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Conviene partire da un fenomeno che tutti conoscono: il piacere di condannare.

«“Un brutto libro” si dice, oppure “un brutto quadro”, e si ha l’aria di dire qualcosa di positivo. Al tempo stesso, il volto e l’atteggiamento tradiscono la soddisfazione di esprimersi così. La forma dell’espressione inganna: ben presto essa si trasforma in giudizio sulla persona. “Un cattivo scrittore” o “un cattivo pittore”: è questo che veramente si intende, ed è come se si dicesse “un uomo da poco”. È facilissimo cogliere persone note o sconosciute, e se stessi, nell’atto di comportarsi così».

Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile. È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da nulla. La sentenza è solo una sentenza quando viene pronunciata con una sorta di temibile sicurezza. Essa ignora indulgenza e precauzione.

«È presto trovata; ed è perfettamente coerente con la sua natura proprio quando scaturisce senza ponderazione. La passione che essa tradisce si collega alla sua rapidità. Le sentenze incondizionate e rapide fanno sì che il piacere si dipinga sul volto del sentenziante […]»

Ci si arroga in tal modo il potere di giudice. Ma solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, infatti, egli si annovera tra i buoni. La legittimazione del suo ufficio si fonda soprattutto sul fatto che egli appartiene inalterabilmente al regno del bene, come se vi fosse nato […]

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«Ma anche coloro che non sono giudici, che nessuno ha incaricato di giudicare, che nessuna persona di buon senso incaricherebbe di giudicare, si arrogano continuamente il diritto di pronunciar sentenze su ogni argomento, senza alcuna cognizione di causa. Quelli che si astengono dal sentenziare poiché se ne vergognerebbero, si possono contare sulle dita».

La malattia del condannare è una delle più diffuse tra gli uomini: in pratica, tutti ne sono colpiti.

E. Canetti, Massa e potere, in Id., Opere, vol. I, Bompiani, 1990, pp. 1340-1341.

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