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Issue 5/2019

Abstract. Social isolation in nature comes in two different forms: one voluntary and the other forced. In this article we will explore what neurosciences have discovered about these two important phenomena by finding incredible similarities. Finally, thanks to the direct testimony of those who live in prison every day, we will try to understand what happens to our minds after years of imprisonment.

 

SUMMARY: 1. Social isolation as a desire: the phenomenon of hikomori. – 1.1. The determinants of voluntary social isolation. – 2. The effects of social isolation on the mind. – 3. Social isolation as punishment: prison.

1. L’isolamento sociale come desiderio: il fenomeno dell’hikikomori.

Con il termine “social withdrawal” (ritiro sociale), si identifica il fenomeno dell’isolamento sociale, una nuova condizione che si sta largamente diffondendo e sviluppando soprattutto tra i giovani adulti delle società occidentali.

Identificato e classificato in primis in Giappone, questo fenomeno è conosciuto con l’espressione “hikikomori” («stare in disparte, isolarsi»), che deriva dal verbo hiku («tirare indietro») e komoru («ritirarsi»). Coniato dal dr. Saito Tamaki nel 1998, direttore del dipartimento psichiatrico dell’Ospedale Sofukai Sasaki di Chiba, il termine vale a indicare una condizione caratterizzata da uno stato di evitamento del contatto sociale (famiglia, lavoro, amicizie), con un persistente ritiro nella propria residenza, protratto per almeno 6 mesi[1].

La manifestazione dei sintomi è comunque varia. Il semplice isolamento volontario è solo l’inizio di un disturbo psicologico che può estendersi gradatamente fino a situazioni estreme, nelle quali si registra una repulsione per la luce del sole. Infatti, i giovani hikikomori sono soliti sigillare le finestre della loro camera con carta scura; tendono a vivere essenzialmente di notte, guardando la televisione, giocando ai videogiochi, navigando su internet (fino a 12 ore al giorno) oppure leggendo libri; sono soliti pranzare e cenare in solitudine nella propria stanza direttamente da un vassoio passato dal genitore attraverso la porta appena socchiusa. Vengono descritti come soggetti che vivono in uno stato di persistente paura; sono ipersensibili a qualsiasi evento esterno che possa essere vissuto come minaccioso e rispondono in maniera aggressiva a qualsiasi proposta di contatto esterno.

Il semplice isolamento volontario è solo l’inizio di un disturbo psicologico che può estendersi gradatamente fino a situazioni estreme, nelle quali si registra una repulsione per la luce del sole

In Giappone, l’identikit del giovane hikikomori si esprime attraverso determinate caratteristiche comportamentali che delineano una nuova forma di categoria psicopatologica: individuo giovane, tra i 14 e i 30 anni, di estrazione sociale medio-alta, nel 90% dei casi di sesso maschile, per lo più figlio unico di genitori laureati, la cui figura paterna, quasi sempre assente, ricopre un ruolo dirigenziale, mentre la madre – per lo più casalinga – si occupa, come impone la cultura nipponica, della gestione dei figli e della casa[2]. In generale, si stima che gli hikikomori in Giappone siano oltre 500.000, tra semi-isolati e completamente isolati. Le associazioni di settore, invece, riferiscono cifre ben più alte[3]: l’1,2% della popolazione nipponica vive in reclusione volontaria, percentuale che sale al 2% se si considera solo quella giovanile (v. Figura 1).

Il concetto di hikikomori, dal punto di vista medico-psichiatrico, è controverso.

Una prima questione importante riguarda la possibilità di definire chiaramente i criteri diagnostici per esprimere una chiara sindrome, tema sul quale oggi non vi è consenso[4].

Si discute inoltre se il fenomeno rappresenti una risposta culturale specifica ai cambiamenti sociali in Giappone o se si tratti di un disturbo psichiatrico emergente che può essere presente anche in altre culture[5].

Un’altra area di controversia è se il disturbo hikikomori si accompagni necessariamente ad altro disturbo psichiatrico che potrebbe spiegare i sintomi. Alcuni autori sostengono di sì e, in particolare che il termine “hikikomori secondario” debba essere usato se è presente comorbidità con altri disturbi mentali (i.e. disturbo antisociale di personalità; fobie sociali); altri, invece, sostengono il contrario e, quindi, la possibilità di riconoscere la presenza di “hikikomori primario”[6].

