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05.10.2019
Tommaso A. Dragani

Genetic constitution can affect aggressive behaviour

Issue 4/2019

Abstract. Aggressive behaviour is a characteristic of behaviour and, from an evolutionary point of view, is fundamental for the survival of animals in an often hostile environment characterised by limited resources. In the legal sphere, the role of the environment in triggering aggressive behaviour is sometimes invoked as a mitigating factor in the case of violent offences. However, the law does not cover the possible role of the individual genetic make-up as a risk factor for aggressive behaviour; however, this role has been studied from a genetic point of view in many animal models and in humans. Practically all the studies carried out in the various animal models have made it possible to establish that genetics makes an important contribution to aggressive behaviour. In humans, aggressive behaviour provides some advantages, but can also cause serious personal and social problems, particularly when it is impulsive and uncontrolled or, quite the opposite, intentional and premeditated. In humans, most genetic studies have indicated the existence of associations between aggressiveness and genetic variants in genes involved in dopaminergic and serotonergic neurotransmission, hormonal regulation and neuronal development. Overall, studies in humans cannot yet be considered conclusive, as further studies are needed to characterise the profile of individual genetic risk associated with aggression definitively. In summary, while any crime (including those related to aggressive behaviour) is the result of individual decisions and, therefore, remains subject to the penalties provided for by law, genetic predisposition could constitute a risk factor for certain types of violent crime.

 

SUMMARY: 1. Introduction. – 2. Genetic variations and studies of association. – 3. Studies on animal models. – 4. Studies in man. – 5. Conclusions.

1. Introduzione.

Esistono diverse fattispecie di reato e in quasi tutti i casi sono previste circostanze attenuanti o aggravanti. Alcune di esse sono di tipo soggettivo ed altre sono definite oggettive. Il codice penale dà giustamente rilievo alla condotta personale del reo e alle eventuali recidive. Nella valutazione del reo non si tiene invece in alcun conto del fatto che alcuni comportamenti violenti possano in qualche modo essere condizionati da una predisposizione innata al comportamento aggressivo. Tale predisposizione genetica potrebbe far sì che alcuni individui siano a più alto rischio di altri nel manifestare comportamenti aggressivi e, quindi, a parità di circostanze (ad esempio in caso di provocazione) alcuni individui potrebbero essere a più alto rischio di commettere un reato rispetto ad altri.

Dal punto di vista evolutivo, il comportamento aggressivo negli animali permette di sopravvivere, difendendosi dai predatori, e di accoppiarsi ed, inoltre, permette di stabilire gerarchie, in un ambiente caratterizzato da risorse limitate.

Negli animali sociali, sia gli alti che i bassi livelli di aggressività individuale sono nocivi per la sopravvivenza, e la selezione della specie può avere stabilizzato entro certi limiti il comportamento aggressivo, permettendo di ottimizzare l’acquisizione e l’allocazione del cibo, il mantenimento della coesione all’interno dei gruppi, la difesa del territorio e la difesa dai nemici esterni. Durante l’addomesticamento degli animali, i tratti associati all’aggressività, in particolare la paura e la tolleranza allo stress, sono stati modificati attraverso la selezione degli animali che risultavano più adatti a vivere con l’uomo, a lavorare, o a vivere in gruppi numerosi.

In maniera analoga, negli esseri umani il comportamento aggressivo fornisce alcuni vantaggi nella competizione, nella riproduzione e nella dominanza nelle gerarchie, ma se espresso nel contesto sbagliato può causare seri problemi sociali, in particolare quando il comportamento aggressivo risulta essere impulsivo e incontrollato oppure intenzionale e premeditato.

Il comportamento aggressivo umano è stato solitamente classificato con i termini di aggressione «proattiva» e «reattiva». L’aggressione proattiva è premeditata ed è legata ad una ridotta sensibilità emotiva, spesso senza rimorso o rammarico, mentre l’aggressione reattiva è, al contrario, legata ad una eccessiva sensibilità emotiva e provoca una reazione esagerata a fronte della percezione di una minaccia[1].

Nello studio sui fattori genetici coinvolti nel comportamento aggressivo, sono stati utilizzati modelli animali che possono rappresentare uno strumento cruciale per verificare la plausibilità del ruolo della genetica nel comportamento aggressivo e per generare ipotesi sul meccanismo d’azione dei geni coinvolti.

