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08.01.2020
Susanna Arcieri - Luciano Peirone

Culture as a psychological tool for fighting fear and social insecurity

Interview with Luciano Peirone

Issue 1/2020

To download the e-book “La vita ai tempi del terrorismo. Psicologia e fiducia per gestire la paura e fronteggiare il Male”, edited by Luciano Peirone, click on “open file”.

To download the slides used by the Author for the Naples International Conference, (4-6 October, 2019), click here.

Dott. Peirone, potrebbe innanzitutto fornirci una sua presentazione personale? Con particolare riferimento alla sua attività di promozione di una maggiore cultura e consapevolezza in ordine ai meccanismi psicologici alla base della paura e dell’insicurezza sociale.

Potrei dire che da sempre (come si suol dire: “sin da bambino”) sono molto sensibile alle varie sfaccettature del “Male”, ovviamente nel senso di capirlo e di cercarne la soluzione, tanto nella prospettiva microscopica quanto nella prospettiva macroscopica. La scienza dell’aggressività (eridologia) e la scienza dei conflitti (polemologia), con la correlata responsabilità umana, sono state pertanto miei importanti vettori nello studio e nella professione. In particolare, la Scuola di Francoforte e le opere di vari psicoanalisti (Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Melanie Klein, Franco Fornari, Erich Fromm) hanno fortemente influenzato la mia formazione scientifica e personale.

Fra l’altro, in termini di metodologia, tengo in particolare a sottolineare che – decisamente in linea con il progetto editoriale della rivista DPU – nei miei lavori è sempre ben presente l’approccio eclettico-integrato, che valorizza tanto la trans-disciplinarità, quanto la multi-disciplinarità.

All’interno della gamma dei temi affrontati sia nella teoria sia nella prassi, non a caso sono giunto ad occuparmi anche di paura estrema e insicurezza estrema, partendo dall’evento dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono. In quella circostanza, in accordo con il Prof. Philip George Zimbardo della Stanford University, pubblicai dopo pochi giorni un “instant scientific article”, focalizzando la mia attenzione sul cosiddetto “terrorismo estremo”, giungendo anni dopo a curare l’opera La vita ai tempi del terrorismo.

Aggressività, aggressione, violenza, guerra, conflitto, disagio, malattia: queste sono state quindi le parole-chiave di molti miei studi ed interventi operativi. Essendo io fondamentalmente uno psicologo clinico con particolare attenzione alla sociologia, non potevo non interessarmi di questi temi e problemi. Voglio sottolineare: un interesse sia scientifico sia culturale, dove la conoscenza comprovata incontra lo stile di vita.

Vediamo pertanto di definire il concetto di “cultura”: riprendendo l’insegnamento del sociologo Max Weber (con il suo «agire dotato di senso»)[1], la cultura costituisce un insieme di significati, di idee, di progetti, qualcosa in grado di “dare un senso alla vita”. Nella particolare ottica della convivenza sociale e della struttura di una comunità, la cultura costituisce un robusto baluardo a ciò che “inquina e spezza”, a ciò che semina confusione, incertezza, insicurezza, paura, giungendo talvolta sino all’estremo limite, quello del terrore.

Per poter funzionare la società (ogni società) ha bisogno di una “civile” capacità nello stare assieme: capacità dell’individuo accanto ad altri individui e del gruppo accanto ad altri gruppi. L’Essere Umano non è solo buono o solo cattivo: infatti Érōs e Thánatos stanno dentro ad ogni individuo. Si ha la compresenza di Amore e Odio, di Vita e Morte, di Oggetto Buono e Oggetto Cattivo, di Bene e Male. Ma, per non essere “homo homini lupus”, occorrono cultura e civiltà nonché la loro convergenza: per l’appunto Kultur und Zivilisation.

L’Essere Umano non è solo buono o solo cattivo: infatti Érōs e Thánatos stanno dentro ad ogni individuo. Si ha la compresenza di Amore e Odio, di Vita e Morte, di Oggetto Buono e Oggetto Cattivo, di Bene e Male. Ma, per non essere “homo homini lupus”, occorrono cultura e civiltà nonché la loro convergenza: per l’appunto Kultur und Zivilisation

Un corretto atteggiamento (e relativo comportamento) psicosociale si impone. La consapevolezza (persino quella grezza, implicita, inconscia) sta alla base del pacifico stare assieme. E questa “pace” si basa sulla attivazione delle emozioni positive e sul controllo delle emozioni negative. Emozioni e relazioni. In ultima analisi è quindi la psiche (il “soffio vitale”) a costituire il fondamento del sociale (e del politico). Per cui, si hanno tranquillità vs paura, sicurezza vs insicurezza.