Dal punto di vista epidemiologico, a partire dagli anni Novanta, il fenomeno si è diffuso in molte nazioni come Spagna, Corea, Cina, India, Francia e Stati Uniti. In Italia, le valutazioni epidemiologiche sono giunte pochi mesi fa indicando la presenza di circa 100.000 casi all’interno della popolazione censita e di un ampio margine di crescita[7]. Grazie alla ricerca condotta dal dr. Marco Crepaldi, psicologo sociale e presidente dell’Associazione Hikikomori Italia, sono finalmente disponibili i primi dati ufficiali del fenomeno hikikomori in Italia. Si tratta perlopiù di uomini (88%) con età media di circa 20 anni che restano reclusi volontariamente per un periodo di tempo compreso tra i 3 e i 10 anni (42%)[8].

Figura 1: L’isolamento sociale volontario L’hikikomori è un disturbo psicologico che si contraddistingue per uno stato di evitamento del contatto sociale con un persistente ritiro nella propria residenza.

1.1. Le determinanti dell’isolamento sociale volontario.

 Non essendoci ancora un reale inquadramento clinico del disturbo, ovviamente non esistono neppure spiegazioni causali definitive e accertate[9]. Comunque, al momento le determinanti multifattoriali riconosciute come scatenanti del fenomeno dell’hikikomori, sono:

  1. psicologiche: in generale si tratta di ragazzi con una difficoltà nella gestione e nel controllo delle emozioni. Gli hikikomori provano un profondo stato d’ansia generalizzata all’idea di abbandonare la residenza e di avere contatti con altre persone. In molti casi questa loro difficoltà nel relazionarsi e nella gestione dell’ansia era presente anche prima del manifestarsi del fenomeno. Quindi si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone con vulnerabilità psicologica;
  2. familiari: da studi qualitativi si riassume un profilo di un quadro familiare caratterizzato dall’assenza emotiva del padre e dall’eccessivo attaccamento della madre;
  3. scolastiche: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d’allarme dell’hikikomori. L’ambiente scolastico viene vissuto dal soggetto in modo particolarmente negativo anche per l’estrema severità del sistema educativo giapponese. Esso, infatti, è caratterizzato da esami molto complicati e da test altamente selettivi per l’accesso a scuole ed Università. Questi test diventano una vera e propria ossessione per gli studenti che, se non riescono a superarli, possono sviluppare gravi forme di depressione e, nel peggiore dei casi, sono portati anche a tentare il suicidio, proprio perché vivono la bocciatura come un fallimento. Molte volte dietro l’isolamento si può nascondere anche una storia di bullismo;
  4. sociali: gli hikikomori hanno una concezione molto negativa della società e, in particolare, soffrono molto le pressioni di realizzazione sociale derivanti da essa, dalle quali cercano di fuggire. I giovani hikikomori hanno la profonda paura di non riuscire a soddisfare le aspettative che chiunque, a partire dai genitori, riversa su di loro, e provano un sentimento di vergogna e di inadeguatezza di fronte alla consapevolezza di un loro possibile fallimento. La soluzione, perciò, è quella di scappare di fronte a queste insormontabili difficoltà, perché credono, erroneamente, di non essere assolutamente in grado di affrontarle, e si nascondono nella propria camera, rassegnandosi all’idea di “non essere all’altezza”.

 

L’hikikomori nasce come conseguenza di un’alterata interrelazione tra 3 componenti fondamentali: individuo, famiglia, società

Il fenomeno dell’hikikomori, secondo molti psicologi e psichiatri, si centra sul problema della interazione sociale che nella nostra epoca sta subendo un cambiamento storico. Le capacità di interagire con gli altri richiedono abilità cognitive ed affettive che si acquisiscono da bambini. Il rapporto madre-figlio è la principale base di sviluppo del proprio sé e, soprattutto, della capacità di interazione sociale. Un rapporto morboso madre-figlio, unitamente a profonde pressioni sociali sulla capacità di essere efficaci, impedisce un normale sviluppo di questa capacità.

L’isolamento in cui gli hikikomori si rifugiano passa perciò attraverso un blocco comunicativo con il mondo esterno, significativo proprio poiché si verifica nella fase dell’adolescenza, momento cruciale dell’esistenza di una persona, volto alla maturazione di una propria identità. Il giovane hikikomori si ritira socialmente proprio per difendersi da ipotetici fallimenti e dalle delusioni che potrebbero procurare a genitori animati da altissime aspettative sul futuro dei loro figli.

