A constructive dialogue between prisoners and Penitentiary Police
Abstract. This reflection arises from the meeting of ideas of two opposite figures, a prisoner and a representative of the Penitentiary Police, united in a common need: trying to tell the interaction that accompanies them in the intramural daily life of the prison; dispelling some classic myths related to the oxymoronic couple “cops and thieves”, also fueled by some media which, in most cases, present to external society news of negative episodes, clashes, riots and events that, although serious and real, are not the only possible vision. When a prisoner tries to look beyond the prison agent’s uniform and a prison agent tries to look beyond the prisoner’s crime, takes place the meeting between two men who, although with the necessary differences, can find a constructive dialogue and useful collaboration not only to themselves, but to the entire prison system.
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Quando si tenta di analizzare un ambiente chiuso e isolato come quello carcerario, il cui accesso è riservato a pochi, la comunicazione tra le figure che lo “abitano” e la rappresentazione di questo data dai mezzi di informazione esterni possono giocare un ruolo fondamentale, nel bene e nel male.
Difatti non di rado vengono pubblicate notizie in merito alla condizione dei detenuti negli istituti penitenziari italiani e agli scontri tra questi e gli agenti di Polizia Penitenziaria, le uniche due figure che “vivono” il carcere 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, e la cui interazione merita forse di essere maggiormente oggetto di riflessioni, nonché valorizzata e incentivata, per adempiere nel modo più efficace possibile alla difesa dei diritti e al rispetto dei doveri di ambo le parti.
Da qui nasce l’idea di realizzare un articolo, uno spazio di riflessione, a quattro mani tra un detenuto, Rodolfo Locatelli, che da anni ben conosce la realtà penitenziaria italiana, e un rappresentate del Corpo di Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, Segretario Generale della sigla sindacale UILPA Polizia Penitenziaria, il cui slogan storico sintetizza anche l’obiettivo dell’articolo stesso: «abbattere le mura dei misteri per abbattere i misteri delle mura».
Da qui nasce l’idea di realizzare un articolo […] a quattro mani tra un detenuto […] e un rappresentate del Corpo di Polizia Penitenziaria […] il cui slogan storico sintetizza anche l’obiettivo dell’articolo stesso: «abbattere le mura dei misteri per abbattere i misteri delle mura»
Sono state dunque unite le riflessioni di Locatelli (riportate in corsivo), che si autodefinisce “controcorrente” per le sue affermazioni non sempre espresse pubblicamente dalla maggioranza dei detenuti, e quelle di De Fazio. Pensieri di fronti idealmente contrapposti che, pur nelle loro necessarie differenze, si incontrano, si incrociano e tentano di trovare un dialogo costruttivo, una collaborazione efficace.
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Siamo consci che solo l’approfondimento e la conoscenza del mondo carcerario, che troppo spesso costituisce un universo parallelo e alieno rispetto a quello in cui vive la generalità della popolazione, non solo per i comuni cittadini, ma non di rado persino fra i politici, possa compiutamente contribuire a reingegnerizzarne l’architettura e l’organizzazione affinché possa quantomeno tendere ad assolvere alle funzioni che la Carta costituzionale ad esso assegna. Certo, i mezzi di comunicazione potrebbero contribuire a un’informazione migliore, più coerente e adeguata, se solo si premurassero di andare oltre “la notizia”, intendendo come tale quella che si presta maggiormente a suscitare clamore, e si ponessero l’obiettivo di approfondire e “informare”, nell’accezione più alta del termine.
Mi ritengo indignato, perché questi episodi non fanno altro che gettare ombre sulle carceri, già di per sé al centro di mille polemiche. Credo di andare controcorrente dicendo che, è vero, in alcune carceri la situazione è al limite, ma in altre c’è piuttosto una mancanza di organico, dove gli agenti si trovano a coprire turni massacranti.
Turni che contemplano prestazioni straordinarie nella migliore delle ipotesi mal retribuite (un’ora di lavoro straordinario può essere pagata meno di un’ora di lavoro ordinario), con difficoltà nel fruire regolarmente dei riposi settimanali e delle ferie annuali. Basti pensare che uno studio sul fabbisogno organico condotto da un gruppo di lavoro appositamente istituito dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con un Provvedimento del Capo del Dipartimento nel corso dell’anno 2019 composto da Direttori, Comandanti e altri appartenenti alla Polizia Penitenziaria, ha quantificato l’inadeguatezza dell’attuale forza organica presente in 17mila unità mancanti.
Molti di noi detenuti pensano che gli agenti debbano solo aprire e chiudere una cella, senza pensare che sono sottoposti tutto il giorno allo stress di continue richieste (molte delle quali assurde) da parte nostra, senza contare che anche molti di loro sono lontani dalle proprie famiglie e devono affrontare le problematiche lavorative in cui il nostro Paese sa bene distinguersi.
