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Issue 1/2020

We publish here, courtesy of the Publisher, the introductory chapter of the book by Umberto Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, 2019 (pp. 11-19).

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«A causa dell’assenza di Cristo, la mendicità in senso lato e l’atto penale sono forse le due cose più atroci di questa terra, due cose quasi infernali. Hanno il colore stesso dell’inferno»[1]. Così scrive Simone Weil in uno dei testi redatti originariamente fra il gennaio e il giugno del 1942 (pressoché coevi alla stesura dei Cahiers)[2], pubblicati postumi, nel 1949, per iniziativa del padre Joseph-Marie Perrin, a pochi anni dalla morte dell’autrice.

A motivare un’affermazione tanto perentoria – e un accostamento apparentemente temerario – è il rilevamento di un’analogia di fondo, abitualmente ignorata: «Nel castigo la giustizia si esplica allo stesso modo che nell’elemosina. Essa consiste nel fare attenzione allo sventurato, considerandolo un essere umano e non una cosa»[3]. Da ciò scaturisce una conseguenza di ordine generale, relativa allo statuto stesso del diritto penale, nel senso che «il carattere legale di un castigo non ha un vero significato se non gli conferisce qualcosa di religioso, se non lo rende simile a un sacramento», al punto da poter sostenere che «tutte le funzioni penali, da quella del giudice a quella del carnefice e del carceriere, dovrebbero, in qualche modo, assimilarsi alla funzione sacerdotale»[4].

In questo quadro, resta decisivo il riferimento a Dio. È infatti necessario che fra l’apparato giudiziario e il delitto si ponga qualcosa che abbia la funzione di purificare le abiezioni, avendo ben presente che solo una purezza infinita può sottrarsi alla contaminazione del male, mentre è inevitabile che ove la purezza sia in qualche modo limitata, essa finisca per corrompersi. Di qui una conclusione di ordine generale: «Per quanto si riformi il codice, il castigo non può essere umano, se non passa attraverso Dio»[5]. Diversamente, se permane l’assenza di Cristo, l’atto penale, come la mendicità o anche la prostituzione, si manifesteranno come «case infernali»[6].

Non evoca l’inferno, ma formula interrogativi non meno radicali, Jacques Derrida, ponendo al centro della riflessione i concetti problematici di sovranità, eccezione e crudeltà, affrontati attraverso un serrato confronto con quattro figure paradigmatiche, quali sono Gesù Cristo, Socrate, al-Hallaj, Giovanna d’Arco, e percorrendo alcuni testi canonici, dalla Bibbia all’opera di Cesare Beccaria, da Immanuel Kant a Victor Hugo. «Cos’è una pena?» – e questa la domanda che accompagna il percorso accidentato e discontinuo delineato nelle dense pagine che raccolgono le tracce dei seminari svoltisi tra il 1999 e il 2001, dedicati alla pena di morte[7]. Al quesito iniziale i ricollegano altri interrogativi, almeno altrettanto difficili da decifrare compiutamente: «Cosa accade quando si può appena distinguere fra la pena e la non-pena, il penale e il non penale, il diritto penale e il diritto non penale, o tra più specie eterogenee di pena … allorché tuttavia, nonostante tale eterogeneità assoluta, esse hanno in comune di essere chiamate tutte pene?»[8].

«Cosa accade quando si può appena distinguere fra la pena e la non-pena, il penale e il non penale, il diritto penale e il diritto non penale, o tra più specie eterogenee di pena … allorché tuttavia, nonostante tale eterogeneità assoluta, esse hanno in comune di essere chiamate tutte pene?»

J. Derrida, La pena di morte (2012), II: 2000-2001, Jaca Book, Milano 2016, p. 53

Nel riassumere i temi discussi nei seminari, Derrida ne descrive così il movimento: la problematica affrontata con i testi sullo spergiuro e il perdono «ci ha portato questa volta a privilegiare la grande questione della pena di morte. Era necessario, almeno nella misura in cui la pena cosiddetta capitale mette in gioco … i concetti di sovranità … di diritto, di grazia ecc.»[9]. Per concludere con un quesito solo apparentemente incidentale: «Perché l’abolizionismo o la condanna della pena di morte, nel suo stesso principio, non hanno (quasi) mai trovato, fino a oggi, uno spazio propriamente filosofico nell’architettura di un grande discorso filosofico in quanto tale?»[10].