L’hikikomori nasce come conseguenza di un’alterata interrelazione tra 3 componenti fondamentali: individuo, famiglia, società. In generale, l’individuo è al centro e la sua vita altro non è che la risultante delle forze che intercorrono tra la famiglia e la società. L’hikikomori può essere visto come un punto di rottura tra queste due forze che ricade sull’individuo, il quale non è in grado di gestire lo stress a esso collegato.

2. Gli effetti dell’isolamento sociale sulla mente.

Posto che al momento non esistono studi di neuroscienze sui ragazzi affetti da hikikomori, i primi studi scientifici sugli effetti dell’isolamento sociale a livello del sistema nervoso centrale sono stati eseguiti su modelli animali fin dagli anni ‘70-‘80.

Tra gli studi più recenti si ricorda quello pubblicato sulla prestigiosa rivista Cell[10] che ha confermato, a livello scientifico, che tra le conseguenze principali di tale forma di isolamento vi sono:

  1. l’eccesso di aggressività verso altri animali non appartenenti alla famiglia;
  2. uno stato persistente di paura e di ipersensibilità agli stimoli minacciosi, che si manifesta con uno stato di blocco motorio totale che perdura anche quando il pericolo è passato. Per produrre questi effetti persistenti bastano anche brevi periodi di isolamento (ad esempio, 2 settimane).

In biologia l’isolamento viene chiamato chronic social isolation stress, cioè uno stato di stress prolungato e doloroso a cui la persona (o l’animale) va incontro a causa dell’incapacità di affrontare la nuova condizione sociale[11]. Neurobiologicamente, si manifesta con un’alterata iperattività dell’asse amigdala-ipotalamo sul sistema nervoso simpatico che porta a un eccesso di produzione di cortisolo nel sangue.

Gli esperimenti sull’essere umano, invece, hanno tradizionalmente riguardato particolari categorie sociali: speleologi/geologi e astronauti. Già dagli anni ’60 del secolo scorso, con il geologo Francese Michel Siffre[12], fino al nostro speleologo Maurizio Montabini[13], gli esperimenti riportati in letteratura sugli effetti della privazione sociale volontaria sono numerosi in medicina. Lo scopo della maggior parte di questi esperimenti era però legato a studiare il cambiamento della percezione del “tempo”,a causa dell’isolamento. Il concetto di tempo, nel nostro organismo, è espresso da quel sistema chiamato “cronoma” (più comunemente conosciuto come “orologio biologico”) che regola i cicli fisiologici indipendentemente dai fattori ambientali e sociali. Secondo i ricercatori, l’esposizione prolungata a privazione sensoriale ambientale dovrebbe alterare il nostro orologio biologico. Quello che si dimostrò è che, se la mente è impegnata in attività di vita quotidiana, anche un ambiente ostile come una grotta o una navicella spaziale non altera di molto il nostro cronoma interno.

Quello che viene alterato dall’isolamento è altro.

Gli esperimenti di isolamento sociale sono effettuati comunemente in due ambientazioni: o nelle grotte o durante le missioni spaziali. Quello che è emerso da questi studi[14] è che, dopo l’esposizione prolungata a questa tipologia di ambienti, le persone tendono a sviluppare: una riduzione di funzionamento del sistema immunitario, una riduzione dello stato dell’umore con segni di depressione, un aumento dell’aggressività e una ipersensibilità a stimoli minacciosi. Quindi, con l’isolamento, più che il cronoma, cambiano alcuni aspetti della psiche umana.

Si può notare, quindi, che il fenotipo è molto simile a quello descritto nei modelli animali sottoposti ad isolamento o alle persone con hikikomori. Una differenza principale riguarda però l’ambito cognitivo che, nel caso in esame, sembrerebbe non essere alterato.

Esiste però una fondamentale differenza tra questi esperimenti ed un altro tipo di ambientazione in cui lo stato di isolamento rappresenta la principale condizione di vita: le prigioni.

Infatti, mentre nei setting sperimentali, il volontario rinchiuso è comunque in continuo contatto con l’esterno, mantenendo anche nella condizione di privazione sensoriale un minimo di relazione sociale, nelle carceri è possibile che una persona trascorra gran parte del suo tempo in assenza di interazioni sociali.