Ovviamente, i risultati ottenuti nei modelli animali non possono essere generalizzati al comportamento umano, sia perché negli animali non è possibile studiare fenomeni associati con la comunicazione complessa che caratterizza il comportamento umano, sia per le ovvie differenze nel DNA tra specie diverse che fa sì che, ad esempio, una determinata variazione genetica, frequente in una determinata specie, sia invece del tutto assente in un’altra.

Il comportamento aggressivo fornisce alcuni vantaggi nella competizione, nella riproduzione e nella dominanza nelle gerarchie, ma se espresso nel contesto sbagliato può causare seri problemi sociali

2. Le variazioni genetiche e gli studi di associazione.

Il completamento dell’intera sequenza del DNA umano e le nuove tecnologie di sequenziamento hanno permesso di scoprire che nel corredo genetico umano esistono oltre 300 milioni di variazioni a carico di singole basi nucleotidiche[2] (definite SNPs, single nucleotide polymorphisms, polimorfismi a singolo nucleotide, con pronuncia «snip»).

Questo significa che, sebbene la struttura della sequenza del DNA sia la stessa per ogni persona (l’ordine e il tipo di geni sono identici), esistono sottili variazioni individuali nella sequenza nucleotidica. Considerato il numero di SNPs e la lunghezza del genoma umano (circa 3,5 miliardi di basi nucleotidiche)[3], si può stimare che all’incirca ogni 10 nucleotidi identici in tutti gli individui si trova un nucleotide diverso in alcuni di noi: questo è ciò che è definito come polimorfismo genetico.

Gli SNPs possono coinvolgere diverse regioni del nostro DNA. Ad esempio, se sono presenti all’interno degli esoni – le regioni del DNA che codificano per le proteine (vale a dire, che portano l’informazione genetica per fabbricare una o più proteine) –, essi possono modificare la struttura della proteina codificata. Infatti, il polimorfismo genetico, se determina un cambiamento degli amminoacidi che compongono la proteina codificata, ossia della struttura proteica, può influenzare l’attività biochimica di tale proteina modificandone, ad esempio, la capacità di riconoscere altre molecole (substrati) con le quali interagisce.

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Uno SNP presente negli introni[4] o in altri tratti di DNA non codificante, a funzione per lo più ignota o regolatoria, può alterare i livelli di espressione dei geni vicini, e quindi la quantità di proteine codificate da tali geni; o, ancora, può non avere alcuna funzione che sia nota al momento.

In ogni caso, l’attività funzionale di un polimorfismo deve essere provata con test biologici o biochimici adeguati, e non può essere stabilita a priori.

Nella pratica quotidiana, le analisi delle variazioni genetiche sono usate da tempo per i test di paternità o in campo investigativo per stabilire se due prelievi di DNA (per esempio, uno da frammenti di pelle o capelli ritrovati sulla scena di un crimine e l’altro dal sangue di individui sospettati del reato) appartengano o meno alla stessa persona.

La conoscenza dell’intera sequenza del genoma umano e la scoperta degli SNP hanno spalancato le porte a molte nuove prospettive e speranze. In particolare, alcuni ricercatori sostengono che tramite l’analisi degli SNP sarebbe possibile determinare quelle varianti genetiche in grado di predire la suscettibilità individuale alle malattie più comuni, compresi i tumori e, inoltre, predire anche i tratti fenotipici più svariati, quali ad esempio, l’altezza e l’etnia.

Inoltre, l’identificazione delle variazioni genetiche associate al rischio di determinate malattie potrà permettere la scoperta di nuovi meccanismi associati a tali malattie e di nuovi bersagli genetici, con la speranza di poter offrire nuove strategie di cura, basate sulle funzioni biochimiche delle varianti alleliche[5] in grado di contrastare lo sviluppo delle malattie.

Le metodologie attuali consentono di effettuare studi sull’intero genoma, sia in modelli animali che nell’uomo.

Nei modelli animali nei quali si studiano famiglie (pedigree) ottenute incrociando individui caratterizzati da fenotipo – il complesso, cioè, delle caratteristiche morfologiche del singolo – diverso (ad esempio, bassa o elevata aggressività), la genotipizzazione[6] di un migliaio di SNPs è sufficiente a fornire la copertura dell’intero genoma, a causa del ridotto numero di ricombinazioni genetiche che possono avvenire in una determinata famiglia.

