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Fascicolo 11/2020

Abstract. L’elaborato, previa analisi e commento della recente sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 12348/2020, la cui motivazione è stata depositata il 16 aprile 2020, si propone di mettere in luce l’innovatività di tale sentenza e i risvolti applicativi dalla stessa indotti.

 

SOMMARIO: 1. La quaestio. – 2. Il contrasto giurisprudenziale sugli elementi della fattispecie. – 3. La sentenza SS.UU. n. 12348/2020. – 4. Alcune considerazioni applicative.

1. La quaestio.

Con ordinanza n. 35436 dell’11 giugno 2019 la Terza Sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla rilevanza penale della condotta di coltivazione in forma domestica di cannabis, ha evidenziato l’esistenza di un contrasto interpretativo in seno alla giurisprudenza di legittimità circa la nozione giuridica di “coltivazione” di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti, motivo per cui, ai sensi dell’art. 618, c. 1, c.p.p., ha rimesso la vexata quaestio al vaglio delle Sezioni Unite[1].

Nell’ordinanza di rimessione si mettono a confronto due differenti indirizzi delineatisi nella giurisprudenza di legittimità. Secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato[2].

Secondo un diverso orientamento, ai fini della punibilità della coltivazione di stupefacenti, l’offensività della condotta consiste invece nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, rilevando non la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente[3].>

Con ordinanza n. 35436 dell’11 giugno 2019 la Terza Sezione della Corte di Cassazione […] ha evidenziato l’esistenza di un contrasto interpretativo […] circa la nozione giuridica di “coltivazione” di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti, motivo per cui […] ha rimesso la vexata quaestio al vaglio delle Sezioni Unite

Veniva, dunque, richiesto l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite, ai fini di una positiva definizione della nozione di offensività in concreto del reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti.

Si chiedeva, in particolare, di chiarire:

«se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato».

Si chiedeva, in particolare, di chiarire «se […] è sufficiente che la pianta […] sia idonea […] a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato»

2. Il contrasto giurisprudenziale sugli elementi della fattispecie.

La questione sottoposta alle Sezioni Unite coinvolgeva la fattispecie penale di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo Unico delle leggi delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il quale statuisce: «chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17 coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, […], consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro ventisei mila a euro duecentosessanta mila». Ai sensi del comma terzo, «le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione».

Si tratta dunque di una norma che sanziona penalmente la detenzione degli stupefacenti finalizzata ad una successiva cessione a terzi, laddove, per contro, la detenzione per uso personale non è una condotta penalmente rilevante, ma è sanzionabile unicamente in via amministrativa da parte del Prefetto, ai sensi dell’art. 75 del d.P.R.

Sulla base della lettera dell’art 73 citato, sembrerebbe che la coltivazione di sostanze stupefacenti ad uso personale non sia penalmente rilevante; tuttavia, l’art. 75 del d.P.R. non menziona, tra le condotte punibili con sanzione amministrativa, quella di coltivazione per mero uso personale.

Proprio per questo motivo, è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 medesimo in relazione ai parametri di cui agli  artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., questione ritenuta infondata da parte della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 360 del 1995[4], ha evidenziato l’insussistenza, alla luce del diritto vivente, della denunciata disparità di trattamento, in quanto la condotta delittuosa di coltivazione, prevista dall’art. 73 d.P.R. 309/90, non sarebbe assimilabile a quelle di detenzione, acquisto e importazione di sostanze stupefacenti per uso personale. Si osservava, in proposito, che fra le condotte in esame sussistono due differenze:

  1. mentre le condotte di detenzione, acquisto e importazione di sostanze stupefacenti per uso personale sono collegate immediatamente e direttamente all’uso della sostanza, in quanto condotte direttamente antecedenti al consumo, nel caso della coltivazione manca un nesso di immediatezza con l’uso personale;
  2. ancora, nella detenzione, nell’acquisto e nell’importazione, il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri indici soggettivi ed oggettivi della condotta, una valutazione prognostica della sua destinazione; nel caso della coltivazione, invece, tale dato non è apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicché la conseguente valutazione della destinazione ad uso personale, piuttosto che ai fini di spaccio, risulta ipotetica.

Questi due elementi giustificavano, a detta della Corte, una soluzione più severa, stante la maggiore pericolosità della condotta di coltivazione, in quanto ritenuta destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato. Spetterà poi al giudice di merito, prosegue la Consulta, valutare l’offensività della condotta in concreto e, dunque, la sua eventuale inidoneità a ledere il bene giuridico protetto dalla norma ovvero il bene pubblico.