Uno studio sul fabbisogno organico condotto […] nel corso dell’anno 2019 […] ha quantificato l’inadeguatezza dell’attuale forza organica presente in 17mila unità mancanti
Al di là di eventuali casi isolati di possibile degenerazione, sono gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria a raccogliere le istanze e i bisogni dei detenuti e a prodigarsi, non di rado dovendo dar sfoggio all’inventiva personale, per dar loro sempre e comunque una risposta nonostante il carico di lavoro esorbitante e le più volte richiamate deficienze complessive del sistema.
Nonostante tutto questo, gli appuntati si dimostrano sempre disponibili a risolvere i vari problemi della vita carceraria e, in molte situazioni, a fornire un sostegno psicologico importante. Ma noi pensiamo sempre che lo Stato ci è nemico e cerchiamo sempre uno scontro trovando pretesti assurdi.
Il paradosso, dunque, conduce a un effetto che potrebbe provocare anche una sorta di dissonanza cognitiva laddove lo Stato chiede a suoi servitori di imporre e pretendere il rispetto delle leggi che a sua volta non osserva, non solo nei confronti dell’utenza, ma persino nei confronti dei suoi stessi rappresentanti. Questo aspetto, la cui analisi scientifica meriterebbe forse approfondimenti specifici, potrebbe essere peraltro la causa o, almeno, la concausa sia di malesseri che affliggono talvolta gli appartenenti al Corpo (si pensi al tragico fenomeno dei suicidi), sia di altri effetti degenerativi.
Gli episodi di protesta portati avanti da alcuni detenuti devono essere emarginati, non fomentati come spesso accade (indicando chi si rende responsabile di tali espressioni di violenza come un eroe da supportare ed erigere a capo!). Un atteggiamento infantile e poco decoroso per chi si reputa un Uomo. Dovremmo capire che la vera battaglia è contro noi stessi, contro quel modello di vita che ci ha portato qui. A questo serve la detenzione, a migliorarsi. Siamo noi gli artefici del nostro cambiamento.
Lo Stato chiede a suoi servitori di imporre e pretendere il rispetto delle leggi che a sua volta non osserva, non solo nei confronti dell’utenza, ma persino nei confronti dei suoi stessi rappresentanti
Del resto, la finalità è la risocializzazione, mentre l’ordine e la sicurezza costituiscono alcuni dei presupposti ad essa strumentali. L’ambizione, non utopica, per il Corpo di Polizia Penitenziaria è di riuscire a concretizzare un assunto teorico e, se si vuole, forse filosofico, persino teologico, che deve conciliare sicurezza e trattamento e deve o, dovrebbe, permettere che donne e uomini che si sono macchiati talvolta anche di efferati delitti possano risocializzarsi e reinserirsi nella società con un ruolo costruttivo. Dal momento in cui inizia a scontare la pena, fermo restando il suo debito con la collettività, il “ladro” non è più tale (lo è stato, può capitare che in futuro torni a esserlo, ma non lo è in quel momento), e l’appartenente alla Polizia Penitenziaria incarna quello Stato che deve offrire alla persona che ha commesso il reato la possibilità di un recupero e di un riscatto.
Vorrei affrontare un’ulteriore problematica che spesso è causa di discussioni, un terreno impervio, sul quale cercherò di mantenermi in superficie. Queste strutture, vuoi per motivi culturali, religiosi, politici o “semplicemente” razzisti, sono una causa di stress, dove ogni parola, ogni situazione viene amplificata e male interpretata, arrivando a sfociare in rabbia repressa, contro chi si pensa sia o si individua come un nemico, perché “diverso”.
Queste strutture […] sono una causa di stress, dove ogni parola, ogni situazione viene amplificata e male interpretata, arrivando a sfociare in rabbia repressa, contro chi si pensa sia o si individua come un nemico, perché “diverso”
Se si parte dal presupposto che il detenuto e l’operatore di Polizia Penitenziaria non sono due parti in contesa, ma – al contrario – l’utente (non esclusivo) e il fornitore del servizio, si addiviene alla conclusione che il dialogo del detenuto, con altri detenuti e con operatori, dovrebbe essere una costante, specie nel percorso di risocializzazione, nel perseguimento di obiettivi comuni.
Siamo noi che dobbiamo smussare gli angoli e accettare la mano che la giustizia continuamente ci pone. Con o senza divisa, siamo tutti uomini che, chi per dovere, chi per colpa, sono costretti a vivere questa situazione. Non c’è carnefice e non c’è vittima, solo il cuore delle persone che, sostenendosi a vicenda, possono affrontare tutti gli ostacoli.
In altri termini, la rappresentazione tipica del carcere di gran lunga prevalente presso l’opinione pubblica tende, quasi banalmente, a riprodurre all’esterno delle cinte murarie una proiezione che, a sua volta, dall’esterno è trasferita all’interno del perimetro detentivo e portata a riproporre, senza soluzione di continuità, l’eterna lotta tra guardie e ladri: un paradigma destinato a condizionare fatalmente ogni approccio alla materia, che risulta così viziato da un errore di fondo.
Questi atteggiamenti servono solo a mettere in discussione un’istituzione che cerca di reinserirci nella società con i pochi mezzi a sua disposizione, quella stessa società che ci indica come reietti, e se noi per primi ci comportiamo come tali, confermando ogni dubbio, come possiamo pretendere di essere accettati al di là del muro?