Per contro, nell’uomo, la copertura dell’intero genoma è assicurata dalla genotipizzazione contemporanea di diversi milioni di SNPs in ogni individuo.

3. Studi su modelli animali.

Il comportamento aggressivo è stato studiato dal punto di vista genetico in numerosi modelli animali, sia per motivi di indagine scientifica sia per i risvolti economici che tali conoscenze possono avere – ad esempio, nella gestione degli allevamenti di animali la cui carne o i cui prodotti sono utilizzati nell’alimentazione –.

Tali studi sono condotti con un disegno sperimentale molto semplice: in genere si incrociano ceppi[7] di animali aggressivi con ceppi della stessa specie che sono, però, non aggressivi. L’incrocio viene ripetuto anche nella progenie, ottenendo così un pedigree (nonni – genitori – figli) di animali, alcuni dei quali saranno aggressivi e altri no. A questo punto si conduce l’analisi del DNA su tutto il genoma, utilizzando dei marcatori genetici appropriati, in genere gli SNPs. L’incrocio dei dati genetici con quelli fenotipici (aggressività o non-aggressività) permette, infine, di individuare il numero dei loci genetici[8] coinvolti, le loro relative posizioni cromosomiche, ed i geni candidati ad ognuno dei loci individuati.

Per citare solo qualche esempio, lo studio di Li et al. ha analizzato il comportamento aggressivo dei polli conducendo uno studio sull’intero genoma. I risultati dello studio hanno dimostrato che 33 varianti genetiche sono associate con il comportamento aggressivo[9]. L’analisi dei geni candidati ha permesso di stabilire il coinvolgimento della via dopaminergica[10] nella regolazione genetica del comportamento aggressivo.

Lo studio di Lutz et al. ha indagato la genetica del “beccare aggressivo” delle galline ovaiole[11]. Si tratta di un aspetto che pone dei problemi economici e di benessere seri negli allevamenti avicoli. I risultati dello studio hanno indicato che i tratti comportamentali associati all’aggressività sono controllati da molti geni, ognuno dei quali è caratterizzato da un piccolo effetto; pertanto, non è proponibile la selezione delle galline ovaiole non aggressive utilizzando marcatori genetici.

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Lo studio di Zapada et al., invece, è stato condotto sul comportamento di timore e rabbia/aggressione dei cani[12]. Gli autori dello studio hanno condotto una analisi dell’intero genoma in diverse centinaia di cani di razze diverse, in relazione con i tratti fenotipici di paura e di aggressione. I risultati dello studio hanno permesso di individuare quattro loci genetici evolutivamente selezionati nei cani; alcuni di questi sono associati sia con il comportamento che con la morfologia della razza. Hanno inoltre dimostrato che i geni coinvolti sono espressi abbondantemente nelle regioni cerebrali che comprendono l’anatomia di base della paura e dell’aggressione, ovvero l’asse che va dall’amigdala all’ipotalamo-ipofisi-surreni. Gli autori hanno concluso ipotizzando che le varianti genetiche associate alla riduzione del timore possano essere state coinvolte nel processo di addomesticamento dei cani.

Diversi studi si sono posti l’obiettivo di individuare i fattori genetici responsabili dell’aggressività di alcuni ceppi inbred di topi di laboratorio. Per ceppo inbred si intende un gruppo di animali che è stato ottenuto attraverso l’incrocio di fratelli con sorelle per diverse decine di generazioni, risultando così in una popolazione geneticamente uniforme; praticamente tutti gli animali dello stesso ceppo hanno lo stesso corredo genetico, come se si trattasse di gemelli omozigoti.

Lo studio di Dow et al., ad esempio, ha incrociato topi del ceppo BALB/cJ, i cui maschi sono caratterizzati da una notevole aggressività verso altri topi (sia dello stesso ceppo che di altri ceppi) presenti con loro nella stessa gabbia, con i topi del ceppo A/J, che sono, invece molto poco aggressivi[13]. L’analisi dell’intero genoma ha permesso di identificare 3 loci genetici, localizzati sui cromosomi 5, 10 e 15, associati con il comportamento aggressivo dei topi di laboratorio.