Questi due elementi giustificavano, a detta della Corte, una soluzione più severa, stante la maggiore pericolosità della condotta di coltivazione, in quanto ritenuta destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato. Spetterà poi al giudice di merito, prosegue la Consulta, valutare l’offensività della condotta in concreto

Questo ragionamento è stato ripreso, anni dopo, dalla Corte Costituzionale stessa nella sentenza n. 109 del 2016, con cui, alla luce dei parametri di cui agli artt. 3, 13, c. 2, 25, c. 2, e 27, c. 3, Cost., è stata ribadita l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 d.P.R. 309/1990 nella parte in cui esclude che tra le condotte di reato suscettibili di sola sanzione amministrativa perché finalizzate all’uso esclusivamente personale dello stupefacente possa rientrare quella di coltivazione[5]. Quest’ultima condotta, infatti, posta la necessaria valutazione in concreto dell’offensività della condotta, avrebbe l’attitudine a creare nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, che ne agevolano indirettamente la diffusione.

I principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale sono stati ripresi anche dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare dalle Sezioni Unite nella sentenza 24 aprile 2008, n. 28605.

A questo orientamento se ne è però contrapposto, nello stesso anno, un altro che, facendo leva sugli artt. 2 e 32 Cost., ha ricondotto l’offensività dell’illecito di coltivazione alla capacità, effettiva ed attuale, della sostanza ricavabile dalla coltivazione a determinare un effetto drogante, ossia a produrre nell’assuntore alterazioni di natura psico-fisica, escludendo così la rilevanza penale della condotta di coltivazione qualora il ciclo di maturazione delle piante, pur conforme al tipo botanico, non sia tale da produrre, al momento dell’accertamento, un principio attivo dotato di efficacia drogante, a prescindere da una sua futura eventuale produzione[6].

A questo orientamento se ne è però contrapposto […] un altro che […] ha ricondotto l’offensività dell’illecito di coltivazione alla capacità, effettiva ed attuale, della sostanza […] a determinare un effetto drogante, […] escludendo così la rilevanza penale della condotta di coltivazione qualora il ciclo di maturazione delle piante […] non sia tale da produrre […] un principio attivo dotato di efficacia drogante

Negli ultimi anni, la giurisprudenza si è divisa ulteriormente sul concetto di «offensività in concreto» intorno ai due differenti filoni interpretativi richiamati nell’ordinanza di rimessione (v. supra, par. 1), che condividono l’ovvio presupposto della conformità al tipo botanico vietato della pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, confliggendo invece sulla verifica o meno dell’accertamento della sua efficacia drogante.

3. La sentenza SS.UU. n. 12348/2020.

Partendo da queste premesse, le Sezioni Unite, con sentenza n. 12348/2020, la cui motivazione è stata depositata il 16 aprile 2020, hanno rilevato che l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di coltivazione di piante stupefacenti evidenzia alcuni punti fermi e altri problematici.

Punti fermi per il configurarsi della fattispecie sono, ad avviso della Cassazione, due: a) la necessaria conformità della pianta al tipo botanico vietato; b) la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione (il ricorso a strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate), a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.

Diversamente, in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale e dalla citata sentenza di legittimità del 2008, le Sezioni Unite hanno ritenuto che fosse da rivedere l’affermazione circa la rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando tale condotta sia finalizzata a produrre la sostanza per uso personale, dovendosi operare una distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica.

L’equiparazione fra questi due concetti si fonda sulla distinzione (e conseguente autonomia) della condotta di coltivazione rispetto a quella di detenzione, distinzione che trova conferma non solo nella giurisprudenza costituzionale sopra richiamata ma anche in plurime disposizioni del T.U. sugli stupefacenti (fra le altre, come visto, gli artt. 73 e 75). Infatti, un’interpretazione che non ritenesse autonomi i due concetti suddetti si porrebbe in contrasto tanto con il dato normativo quanto con la stessa voluntas legis di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, anche anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.

Nonostante la sua autonomia concettuale, è però necessario distinguere la coltivazione tecnico-agraria dalla coltivazione domestica, accogliendo un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale, tanto più considerando la sua natura di reato di pericolo presunto[7].

La definizione di coltivazione tecnico-agraria, in particolare, si ricava – a detta della Corte – dagli artt. 27-30 d.P.R. 309/90, i quali richiamano elementi evocativi di una tale forma di coltivazione (fra gli altri, si parla di «particelle catastali» e di «superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione»), di apprezzabili dimensioni e realizzata per finalità commerciali e non domestiche.