Cosa accade in questi casi nella mente umana (v. Figura 2)? Lo abbiamo chiesto ad una persona in particolare: Francesco Carannante[15].

Quello che è emerso da questi studi è che […] le persone tendono a sviluppare: una riduzione di funzionamento del sistema immunitario, una riduzione dello stato dell’umore con segni di depressione, un aumento dell’aggressività e una ipersensibilità a stimoli minacciosi

3. L’isolamento sociale come punizione: la prigione.

Gli esperimenti di psicologia sui detenuti nelle carceri hanno come principale punto di riferimento scientifico e teorico il famoso professore di psicologia Philip Zimbardo[16], che nel 1971 sconvolse la comunità scientifica con il suo esperimento sulle guardie e sui carcerati, condotto nei seminterrati dell’Università di Stanford[17]. In questo famoso esperimento Zimbardo dimostrò come la pressione sociale (l’assunzione di un ruolo istituzionale – la guardia carceraria) abbia un peso enorme nel produrre un fenomeno di de-individuazione, cioè nell’annullare le regole morali di una persona, in pochissimo tempo. È infatti bastato far interpretare a dei semplici studenti il ruolo di guardia carceraria per spingerli ad assumere le norme e le regole dell’istituzione rappresentata come unico valore a cui il proprio comportamento doveva conformarsi. Questa forma di pressione sociale ha modificato completamente il loro cronoma morale, spingendo delle normali persone a diventare dei feroci aguzzini.

Ma cosa accade alla mente umana dopo lunghi periodi di prigionia all’interno delle nostre carceri è ancora un fenomeno poco conosciuto.

Figura 2: L’isolamento sociale coatto Cosa succede alla nostra mente e al nostro sistema nervoso centrale dopo lunghi periodi di isolamento sociale?

Francesco Carannante comincia la sua vita da detenuto nel 1992 per scontare una serie di condanne all’ergastolo. Durante l’espiazione della pena, va incontro a lunghi periodi di isolamento[18]. Il più prolungato è stato di 118 giorni in una camera sotterranea (isolamento assoluto e privazioni fisiche).

Alla fine di questi lunghi periodi,la principale alterazione che riporta Francesco non riguarda l’ambito emotivo o temporale, bensì quello spaziale. Infatti, dopo l’isolamento cambia completamente il modo di percepire e concepire lo spazio esterno.

Dopo tutto questo tempo passato in uno spazio inferiore ai 3 m2, la prima cosa che noti quando esci in uno spazio, come le semplici scale che ti portano da un piano all’altro, è stata l’incapacità di camminare

Prima di andare avanti, è importante però fornire una breve spiegazione neurofisiologica del modo in cui l’essere umano interpreta e analizza lo spazio dentro e fuori di sé. La rappresentazione mentale del corpo nello spazio è un processo complesso e unico, centrale per creare il continuo“senso del sé”, che nasce dall’integrazione di varie informazioni: da quelle sensorimotorie a quelle visive, da quelle propriocettive a quelle interocettive.

Recenti tassonomie distinguono tre diversi tipi di rappresentazione corporea:

  1. lo schema corporeo, che consiste nell’insieme di rappresentazioni senso-motorie del corpo che guidano le azioni all’interno di uno spazio;
  2. la rappresentazione strutturale del corpo, che consiste in una mappa topografica dei diversi distretti corporei;
  3. la semantica del corpo, ossia una rappresentazione essenzialmente concettuale e linguistica del corpo[19].

All’interno della corteccia parietale superiore[20]esistono popolazioni di neuroni che hanno un compito molto complesso: decifrare e rappresentare matematicamente l’immagine del proprio corpo nello spazio esterno[21]. È come avere un piccolo avatar del nostro corpo dentro il cervello grazie al quale riusciamo a calcolare come e quanto muoverci nello spazio per interagire con gli oggetti Ovviamente si tratta di una rappresentazione neurale che si modifica in funzione del feedback visivo dato dal riflesso della propria immagine, oppure dalle propriocezioni provenienti dagli altri sensi.