4. Studi sull’uomo.

Numerosi studi sono stati condotti sui fattori di rischio associati al comportamento aggressivo nell’uomo. Quello che è emerso dai risultati di tali studi è che il comportamento aggressivo ha sia componenti genetiche che ambientali. Ad esempio, per quanto riguarda i fattori ambientali, è stato osservato che i bambini che hanno esperienze di maggiori conflitti familiari e che sono stati esposti a genitori ostili e/o coercitivi, hanno maggiori probabilità di porre in essere comportamenti aggressivi, rispetto ai coetanei che hanno avuto minore esposizione a tali fattori di rischio[14]. Come riassunto negli studi di Waltes et al.[15] e di Veroude et al.[16], entrambi di revisione della letteratura sull’argomento, la maggior parte delle ricerche in ambito genetico ha indicato l’esistenza di associazioni tra aggressività e varianti genetiche a carico di geni coinvolti nella neurotrasmissione dopaminergica e serotoninergica, e nella regolazione ormonale; sono stati anche identificati geni che modulano la via biochimica del recettore dell’estrogeno e i processi di sviluppo neuronale.

Numerosi studi sono stati condotti sui fattori di rischio associati al comportamento aggressivo nell’uomo. Quello che è emerso dai risultati di tali studi è che il comportamento aggressivo ha sia componenti genetiche che ambientali

Uno studio recente sul comportamento aggressivo degli adolescenti cinesi ha confermato i geni candidati localizzati nel sistema dopaminergico e serotoninergico (DRD3, Recettore Dopaminico D3, DRD4, Recettore Dopaminico D4 e FEV, Fattore di trascrizione ETS) che erano stati precedentemente segnalati come associati a comportamenti aggressivi[17].

Per fare qualche esempio, possiamo citare lo studio di Brevik et al. che, in una casistica costituita da oltre 1.000 ragazzi con sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ha identificato una serie di polimorfismi che possono definire le basi genetiche dell’aggressività infantile[18].

Un altro studio sull’aggressività, a firma di Pappa et al. condotto su una casistica molto ampia, costituita da quasi 19.000 soggetti, ha dimostrato che polimorfismi genetici del gene AVPR1A (Recettore Arginina Vasopressina 1A), localizzato sul cromosoma 2, sono associati con l’aggressività dei bambini[19].

Complessivamente, le recenti evidenze scientifiche volte a chiarire il ruolo della genetica e quello dell’ambiente nell’aggressività umana, ottenute da diversi studi sui gemelli e sui figli adottivi, hanno indicato che il rischio di comportamento aggressivo è spiegato per circa il 50% da influenze genetiche e, per il restante 50%, da fattori ambientali[20].

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5. Conclusioni.

Numerosi studi hanno dimostrato in maniera concorde che il comportamento aggressivo ha una base genetica. In particolare, studi sui modelli animali di diverse specie hanno evidenziato che il comportamento aggressivo è controllato geneticamente in maniera complessa, con l’intervento di diversi elementi genetici che, interagendo tra di loro e sommando i loro effetti, contribuiscono a determinare il comportamento aggressivo di un singolo animale.

Gli studi sui modelli animali forniscono, quindi, un forte sostegno razionale all’ipotesi che, anche nell’uomo, il comportamento aggressivo sia, almeno in parte, geneticamente determinato.

In accordo con tale ipotesi, i risultati di studi recenti condotti sull’intero genoma umano hanno permesso di identificare loci genetici associati con un comportamento aggressivo, sia nei bambini che negli adulti. Si tratta, comunque, di studi che non sono ancora conclusivi, nel senso che occorrerà effettuarne di altri, su casistiche sempre più ampie, per caratterizzare in maniera certa il profilo di rischio genetico associato con l’aggressività. Inoltre, studi biologici e biochimici saranno necessari per chiarire i meccanismi molecolari alla base della cooperazione (effetti additivi e/o interattivi) dei diversi elementi genetici che, assieme, fanno sì che un determinato individuo sia ad alto rischio di essere aggressivo a causa della sua costituzione genetica.

Al momento, non è possibile accertare per il singolo individuo se la sua costituzione genetica ne configuri un rischio basso oppure alto di avere un comportamento aggressivo.

D’altra parte, laddove nel prossimo futuro il quadro dovesse mutare, e fosse al contrario possibile acquisire evidenze sufficienti ad affermare l’esistenza di una predisposizione genetica al comportamento aggressivo da parte del singolo, occorrerebbe interrogarsi a fondo su quale dovrebbe essere la risposta più adeguata, da parte del sistema giuridico, nei confronti degli autori di reato cd. “ad alto rischio”.

