Perché la criminalità dei c.d. “colletti bianchi”, ossia la criminalità commessa da coloro che operano nel settore economico, finanziario, produttivo e politico o che amministrano, più o meno ad alti livelli, strutture pubbliche o private, desta poco o nessun allarme sociale?
Perché i loro illeciti, nonostante la loro ampia diffusione e la loro rilevante dannosità, sono tra quelli meno perseguiti, processati e sanzionati?
Del resto, come rilevano i sociologi del diritto, la criminalizzazione di una certa condotta dipende sia dalle esigenze collettive sia dalle finalità che vogliono essere perseguite: essa rappresenta il momento finale di un iter, a volte lungo ed altamente conflittuale, nel quale entrano in gioco interessi di varia natura (come quelli economici, commerciali, ideologici o semplicemente politici) e si esercita la forza dei diversi gruppi di potere, per mantenere o sovvertire l’ordine costituito.
Vi sono dunque complesse e variegate ragioni socio-culturali, che, insieme a considerazioni prettamente pratiche – la scarsa visibilità degli illeciti dei potenti, che, almeno in apparenza, rende “poco fastidiosa” per la società la loro stessa esistenza, e le straordinarie difficoltà probatorie che il relativo accertamento comporta – finiscono con l’accordare, fin troppo spesso, una vera e propria garanzia di impunità per i responsabili dei crimini economici.
Eppure, è proprio la presa di coscienza di questo stato di cose che potrebbe indicare, a un legislatore intellettualmente onesto, e dunque seriamente intenzionato a contrastare questa forma di criminalità, i possibili percorsi da seguire.
Gli stessi percorsi su cui DPU intende ora avventurarsi, nell’ambito del cantiere aperto sul rapporto tra diritto penale, potere ed economia: un laboratorio transdisciplinare animato dalla volontà di tenere alta l’attenzione su questi temi, attraverso azioni di tipo scientifico-culturale, riflessioni, indagini, ricerche e proposte mirate di intervento.