Ma questa popolazione di neuroni è anche fortemente influenzata da processi interni cognitivi. Se io decido che la mia immagine corporea è sbagliata, orribile e deforme rispetto a… qualcos’altro, la decodificazione degli input sensoriali che mi permettono di disegnare l’immagine del sé cambierà sensibilmente in funzione del nuovo target. Tradotto: se io sono oggettivamente magra, ma l’immagine cognitiva che voglio avere del mio corpo è un’altra, comincerò a deformare l’interpretazione sensoriale (proveniente da occhi e tatto) per raggiungere il nuovo target. Quindi, cambierà la mia rappresentazione del corpo e conseguentemente il suo rapporto con lo spazio esterno[22].

Nelle condizioni di vita normale, io interagisco con tanti oggetti (smartphone, computer, sistema audiovisivi, trasporti, attività lavorative, attività sportive etc.) e con decine di persone alla volta. La conseguenza immediata di questa quotidiana stimolazione sensoriale è che la mia rappresentazione dello spazio interno ed esterno mi è congeniale e riesco a gestirla all’interno di schemi comportamentali universalmente e socialmente appresi.

Ma dopo mesi di isolamento, questa capacità cambia totalmente.

«Dopo tutto questo tempo passato in uno spazio inferiore ai 3 m2, la prima cosa che noti quando esci in uno spazio, come le semplici scale che ti portano da un piano all’altro, è stata l’incapacità di camminare. Salendo le scale ho rischiato di cadere almeno tre, quattro volte perché non riuscivo a mettere un piede davanti all’altro. Lo spazio intorno era immenso, senza fine. Cercavo, senza farmi notare da nessuno, qualcosa a cui appoggiarmi. Non conosco le sensazioni che vivono gli astronauti quando fluttuano nelle loro navicelle nello spazio, ma credo sia la stessa cosa che ho provato io. Sembrava di camminare nel vuoto, senza forza di gravità. Stranamente mi sentivo leggero come una piuma»[23].

Ma non finisce qui. Il deficit di elaborazione spaziale permane anche dopo la fine del carcere. Chi torna in libertà continua per molto tempo ad avere difficoltà con operazioni apparentemente semplici come guidare la macchina. I tempi della frenata sono completamente diversi. Non si riescono a calcolare le distanze tra i veicoli, rischiando di frenare o troppo tardi o troppo presto.

Ma il deficit cognitivo non riguarda solo l’ambito spaziale. I carcerati in generale sviluppano un deficit nella programmazione cognitiva e working memory. Fare due compiti contemporaneamente, come mangiare mentre si guarda la televisione, arriva ad essere troppo pesante per alcuni. Figuriamoci le migliaia di operazioni che facciamo ogni giorno contemporaneamente.

Infine, il registro linguistico subisce una regressione quasi infantile, con l’uso dei vocaboli sempre più ridotto. Il tutto ricade direttamente anche sulle capacità non solo di espressione ma anche di comprensione: come accade a un bambino, che non riesce a parlare con più persone alla volta con più registri linguistici.

Il deficit  di elaborazione spaziale permane anche dopo la fine del carcere. Chi torna in libertà continua per molto tempo ad avere difficoltà con operazioni apparentemente semplici

Discorso a parte merita invece il sistema acustico. Mentre tutte le altre funzioni cognitive subiscono una maladattiva plasticità neurale, l’udito va incontro a un inaspettato miglioramento durante l’isolamento, nel senso che diventa acutissimo, capace di cogliere impercettibili cambiamenti nell’ambiente esterno.

E per quanto riguarda l’ambito emotivo?

Avevamo appreso dai modelli animali che una delle principali conseguenze dell’isolamento era proprio lo sviluppo di sintomi depressivi. Qui Francesco Carannante è molto chiaro quando ci spiega, in piena coerenza con il dato neuroscientifico, che:

«l’essere umano può anche vivere in una gabbia, ma se condivide questo piccolo spazio con altre persone, questo gli permette almeno di mantenere un umore “quasi” normale»[24].

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[1] J. Watts, Public health experts concerned about “hikikomori”, in Lancet, 359(9312), 2002, pp. 1131 ss.

[2] S. Moretti, Hikikomori. La solitudine degli adolescenti giapponesi, in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, Vol. 4(3) 2010, pp. 51 ss.

[3] A. Koyama Y. Miyake, N. Kawakami, M. Tsuchiya, H. Tachimori, T. Takeshima, Lifetime prevalence, psychiatric comorbidity and demographic correlates of “hikikomori” in a community population in Japan, in Psychiatry Res, 176(1), 2010, pp. 69 ss.