Nonostante la sua autonomia concettuale, è […] necessario distinguere la coltivazione tecnico-agraria dalla coltivazione domestica, accogliendo un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale

Seppur sia vero, come affermato dalla sentenza n. 109 del 2016 della Corte Costituzionale, già sopra citata, che la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti, tale affermazione non è confacente alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, finalizzate a soddisfare esigenze personali, le quali hanno, per definizione, una produttività assai ridotta, insuscettibile di aumentare significativamente la disponibilità di stupefacenti sul mercato. La «prevedibilità della potenziale produttività» è, dunque, uno dei parametri che permettono di distinguere fra coltivazione penalmente rilevante, caratterizzata da una produttività non prevedibile, e coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come assai esigua.

Afferma la Corte, però, che tale parametro deve essere ancorato ad altri elementi oggettivi, i quali tutti devono venire ad esistenza, ovvero:

«a) la minima dimensione della coltivazione, b) il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, c) la rudimentalità delle tecniche utilizzate, d) lo scarso numero di piante, e) la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, f) l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore».

La mancanza di uno solo di tali elementi non permette di escludere la rispondenza della condotta alla fattispecie incriminata, poiché deve sussistere «un nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale».

La «prevedibilità della potenziale produttività» è […] uno dei parametri che permettono di distinguere fra coltivazione penalmente rilevante, caratterizzata da una produttività non prevedibile, e coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come assai esigua […]. Però […] tale parametro deve essere ancorato ad altri elementi oggettivi

Oggetto giuridico della tutela è, infatti, la salute individuale e collettiva, la cui rilevanza consente di accordare una protezione anticipata rispetto al verificarsi della lesione, con la sola esclusione dell’ipotesi di coltivazione domestica, che, alle condizioni sopra richiamate, non si reputa minacci tale bene giuridico. Rimane salvo il compito affidato al giudice di verificare in concreto l’effettiva lesione o il concreto pericolo per il bene-interesse tutelato, una verifica che dipenderà dal «grado di sviluppo della coltivazione al momento dell’accertamento». In particolare, la Corte ha precisato che potranno rilevare, al fine di escludere la punibilità:

«a) un’attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga».

Questa soluzione è in linea con le fonti europee, in particolare la decisione quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), la quale, dopo aver indicato le condotte connesse al traffico di sostanze stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione Europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui la coltivazione della cannabis), esclude dal proprio campo applicativo le condotte (coltivazione compresa) «tenute dai loro autori soltanto ai fini del […] consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali» (art. 2, paragrafo 2).

In conclusione, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, laddove ricorrano le circostanze sopra indicate, venga meno la tipicità della condotta di coltivazione domestica destinata ad uso personale, condotta in relazione alla quale non potrà trovare applicazione l’art. 75 d.P.R. 309/1990, poiché tale disposizione, come visto, non si riferisce in nessun caso alla coltivazione.

Qualora, però, tale coltivazione domestica consenta di produrre una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell’art. 75 del d.P.R. potranno essere applicate al soggetto agente in qualità di detentore di sostanza a fini di autoconsumo e non come coltivatore. Diversamente, in presenza di una coltivazione penalmente rilevante, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione, in quanto la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come non punibile, in quanto normale sviluppo della condotta incriminata.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, laddove ricorrano le circostanze sopra indicate, venga meno la tipicità della condotta di coltivazione domestica destinata ad uso personale […]. Qualora, però, tale coltivazione domestica consenta di produrre una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative […] potranno essere applicate al soggetto agente in qualità di detentore di sostanza a fini di autoconsumo

La Corte ha affermato così, il seguente principio di diritto:

«Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».

4. Alcune considerazioni applicative.

Con la sentenza in esame, la Suprema Corte è andata ad incidere nuovamente sulla rilevanza penale del consumo personale di sostanze stupefacenti, tanto da escluderla definitivamente, quale che ne sia la derivazione.

«Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore»

Cass. pen. SS.UU. n. 12348/2020

Posto che, come visto, la detenzione per uso strettamente personale è stata ab origine riconosciuta come una condotta irrilevante penalmente e punibile solo con una mera sanzione amministrativa, è opportuno ricordare che già nel 2013 la stessa Cassazione a Sezioni Unite aveva dato una spinta decisiva in tal senso, statuendo l’irrilevanza penale (ma solo quale illecito amministrativo) dell’acquisto o detenzione di sostanza stupefacente destinata all’uso di gruppo, purché sia accertato che tale attività sia destinata ad un consumo proprio, sin dall’inizio avvenga anche per conto di soggetti diversi dall’agente e sia certa l’identità di questi ultimi (cfr. Cass. pen., Sez. un., 31 gennaio 2013, n. 25401).

Pertanto, decisiva è stata la pronuncia in esame, che ha escluso in toto la rilevanza penale della condotta di consumo personale di stupefacenti, così da aprire la strada al legislatore per scelte di politica criminale progressiste.

