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02.04.2019
Redazione

Esegesi giuridica, tra mitologia e… fantasia

“I giuristi non possono permettersi il lusso della fantasia”. Ho sempre letto con uno sgomento profondo questa frase del mio vecchio maestro Piero Calamandrei, e volentieri l’ho collocata nell’urna di quel masochistico positivismo giuridico di cui si sono cibati avidamente e si sono saziati soddisfatti i nostri padri; volentieri l’ho sempre letta come il segno d’un territorio irrecuperabilmente passato, al quale mi sento di non appartenere.

«I giuristi, questi esegeti di costruzioni altrui, questi frati conversi vocati soltanto al servizio, non potevano permettersi il lusso della fantasia come non se la posson mai permettere un cancelliere o un segretario che devon sempre identificare nella fedeltà (fedeltà a un qualcosa a loro esterno ed estraneo) il sommo delle virtù professionali».

Il politico aveva in sua mano ogni scelta; al giurista – fosse egli giudice o dottore – era riservato il campicello magro e risecchito dell’esegesi, un campicello cintato verso tutto il resto da mura altissime e insuperabili e percorso soltanto dai canali della logica formale, che nascevano al suo interno e che davano solo una parvenza di vitalità attiva a chi ne attingeva.

P. Grossi, La fantasia nel diritto, in Quaderni fiorentini, XV, 1986, p. 589.

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