[4] A.R. Teo, A.C. Gaw, Hikikomori, a Japanese culture-bound syndrome of social withdrawal?: A proposal for DSM-5, in J Nerv Ment Dis, 198(6), 2010, pp. 444 ss.

[5] T.A. Kato, S. Kanba, A.R. Teo, Hikikomori: experience in Japan and international relevance, in World Psychiatry, 17(1), 2018, pp. 105-106.

[6] E. Stip, A. Thibault, A. Beauchamp-Chatel, S. Kisely, Internet Addiction, Hikikomori Syndrome, and the Prodromal Phase of Psychosis, in Front Psychiatry, 7:6, 2016, pp. 1 ss.

[7] M. Crepaldi, Hikikomori. I giovani che non escono di casa, Alpes Italia, 2019.

[8]Ibidem.

[9] A. Furlong, The Japanese hikikomori phenomenon: acute social withdrawal among young people, in Sociol Rev,56(2), 2008, pp. 309 ss.; V. Wong, Youth locked in time and space? Defining features of social withdrawal and practice implications, in J Soc Work Pract, 23(3), 2009, pp. 337 ss.

[10] M. Zelikowsky, M. Hui, T. Karigo, A. Choe, B. Yang, M.R. Blanco, K. Beadle, V. Gradinaru, B.E. Deverman, D.J. Anderson, The Neuropeptide Tac2 Controls a Distributed Brain State Induced by Chronic Social Isolation Stress, in Cell, 173(5), 2018, pp. 1.265 ss.

[11] J.S. House, K.R. Landis, D. Umberson, Social relationships and health, in Science, 241, 1988, pp. 540 ss.

[12] Ulteriori informazioni sul presente esperimento sono disponibili a questo indirizzo web.

[13] L’esperimento è menzionato da C. Gerino, Da sola per un anno in una grotta, in La Repubblica.it – Archivio, 27 giugno 1994.

[14] N. Kanas, Psychosocial issues affecting crews during long-duration international space missions, in Acta Astronaut., 42(1–8), 1998, pp. 339 ss.; L.A. Palinkas, The psychology of isolated and confined environments. Understanding human behavior in Antarctica, in Am Psychol., 58(5), 2003, pp. 353 ss.

[15] Detenuto in carcere dal 1992, autore del libro Sulla linea… la mia vita dietro le sbarre, Ferrari, 2018.

[16] P.G. Zimbardo, L’effetto Lucifero: cattivi si diventa? Raffaello Cortina, 2008.

[17] C. Haney, P.G. Zimbardo, The past and future of U.S. prison policy. Twenty-five years after the Stanford prison experiment, in Am Psychol., 53(7), 1998, pp. 709 ss.

[18] In Italia, l’isolamento del detenuto può essere disposto come sanzione disciplinare (nelle diverse forme previste dall’art. 39, nn. 4 e 5, della l. n. 354/1975) o come regime di sorveglianza particolare (ai sensi dell’art.14 bis della stessa legge).

[19] Per approfondimenti cfr., tra molti, J. Schwoebel, H.B. Coslett, Evidence for multiple, distinct representations of the human body, in J Cogn Neurosci, 17(4), 2005, pp. 543 ss.

[20] T. Zaehle, K. Jordan, T. Wüstenberg, J. Baudewig, P. Dechent, F.W. Mast, The neural basis of the egocentric and allocentric spatial frame of reference, in Brain Res., 1137(1), 2007, pp. 92 ss.

[21] Nell’interazione con l’ambiente lo spazio viene codificato tramite due tipi di strategie: Egocentrica o Allocentrica. Nel primo caso si tratta di strategie basate su una prospettiva centrata sul soggetto. Esempio di questi sono i neuroni dell’head direction cell system che rispondono al riconoscimento di un particolare ambiente solo in funzione della posizione della testa del soggetto che guarda in prima persona. Mentre nel secondo caso le strategie allocentriche consistono nel rappresentarsi l’ambiente esterne come una mappa e di guardarla mentalmente cosi come facciamo con Google Maps.

[22] L’immagine corporea si nutre della propriocezione sensoriale che deriva dalla vicina corteccia somatosensoriale, la stazione centrale dove arrivano tutti i treni di informazioni provenienti dai 5 sensi.

[23] Estratto dall’intervista che Francesco Carannante ci ha concesso per la realizzazione di questo articolo.

[24] Ibidem.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

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