 

Sappiamo che, su questi temi, si è recentemente svolto un importante evento a Napoli, al quale ha preso parte lei stesso…

Stiamo parlando della Naples International Conference (4-6 ottobre 2019) dal significativo titolo “Migrazioni. Dal conflitto e dall’odio alla cura e alla speranza. Prospettive psicologiche sul benessere e le comunità – Migrations. From Conflict and Hate to Healing and Hope. Psychological Perspectives on Community and Wellness”. Questo evento (presieduto dalla Prof. Caterina Arcidiacono) è stato organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici e dal Community Psychology Lab dell’Università Federico II, nonché da IAPS (Italian American Psychological Society) e “Psicologi per la Responsabilità Sociale”, in collaborazione con AIP (Associazione Italiana di Psicologia) e Ordine degli Psicologi della Campania.

Nel mondo globalizzato oggi più che mai si assiste alla crescita della domanda di ingresso e uscita dai confini. Le migrazioni sono sia intra-nazionali sia e soprattutto inter-nazionali. Oltre ai problemi economici, politici e bellici si generano profondi problemi di ordine culturale e psicologico. Le persone in spostamento (e anche quelle ospitanti) sono sia in crisi di identità sia alla ricerca di nuove identità, “nuove” nel senso di integrare oppure sostituire ciò che si è. Radici vecchie in cerca di radici nuove.

In positivo ciò significa attuare strategie di costruzione/ricostruzione dell’identità, ispirando la speranza di preservare costumi e tradizioni, nonché modificando e rinnovando il “senso di appartenenza” alla comunità (fondendo quella vecchia con quella nuova). In negativo ciò significa destabilizzare individui e gruppi, alimentando la paura dell’“Altro”, giungendo a produrre identità radicalizzate: imbevute di fondamentalismo, populismo, nazionalismo estremo, odio, violenza, terrorismo.

 

All’interno di tale ampio contesto, che cosa andrebbe valorizzato in modo particolare secondo lei?

Sicuramente bisognerebbe evidenziare, come ha fatto la Conferenza di Napoli, la volontà di orientare la discussione verso le possibili azioni concrete da porre in essere per promuovere il cambiamento sociale. Non a caso sto usando il termine “volontà”: proprio in quanto implica una prospettiva di “volizione/intenzione” e, si spera, di “buona volontà”. Ciò rimanda a progetti, finalità e strumenti che chiaramente appartengono al campo delle scienze psicologiche. Cosa vuole l’Essere Umano? Come costruire la volontà? Come articolare intenzione e risultato? E così via…

Inoltre, l’evento napoletano ha ribadito l’importanza del creare un’ulteriore occasione di incontro e confronto tra psicologi italiani e psicologi stranieri, affinché, una volta di più, sorgano “migrazioni culturali e scientifiche”, potendo così mettere in comunione e condividere le proprie conoscenze, intuizioni ed esperienze. In tal modo hanno interagito fra loro importanti nomi italiani (Caterina Arcidiacono, Santo Di Nuovo, Paolo Valerio, Maria Francesca Freda, Donata Francescato, Bruna Zani, Fabio Lucidi, Elena Marta, Fortuna Procentese, Imma Di Napoli, Antonella Bozzaotra, Raffaele Félaco, Pierangelo Sardi, il sindaco Luigi De Magistris, etc.) e importanti nomi stranieri, soprattutto italo-americani (Phil Zimbardo, Anthony Scioli, Carmela Sansone, Linda Caterino, etc.).

L’evento napoletano ha ribadito l’importanza del creare un’ulteriore occasione di incontro e confronto tra psicologi italiani e psicologi stranieri, affinché, una volta di più, sorgano “migrazioni culturali e scientifiche”, potendo così mettere in comunione e condividere le proprie conoscenze, intuizioni ed esperienze

Quali argomenti avete avuto modo di affrontare nel corso della Conferenza?

Sono stati posti sul tavolo, analizzati e dibattuti numerosi argomenti (sia teorici sia empirici sia operativi): migrazioni, conflitto, odio, risentimento, rabbia, speranza, appartenenza, inclusione, integrazione, discriminazione, identità personale, identità di genere, identità culturale, interventi psicosociali e di comunità, stereotipi, pregiudizi, violenza, terrorismo, insicurezza, malessere, benessere, rancore, vendetta, sfiducia, fiducia, buone pratiche.

Per quanto mi riguarda, ho dedicato il mio intervento alla Conferenza – accompagnato con una presentazione in Power Point – al tema “Insecurity, distrust and malaise in the era of Extreme Terrorism – Insicurezza, sfiducia e malessere nell’era del Terrorismo Estremo”, riprendendo e sviluppando ulteriormente quanto già elaborato sul tema. In particolare, ho precisato aspetti concettuali e definitori di un iper-terrorismo quale “guerra asimmetrica” correlata ad una realtà umana psicologicamente “post-moderna e gassosa”, focalizzando inoltre possibilità e difficoltà di “community policies” basate su comprensione e consapevolezza dei problemi, speranza e coraggio, sostegno psicologico e una “salute” intesa ad ampio raggio (curare e prendersi cura).