Infatti, fino alla pronuncia della sentenza in parola, che può a pieno titolo essere considerata una sentenza “storica” per la sua portata innovatrice, si creava l’assurda situazione in cui, mentre comprare illegalmente cannabis da uno spacciatore, alimentando il traffico di sostanze stupefacenti (anche in forma organizzata) e mettendo a rischio la propria salute con prodotti di incerta qualità, non costituiva illecito penale, diversamente la condotta di colui che coltivava alcune piante di cannabis all’interno della propria abitazione per uso personale era sanzionabile penalmente.

Rimangono, però, alcune incertezze, legate al costante problema di trasporre nella pratica quanto affermato in teoria. Il principio di diritto richiama, infatti, indici di riferimento generici e definibili diversamente a seconda delle interpretazioni; lo «scarso numero di piante», il «modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile», la «mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti», sono concetti che richiederanno il necessario intervento del giudice ai fini della determinazione in concreto dell’offensività della condotta[8].

Queste problematiche, oggetto di varie proposte e discussioni in atto tese ad ottenere la legalizzazione della cannabis, ispirandosi a quanto avvenuto negli Stati Uniti[9], confermano l’esigenza di un intervento del legislatore al fine di determinare con maggior precisione i confini di liceità delle condotte concernenti il consumo di stupefacenti di ridotta efficacia drogante (e anche la loro commercializzazione, ma di questo argomento non si tratterà in questa sede).

È un tema “scomodo”, esposto a sensibilità, pregiudizi e incertezze in ordine ai rischi sociali derivati e difficile da definire. Solo una presa di posizione decisa e scientificamente fondata da parte del legislatore potrebbe fugare i dubbi che tutt’ora governano la materia e incidono sulla situazione di coloro che si trovano coinvolti in certe vicende[10]. Verrebbe da concludere: in dubio pro reo.

Rimangono, però, alcune incertezze, legate al costante problema di trasporre nella pratica quanto affermato in teoria […]. È un tema “scomodo”, esposto a sensibilità, pregiudizi e incertezze in ordine ai rischi sociali derivati e difficile da definire. Solo una presa di posizione decisa e scientificamente fondata da parte del legislatore potrebbe fugare i dubbi che tutt’ora governano la materia

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[1] Il testo dell’ordinanza è pubblicato in Sistema penale, 23 dicembre 2019, a questo link.

[2] L’ordinanza richiama, sul punto, i seguenti arresti precedenti: Cass. pen., sez. III, 22 luglio 2017, n. 36037; Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 8058; Cass. pen., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 5254; Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2014, n. 33835.

[3] Con riguardo a questo secondo orientamento, la Cassazione menziona le seguenti sentenze: Cass. pen., sez. VI, 28 aprile 2017, n. 35654; Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 2016, n. 53337; Cass. pen., sez. VI, 22 novembre 2016, n. 52547; Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2016, n. 25057; Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2016, n. 23881.

[4] Il testo della sentenza è disponibile sul sito della Consulta, a questo indirizzo.

[5] Si veda il testo della sentenza citata a questo link del sito della Consulta.

[6] Cfr. Cass. pen., sez. IV, 28 ottobre 2008; nello stesso senso, anche Cass. pen., sez. VI, 21 ottobre 2015, n. 2618.

[7] Nei reati di pericolo, il bene giuridico protetto dalla norma è solo minacciato, nel senso che la lesione non si è ancora verificata ma si può potenzialmente verificare. Il pericolo può essere concreto, presunto  o astratto. Nei reati di pericolo concreto, il legislatore contempla espressamente, all’interno della fattispecie, il requisito del pericolo; laddove si tratti di reati di pericolo astratto o presunto, invece, la fattispecie normativa non fa alcun riferimento al requisito del pericolo, limitandosi a descrivere quei comportamenti di cui è “presunta” la pericolosità.  Si è arrivati, però, a distinguere il vero e proprio pericolo presunto dal pericolo astratto. In quest’ultimo caso, il pericolo si considera esistente a priori, alla luce della natura del reato in esame, ma è ammessa la prova del non verificarsi del medesimo nel caso concreto; nei reati di pericolo presunto, invece, l’esistenza del pericolo è certa e nessuna difesa è ammessa circa l’inesistenza nel caso concreto di una situazione di pericolo.

[8] A. Continiello, La coltivazione in forma domestica di stupefacenti per uso personale, alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite. Una questione ancora controversa, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 1.

[9] Negli Stati Uniti sono undici gli stati che hanno legalizzato l’uso di cannabis a scopo ricreativo e altri sedici hanno depenalizzato tale condotta, tant’è che è in corso una battaglia per la liberalizzazione federale della cannabis.

[10] D. Notaro, La commercializzazione della cannabis light fra divieti e istanze di legalizzazione, in Giurisprudenza Italiana, 1 novembre 2019, n. 11, pp. 2519 ss.

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