Del resto, la domanda se lo status genetico possa o debba, a determinate condizioni, costituire una circostanza attenuante per l’autore di una condotta violenta ha da poco cominciato a fare ingresso nei procedimenti penali, anche italiani[21].

Quel che è fuor di dubbio è che, per fornire una risposta soddisfacente a questa domanda (e alle svariate altre a questa connesse), non si potrà che prendere le mosse da una definizione chiara, e scientificamente fondata, di concetti come “alto” o “basso rischio” di condotta violenta; argomento indubbiamente meritevole di ulteriori successive riflessioni su questa rivista.

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[1] R.R. Anholt, T.F, Mackay, Genetics of aggression, in Annu Rev Genet, 46, 2012, pp. 145 ss.

[2] Ci sono quattro tipi di basi nucleotidiche nel DNA, esse sono chiamate: Adenina (A), Citosina (C), Guanina (G), Timina (T). Le basi nucleotidiche sono legate a una molecola di zucchero e costituiscono le unità strutturali del DNA, collegate insieme per formare una catena di DNA. L’adenina si lega sempre alla timina posta sull’elica complementare del DNA, mentre la citosina si lega con la guanina, sempre tra un’elica e l’altra. Queste basi complementari sono legate tra loro da legami deboli (cioè da legami a idrogeno che sono forze intermolecolari di attrazione che si generano quando un atomo di idrogeno legato ad un atomo elettronegativo si avvicina ad un altro atomo elettronegativo). Il fatto che le due eliche del DNA siano tenute assieme da legami a idrogeno ne permette la separazione quando il DNA ha bisogno di duplicare se stesso o durante la trascrizione dell’RNA. La successione delle quattro basi nelle lunghe molecole di DNA può avvenire seguendo infinite combinazioni.

[3] http://www.ensembl.org/Homo_sapiens/Info/Index.

[4] Un introne è un lungo tratto di DNA non codificante che separa gli esoni, che sono invece le regioni di un gene che codificano per la relativa proteina.

[5] Con la locuzione “varianti alleliche” si intendono le forme alternative (gli alleli) nelle quali può presentarsi il medesimo gene nel patrimonio genetico di una specie. Un allele è una variante di un gene. Gli esseri umani sono chiamati organismi diploidi perché hanno due alleli in ciascun locus genetico, con un allele ereditato da ciascun genitore. Ogni coppia di alleli rappresenta il genotipo di un gene specifico. I genotipi sono descritti come omozigoti se ci sono due alleli identici in un particolare locus e come eterozigoti se i due alleli differiscono. Gli alleli contribuiscono al fenotipo dell’organismo, che è l’aspetto esteriore dell’organismo.

[6] La genotipizzazione è il processo che consente di determinare quali varianti genetiche possiede un individuo. La genotipizzazione può essere eseguita attraverso metodi diversi, a seconda delle varianti di interesse e delle risorse disponibili. Per esaminare contemporaneamente molte varianti diverse, in particolare le varianti comuni, i chip di genotipizzazione dei polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) sono un metodo efficiente e accurato. La genotipizzazione determina le caratteristiche genetiche di un individuo e permette di confrontare tali caratteristiche con quelle di altri individui che rappresentano un termine di riferimento (ad esempio i controlli sani negli studi caso-controllo).

[7] Il “ceppo” identifica, all’interno di una specifica razza animale, un insieme di individui più omogenei dal punto di vista morfologico e genetico rispetto a quelli della medesima razza, ma di ceppo diverso.

[8] Il termine locus in genetica è utilizzato per definire una posizione fissa su un cromosoma, come la posizione di un gene o di un marker genetico, ad esempio uno SNP.

[9] Z. Li, M. Zheng, B.A. Abdalla, Z. Zhang, Z. Xu, Q. Ye, H. Xu, W. Luo, Q. Nie, X. Zhang, Genome-wide association study of aggressive behaviour in chicken, in Sci Rep, 6, 2016, pp. 1 ss.

[1] “Dopaminergico” significa “correlato alla dopamina”; la dopamina è un neurotrasmettitore, ossia una una sostanza chimica che è rilasciata dai neuroni (cellule nervose) per inviare segnali ad altre cellule nervose. Il termine dopaminergico è generalmente usato per descrivere tutto ciò che è correlato alla dopamina nel cervello.

