va per questa strada? In un luogo assai insicuro, dove però, almeno, le cose son dette per quel che sono.

Il diritto penale lo fa il giudice hic et nunc e, per quanto lo desideri, nessun giudice potrà mai attingere ad alcunché che sia una prova vera oltre il ragionevole dubbio.

Mai. Né nella causa né in qualunque altro campo del diritto penale.

La farsa del giudice gran custode della buona scienza nel processo

La prova è facile, sta nelle cose, cioè nella giurisprudenza d’amianto. Il dibattito in corso usa ancora le vecchie parole e le usa male. Una colta sentenza del 2008, passata alla storia come sentenza “Cozzini”, prova ad alzare il livello del dibattito epistemologico della giurisprudenza penale, ma con scarso esito.

Seguendo la Corte Suprema Usa – che ha compreso la gravità del problema del giudice che deve decidere di scienza, ma non sa quasi nulla di scienza e ha aperto il dibattito nel 1992 con la celeberrima sentenza Daubert – la Corte di Cassazione con Cozzini sancisce, nel 2008, che il giudice deve diventare il custode (il gatekeeper) del buon metodo della scienza nel processo.

Chi può fare però il guardiano di qualcosa che non conosce? Chi può arbitrare una partita di baseball se non conosce le regole del gioco?

Per meritare tanto onore è il caso che il giudice torni a studiare e difatti negli Usa e non solo negli Usa germinano ovunque progetti culturali di ammaestramento del giudice nei vari campi delle scienze che durante i processi sempre più spesso gli capita di dover incontrare.

La National Academy of Sciences, di concerto con i vertici dell’apparato della Giustizia, chiamano a raccolta i migliori scienziati e dal lavoro nasce un Manuale di Riferimento dell’Evidenza Scientifica, giunto ormai alle terza edizione.

Il libro – che contiene un capitolo dedicato alla statistica e uno all’epidemiologia, ma anche a ciascuna di altre plurime scienze che siano le classiche scienze forensi oppure no (ci sono anche le neuro scienze), è inviato a tutti i giudici della nazione. Innumerevoli altre iniziative sorgono quasi ovunque, negli Usa, ma anche nel Regno Unito, in Germania ecc.

In Italia, no, non succede nulla: il ceto dei giuristi si è chiuso a riccio a difesa del proprio monopolio sul linguaggio del diritto penale, e non vuol cambiare o forse non può cambiare, ma ha dimenticato che il diritto penale è affare di tutti e che chiunque oggi è chiamato a render conto a chi l’amministra delle ragioni per cui la giustizia è caduta così in basso.

la Corte di Cassazione con Cozzini sancisce, nel 2008, che il giudice deve diventare il custode (il gatekeeper) del buon metodo della scienza nel processo. Chi può fare però il guardiano di qualcosa che non conosce? Chi può arbitrare una partita di baseball se non conosce le regole del gioco?

Un giudice ignaro di scienza alla lunga produce scarsa fiducia della società nella Giustizia. Un giudice ignaro di scienza ma che ha il potere di decidere sulla scienza può credere facilmente di poter decidere in qualunque modo voglia.

Che cosa accade, allora?

Se la Corte di Cassazione, in Cozzini, dice che il giudice deve stabilire se esiste sufficiente consenso scientifico intorno all’ipotesi – che intanto si è fatta strada – che ogni periodo di esposizione almeno accelera il progresso della malattia, anticipando il momento di verificazione dell’evento, i giudici si adeguano.

Un giudice dice che la legge scientifica che stabilisce una correlazione inversa tra durata dell’esposizione e tempo dell’evento è sorretta dal consenso della comunità scientifica, e quindi consente di concludere che qualunque esposizione abbrevia il tempo d’insorgenza dell’evento, accelerandolo.

Ma l’altro giudice non vede quel consenso e anzi gli pare vero l’opposto, perché non vede nemmeno la legge scientifica, e non si comprende se il secondo giudice sia cieco o il primo Giudice veda quel che vuol vedere.

Il primo condanna il secondo assolve, per lo stesso fatto. Né l’uno né l’altro, però, saprebbero rispondere alla domanda, effettivamente molto molto difficile, «che cosa è una legge scientifica?».

Il primo condanna il secondo assolve, per lo stesso fatto. Né l’uno né l’altro, però, saprebbero rispondere alla domanda, effettivamente molto molto difficile, «che cosa è una legge scientifica?»

La domanda però è del tutto legittima. Il concetto di “legge scientifica” è un costrutto della filosofia della scienza e non della scienza; di più, è un costrutto di una certa filosofia della scienza, e non di un’altra. Lo scienziato fa tranquillamente a meno del concetto di “legge scientifica”.

Il giudice non fa scienza e non sa di filosofia, però deve decidere un fatto intriso di scienza. Il giudice deve studiare tutta la scienza pertinente al fatto che ha il dovere di decidere.

Nessun giudice è stato addestrato a valutare il peso dell’evidenza della scienza empirica che pure dovrebbero usare nel processo, e il fatto che il giudice – non per sua colpa incolto di tecnica e limiti propri del metodo delle scienze empiriche – sia pomposamente chiamato e nominato sul campo – da altri giudici come lui – Custode del Metodo della Scienza nel processo penale, da noi, in Italia, è quindi solo una bizzarria.

È un altro curioso esempio di tragedia che diventa farsa.

 

 

(5/Continua)

 

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