In estrema sintesi, questo libro muove dall’interrogativo ora formulato – si domanda per quali motivi, anche a dispetto di una bibliografia disponibile particolarmente vasta, la questione posta da Derrida sia da tempo, e ancora rimanga, sostanzialmente inevasa. Perché il discorso sulla pena – sulla pena di morte, certamente, ma più in generale sulla pena in quanta tale – non ha trovato spazio adeguato in un «grande discorso filosofico»? Che cosa frena, che cosa inibisce, che cosa spesso vanifica i tentativi che pure sono stati fatti di andare a fondo di una questione in ogni senso decisiva? Da un lato, è ormai largamente acquisita la convinzione che la pena costituisca il fondamento stesso del diritto moderno, la pietra angolare di qualsiasi forma di amministrazione della giustizia. Dall’altro lato, è sempre più stridente la sfasatura rilevabile fra l’insufficienza delle risposte fornite agli interrogativi riguardanti lo statuto stesso della pena e un’attività giurisdizionale che precede come se viceversa tutto fosse già chiaramente definito, senza margini di incertezza o di opacità. Si emettono sentenze, si definiscono sanzioni, si dispongono misure restrittive della libertà personale, come se non vi fosse nulla di cui dubitare, come se il lavoro di giuristi e magistrati potesse essere davvero concepito come una prudente applicazione di alcuni principi saldissimi e incrollabili, e non l’espressione di una logica probabilistica, ai limiti della congettura o del vero e proprio azzardo.

Testimonianza eloquente di questa scissione è la disputa risorgente – perché essenzialmente inconcludente – a proposito delle diverse concezioni della pena in competizione fra loro. Anche i più strenui apologeti del paradigma dominante, quello che pone la pena come giusta retribuzione della colpa, devono tuttavia riconoscere la mancanza di giustificazioni razionali capaci di legittimarne in maniera inequivocabile la logica proporzionalistica.

Si emettono sentenze, si definiscono sanzioni, si dispongono misure restrittive della libertà personale, come se non vi fosse nulla di cui dubitare, come se il lavoro di giuristi e magistrati potesse essere davvero concepito come una prudente applicazione di alcuni principi saldissimi e incrollabili, e non l’espressione di una logica probabilistica, ai limiti della congettura o del vero e proprio azzardo

Nelle pagine che seguono, si troverà una delineazione del contesto concettuale, eminentemente mitologico-religioso, entro cui storicamente si afferma il modello retributivo. Senza peraltro dimenticare l’incisività della ricostruzione genealogica proposta nella Seconda dissertazione della Genealogia della morale di Nietzsche, dove l’origine della nozione di pena viene fatta risalire all’ambito delle primitive relazioni mercantili, e più specificamente al rapporto fra creditore e debitore.

Ne si può dire che, a un esame quanto più possibile obiettivo e rigoroso, appaiano meno controverse, e talora perfino più intimamente contraddittorie, le teorie elaborate per rispondere alla diffusa esigenza di superare i limiti del modello retributivo. La concezione generale preventiva, il modello correzionalista o dell’emenda, la prospettiva rieducativa – vale a dire le principali proposte formulate soprattutto nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, sostanzialmente a partire da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ribadiscono indirettamente, sia pure in modi diversi e con differenti gradi di plausibilità, la persistente difficoltà di pervenire a una concezione della pena che sia razionalmente argomentata e universalmente condivisa.

Solo apparentemente sottratte alla crisi del modello retributivo, inteso come criterio di legittimazione del diritto penale nel suo insieme, sono quelle impostazioni che rinunciano a proporsi come visioni generali del diritto, per limitarsi a stabilire in quale modo l’ordinamento giuridico possa influire sull’autore del reato, in modo da evitare che egli torni a delinquere, ovvero a distogliere altri da possibili devianze dalle norme. Come è noto, un simile obiettivo può essere raggiunto con tecniche sanzionatorie diverse, distinguendo dunque tra prevenzione speciale come rieducazione (o prevenzione speciale positiva), e prevenzione speciale intesa come intimidazione e neutralizzazione dei soggetti ritenuti pericolosi (o prevenzione speciale negativa)[11].