[11] V. Lutz, P. Stratz, S. Preuß, J. Tetens, M.A. Grashorn, W. Bessei, J. Bennewitz, A geome-wide association study in a large F2-cross of laying hens reveals novel genomic regions associated with feather pecking and aggressive pecking behavior, in Genet Sel Evol, 49, 2017, pp. 1 ss..

[12] I. Zapata, J.A. Serpell, C.E. Alvarez, Genetic mapping of canine fear and aggression, in BMC Genomics, 17, 2016, pp. 572 ss.

[13] H.C. Dow, A.S. Kreibich, K.A. Kaercher, G.M. Sankoorikal, E.D. Pauley, F.W. Lohoff, T.N. Ferraro, H. Li, E.S. Brodkin, Genetic dissection of intermale aggressive behavior in BALB/cJ and A/J mice, in Genes Brain Behav, 10, 2011, pp. 57 ss.

[14] S. Jia, L. Wang, Y. Shi, P. Li. Family Risk Factors Associated With Aggressive Behavior in Chinese Preschool Children, in. J Pediatr Nurs, 31(6), 2016, pp. 367 ss.

[15] R. Waltes, A.G. Chiocchetti, C.M. Freitag, The neurobiological basis of human aggression: A review on genetic and epigenetic mechanisms, in Am J Med Genet B Neuropsychiatr Genet, 171, 2016, pp. 650 ss.

[16] K. Veroude, Y. Zhang-James, N. Fernàndez-Castillo, M.J. Bakker, B. Cormand, S.V. Faraone, Genetics of aggressive behavior: An overview, in Am J Med Genet B Neuropsychiatr Genet, 171B, 2016, pp. 3 ss.

[17] H. Chang, Q. Yan, L. Tang, J. Huang, Y. Ma, X. Ye, C. Wu, L. Wu, Y. Yu, Association of genetic variations in the serotonin and dopamine systems with aggressive behavior in the Chinese adolescent population: Single- and multiple-risk genetic variants, in J Affect Disord, 225, 2018, pp. 374 ss.

[18] E.J. Brevik, M.M. van Donkelaar, H. Weber, C. Sánchez-Mora, C. Jacob, O. Rivero, S. Kittel-Schneider, I. Garcia-Martínez, M. Aebi, K. van Hulzen, B. Cormand, J.A. Ramos-Quiroga; IMAGE Consortium., K.P. Lesch, A. Reif, M. Ribasés, B. Franke, M.B. Posserud, S. Johansson, A.J. Lundervold, J. Haavik, T. Zayats, Genome-wide analyses of aggressiveness in attention-deficit hyperactivity disorder, in Am J Med Genet B Neuropsychiatr Genet, 171, 2016, pp. 733 ss.

[19] I. Pappa, B. St Pourcain, K. Benke, A. Cavadino, C. Hakulinen, M.G. Nivard, I.M. Nolte, C.M. Tiesler, M.J. Bakermans-Kranenburg, G.E. Davies, D.M. Evans, M.C. Geoffroy, H. Grallert, M.M. Groen-Blokhuis, J.J. Hudziak, J.P. Kemp, L. Keltikangas-Järvinen, G. McMahon, V.R. Mileva-Seitz, E. Motazedi, C. Power, O.T. Raitakari, S.M. Ring, F. Rivadeneira, A. Rodriguez, P.A. Scheet, I. Seppälä, H. Snieder, M. Standl, E. Thiering, N.J. Timpson, R. Veenstra, F.P. Velders, A.J. Whitehouse, G.D. Smith, J. Heinrich, E. Hypponen, T. Lehtimäki, C.M. Middeldorp, A.J. Oldehinkel, C.E. Pennell, D.I. Boomsma, H. Tiemeier, A genome-wide approach to children’s aggressive behavior: The EAGLE consortium. In Am J Med Genet B Neuropsychiatr Genet, 171, 2016, pp. 562 ss.

[20] C. Tuvblad, L.A. Baker, Human aggression across the lifespan: genetic propensities and environmental moderators, in Adv Genet, 75, 2011, pp. 171.

[21] Per un quadro di sintesi della giurisprudenza italiana in materia, cfr. C. Grandi, Diritto penale e neuroscienze, in questa rivista, 2 aprile 2019.

 

 

 

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