Con o senza divisa, siamo tutti uomini che, chi per dovere, chi per colpa, sono costretti a vivere questa situazione. Non c’è carnefice e non c’è vittima, solo il cuore delle persone
Tuttavia, anche lo stereotipo di soggetti e figure contrapposte contribuisce, quasi come una profezia che si auto-avvera, unendosi alle ataviche deficienze che investono il sistema carcerario e, più in generale, quello di esecuzione penale del Paese, a rendere ancora più difficoltosi percorsi organici di risocializzazione e dialogo. Spesso, invero, molte attività, nel bene e nel male, sono rimesse all’iniziativa dei singoli, intesi non solo come singoli individui, ma anche come articolazioni più o meno decentrate della struttura organizzativa (singolo istituto penitenziario, singolo padiglione, singolo reparto).
Il mio appello a tutti i detenuti è che bisogna collaborare con gli organi penitenziari, e allora potremo essere liberi anche se rinchiusi, liberi dalle convinzioni sbagliate, liberi dai pregiudizi e finalmente liberi da quella nomea negativa che accompagna chi ha commesso degli errori. Chi scrive è un detenuto il cui fine pena è ben lontano dall’essere imminente, ma che, grazie al sostegno di tutto il personale addetto, riesce ad affrontare questa sua condanna con dignità e con forza, avendo alti e bassi, confrontandosi con chi lavora per aiutarsi a essere migliore, e che è arrivato ad avere la ferma convinzione che il suo futuro avrà un solo aggettivo: Onestà. Tutto questo perché io ho guardato oltre i limiti della mia condizione, trovando un alleato che non mi obbliga ma mi indirizza: la Giustizia.
Il mio appello a tutti i detenuti è che bisogna collaborare con gli organi penitenziari, e allora potremo essere liberi anche se rinchiusi, liberi dalle convinzioni sbagliate, liberi dai pregiudizi e finalmente liberi da quella nomea negativa che accompagna chi ha commesso degli errori
Penso, anche per la lunga esperienza diretta, che “l’antagonismo” fra detenuti e Polizia Penitenziaria esista più nell’immaginario collettivo che nella generalità dei casi concreti. Ovviamente, da una parte c’è chi rappresenta lo Stato, indossando un’uniforme che comporta precisi e rigidi doveri e obblighi, e dall’altra chi, tendenzialmente, per una parte più o meno breve della sua vita, ha in qualche misura incarnato “l’antistato”. Ma ciò non toglie che, sotto i rispettivi indumenti, vi siano persone umane, biologicamente predisposte a socializzare; e così avviene – pur nell’ovvia distinzione dei ruoli – nella stragrande maggioranza dei casi che, purtroppo, non fanno notizia.
Il dialogo e il confronto possono fare la differenza. Anche in una realtà fatta di regole non scritte, di codici assurdi e prese di posizione c’è chi, se preso per mano, può dissociarsi da simili manifestazioni di carattere violento e omertoso, lasciando filtrare una luce di speranza che le cose possono cambiare, che chi ha sbagliato può cambiare, che tutto può cambiare.
Penso […] che “l’antagonismo” fra detenuti e Polizia Penitenziaria esista più nell’immaginario collettivo che nella generalità dei casi […]; sotto i rispettivi indumenti, vi s[o]no persone umane, biologicamente predisposte a socializzare
Troppe volte i nostri penitenziari si trasformano in luoghi di contenimento sociale, dove allocare per un certo periodo i “reietti” della società, in cui la Polizia Penitenziaria costituisce l’ultimo baluardo di umanità di uno Stato che pensa di poter imporre le proprie regole senza a sua volta compiutamente rispettarle. Penso fortemente che in carcere, come nella società, non possano albergare concezioni manichee e che il bene, come il male, non stia solo e sempre da una parte; soprattutto, è fondamentale dare una prospettiva reale e non solo decantata alla pena detentiva e fare in modo che ciascuno nel proprio ambito abbia chiaro il proprio percorso, che non può essere avulso da quello delle altre componenti con le quali, al contrario, deve intersecarsi e trovare sinergia.
C’è molta umanità in questi luoghi, che se cercata in fondo ad ognuno di noi può essere esternata, un passo alla volta come questo, che ci toglie dall’Inferno dell’anima e ci conduce quantomeno al Purgatorio, luogo di espiazione e anticamera del Paradiso!
Deve maturare, si diceva, nella coscienza dell’opinione pubblica e dei governanti, perché – come si è visto – chi in carcere vi è detenuto e chi vi opera, a qualunque titolo, lo sa bene!
Per mandare un messaggio positivo dove due mondi apparentemente diversi si incontrano, e chissà che altri facciano loro questo pensiero!
C’è molta umanità in questi luoghi, che se cercata in fondo ad ognuno di noi può essere esternata […] che ci toglie dall’Inferno dell’anima e ci conduce quantomeno al Purgatorio