L’idea di fondo, attiva nelle teorie a cui si è ora accennato, è quella compendiata nel motto latino non quia peccatum, sed ne peccetur, dove è evidente il tentativo di eludere le aporie ineliminabili dalla concezione della pena come corrispettivo della colpa, in favore di un’accezione più circoscritta e meno totalizzante della pena. Ma dove è altresì non meno evidente il tributo implicitamente pagato a una concezione organicistica e «pedagogica» dello Stato, chiamato a svolgere non semplicemente un ruolo di gestione del diritto, ma anche ad agire come depositario di valori e idealità che devono essere imposti indiscriminatamente a tutti i cittadini, quali che siano le convinzioni e gli orientamenti morali e culturali dei singoli. Il vivace dibattito, ai limiti di una frattura che avrebbe potuto risultare irreparabile, svoltosi durante i lavori dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, è testimonianza esemplare delle difficoltà persistenti nella concezione rieducativa della pena, finalizzata alla risocializzazione del reo, quale è quella poi assunta nel dettato della Carta Costituzionale[21].

Nell’insieme, il panorama offerto dalle concezioni più analiticamente esaminate all’interno di questo testo sembra confermare il giudizio fortemente problematico pronunciato da Hegel, quando sottolinea la complessiva inattendibilità dei modelli di pena dominanti nel diritto penale moderno[13]. Rispetto al quadro fin qui delineato, un’importante innovazione sembra essere costituita dalla sempre più diffusa realizzazione di esperienze riferibili a un orizzonte concettuale non riconducibile all’alveo del dibattito tradizionale sulla pena, quale è quello descritto con l’espressione restorative justice. Affermatasi soprattutto nel corso degli ultimi decenni, la giustizia riparativa procede certamente oltre i limiti angusti della modellistica penale di matrice illuministica, per configurare un modo nuovo di intendere la funzione della pena e soprattutto la relazione fra il reo e la vittima. Nell’apprezzamento per l’apertura di una nuova prospettiva, persistono ancora talune perplessità di fondo, in particolare riguardo alla possibilità di generalizzare il modello riparativo, assumendolo dunque in termini di un vero e proprio paradigma, alternative rispetto a quelli tuttora dominanti, anziché semplicemente come forma peculiare di applicazione pratica delle pene.

Affermatasi soprattutto nel corso degli ultimi decenni, la giustizia riparativa procede certamente oltre i limiti angusti della modellistica penale di matrice illuministica, per configurare un modo nuovo di intendere la funzione della pena e soprattutto la relazione fra il reo e la vittima

Come si potrà concretamente verificare, inoltrandosi nella lettura delle pagine che seguono, la ricognizione che è stata qui effettuata non è finalizzata ad arricchire ulteriormente il già fin troppo complesso dibattito tecnico-giuridico sulla nozione di pena. Né pretende di «insegnare» ai giuristi ciò che, viceversa, si configura con i tratti di un sapere specialistico solidamente strutturato, e dunque invulnerabile da attacchi «esterni», quali quelli consentiti a un approccio filosofico. Più modestamente – ma anche sperabilmente in maniera più convincente – si è inteso andare davvero a fondo di una nozione straordinariamente complessa, quale è quella di pena, esplorandone la densità concettuale, senza lasciarsi soggiogare dalla veneranda tradizione a cui essa appartiene, senza farsi intimidire dal retaggio di alcuna auctoritas, e senza arretrare di fronte a quelli che talora possono apparire come enigmatici e imperscrutabili abissi di senso. Un percorso non lineare né continuo, ma accidentato e arrischiato, che conduce da taluni incunabuli della cultura occidentale fino al cuore della nostra contemporaneità. Una ricerca programmaticamente aperta, e perciò anche inevitabilmente imperfetta, sostenuta dall’urgenza di una interrogazione rilevante non solo in sede astrattamente teorica, ma ben calata anche nel contesto del nostro vissuto quotidiano. Un’interrogazione radicale, sostenuta e orientata dalla consapevolezza che «molte sono le cose terribili, ma la cosa più terribile è l’uomo» (Antigone, v. 333)[14].

Si è inteso andare davvero a fondo di una nozione straordinariamente complessa, quale è quella di pena, esplorandone la densità concettuale, senza lasciarsi soggiogare dalla veneranda tradizione a cui essa appartiene, senza farsi intimidire dal retaggio di alcuna auctoritas, e senza arretrare di fronte a quelli che talora possono apparire come enigmatici e imperscrutabili abissi di senso

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[1] Simone Weil, Attesa di Dio (1949), a cura di Joseph-Marie Perrin, trad. it. di Orsola Nemi, prefazione di Laura Boella, Rusconi, Milano 1996, p. 118. II riferimento a questo passo del testo della Weil è già presente (fin dal titolo) nel saggio di Massimo Cacciari, Due passi all’inferno. Brevi note sul mito della pena, in Umberto Curi e Giovanni Palombarini (a cura di), Diritto penale minimo, Donzelli, Roma 2002, pp. 243-54.

[2] Cfr. Simone Well, Quaderni (r95r sgg.), trad. it. e cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982-93, 4 voll.

[3] Id., Attesa di Dio cit., pp. 115-116.

[4] Weil, Attesa di Dio cit., p. 115.

[5] Ibid., p. 117.

[6] «Si può aggiungere anche la prostituzione, che sta al matrimonio come l’elemosina e il castigo senza carità stanno all’elemosina e al castigo giusti» (ibid., p. 118).

[7] Cfr. Jacques Derrida, La pena di morte (2012), a cura di Geoffrey Bennington, Marc Crépon e Thomas Dutoit, trad. it. di Silvano Facioni, ed. it. a cura di Gianfranco Dalmasso e Silvano Facioni, I: 1999-2000, II: 2000-2001, Jaca Book, Milano 2014-16. L’edizione originale del testo è comparsa a otto anni dalla morte dell’autore, il quale aveva concepito i seminari sulla pena di morte come prosecuzione e compimento della riflessione dedicata al tema «Lo spergiuro e il perdono», avviata nel 1997-98 e proseguita l’anno successivo.

[8] Id., La pena di morte, II cit., p. 53.

[9] «Annuaire de l’EHESS (1999-2000). Comptes Rendus des Cours et Conferences», 2000, p. 599·

[10]  Ibid., p. 600.

[11] Cfr. Uberto Scarpelli, Thomas Hobbes. Linguaggio e leggi naturali. Il tempo e la pena, Giuffrè, Milano 1981; Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989; Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, Diritto penale. Parte generate, Zanichelli, Bologna 2014.

[12] Nella sua dizione attuale, l’articolo 27 co. 3 della Costituzione italiana reicta: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»; ma la formulazione iniziale che esso ebbe, a opera dei relatori nominati in seno alla prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, gli onorevoli Lelio Basso (socialista) e Giorgio La Pira (democristiano), era differente: «Le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del reo. La pena di morte non è ammessa se non nei codici penali militari di guerra. Non possono istituirsi pene crudeli né irrogarsi sanzioni collettive». Cfr. Giorgio Marinucci ed Emilio Dolcini, Diritto penale. Parte generate, Giuffrè, Milano 2002, pp. 4 sgg.; Giovanni Fiandaca e Giuseppe Di Chiara, Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, Napoli 2003, pp. 33 sgg.; Domenico Pulitanò, Diritto penale, Giappichelli, Torino 2017, pp. 27 sgg.

[13] «La teoria della pena è una delle materie che, nella scienza giuridica positiva dei tempi moderni, se la sono peggio cavata; poiché, in questa teoria, l’intelletto non è sufficiente, ma si tratta essenzialmente del concetto – se il delitto e l’annullamento di esso, come quello che si determina ulteriormente come pena, è in generale considerato soltanto come male; si può certamente riguardare come irrazionale, il fatto di volere un male semplicemente per ciò, che già esiste un altro male» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, 1820, trad. it. di Giuliano Marini e Barbara Henry, ed. it. a cura di Giuliano Marini, Laterza, Roma-Bari 2004, § 99); cfr. anche Id., Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798-99), trad. it. di Nicola Vaccaro, in Id., Scritti teologici giovanili, trad. it. di Nicola Vaccaro ed Edoardo Mirri, Guida, Napoli 2002, pp. 393 sgg.

[14] Sofocle, Antigone, in Id., Tragedie e frammenti, trad. it. e cura di Guido Paduano, UTET, Torino 1982, I, p. 275 (traduzione modificata).

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