 

Un suo interessante progetto è quello che ha portato alla creazione e diffusione dell’e-book “La vita ai tempi del terrorismo. Psicologia e fiducia per gestire la paura e fronteggiare il Male” da lei curato. Può dirci qualcosa di più in proposito?

 Il libro è stato prodotto e pubblicato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte (OPP). Esso consta di 16 contributi, preparati da 15 autori: una variegata task force di esperti, composta da dodici psicologi, un magistrato, un politologo, un consulente per la NATO. Contiene inoltre la Prefazione di Gian Carlo Caselli, autorevole protagonista nell’azione antiterroristica in Italia, ed è stato consegnato, nella versione cartacea, direttamente nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Hanno preso vita alcune centinaia di copie cartacee e (potenzialmente) infinite copie online: il tutto rigorosamente in omaggio.

A voler sintetizzare al massimo il contenuto del libro, potremmo partire parafrasando un famoso incipit, opportunamente adattato alle nostre esigenze: «Un fantasma si aggira per l’Europa (e il Mondo): il fantasma del “Terrorismo Estremo”».

Cosa intendo con questo concetto? Anche qui, si deve iniziare citando Zimbardo: «il terrorismo ruota attorno ad una cosa: la psicologia. È la psicologia della paura»; e quindi anche della insicurezza e della sfiducia. In più si aggiunge l’escalation, per cui la paura viene portata al suo massimo livello: quello del terrore. E ancora, il terrorismo non è più quello tradizionale: è diventato estremo, suicidale, individualizzato, nonché – arricchendo la teoria di Zygmunt Bauman – “gassoso”.

E allora, perché un libro sulla psicologia del terrorismo? Perché esiste una pluralità di innovazioni, di novità, che sono quelle appena elencate nelle righe qui sopra: il terrorismo portato alle estreme paradossali conseguenze (può colpire in modo “cieco” e imprevedibile per la vittima in quanto è basato sul sacrificio-martirio da parte dell’aggressore); il comparire del “terrorismo strisciante” nelle menti e nei cuori, mediante le evidenze empiriche riscontrate addirittura nei vissuti onirici (e quindi inconsci) dei pazienti in trattamento psicoterapeutico; la psicologia quale strumento in grado di portare il proprio contributo per contrastare il terrorismo; la cultura psicologica, intesa soprattutto quale “Cultura della Pace”, che ovviamente richiede uno spostamento di prospettiva, con l’inserimento del “fattore umano”, squisitamente soggettivo, “volatile” e quindi difficile, ma imprescindibile.

Si deve iniziare citando Zimbardo: «il terrorismo ruota attorno ad una cosa: la psicologia. È la psicologia della paura»; e quindi anche della insicurezza e della sfiducia. In più si aggiunge l’escalation, per cui la paura viene portata al suo massimo livello: quello del terrore. E ancora, il terrorismo non è più quello tradizionale: è diventato estremo, suicidale, individualizzato, nonché – arricchendo la teoria di Zygmunt Bauman – “gassoso”. E allora, perché un libro sulla psicologia del terrorismo? Perché esiste una pluralità di innovazioni

Attraverso questo progetto, abbiamo voluto attuare una politica scientifico-culturale tesa a produrre un forte impatto sociale. Pertanto, non solo l’opera è il risultato del lavoro di volontariato no profit degli autori e dell’editore, ma è anche liberamente fruibile da chiunque, trattandosi di un e-book gratuito scaricabile dal Sito OPP. Il file, inoltre, è stato distribuito via mail a svariate migliaia di destinatari. L’invito, per i fruitori del testo, è stato proprio quello di realizzare un “effetto cascata” disseminando e inoltrando a propria volta un messaggio su un tema che incide nella vita quotidiana di tutti.

Per quanto riguarda le finalità ultime della nostra pubblicazione, vale la sintesi: “Studiare per fare”. Dalla teoria alla prassi. “Capire e agire, capire è agire”: ovvero, capire è il primo passo, indispensabile, per “passare” all’azione e tentare di arginare/risolvere il problema del terrorismo estremo.

Per quanto riguarda le finalità ultime della nostra pubblicazione, vale la sintesi: “Studiare per fare”. Dalla teoria alla prassi. “Capire e agire, capire è agire”: ovvero, capire è il primo passo, indispensabile, per “passare” all’azione e tentare di arginare/risolvere il problema del terrorismo estremo

Il progetto ha avuto successo? Quali sono le sue impressioni in termini di risultati raggiunti?

In primo luogo abbiamo avuto diversi riscontri, anche a livello internazionale, che hanno confermato la bontà del progetto. In secondo luogo, sono state particolarmente apprezzate le innovazioni introdotte sia grazie al “taglio” che abbiamo scelto sia, soprattutto, con i contenuti dell’e-book. In terzo luogo, il libro ha suscitato vivaci interessi, al punto che, dopo le due presentazioni ufficiali a Roma e Torino, gli stessi lettori/utenti si sono fatti promotori di numerose iniziative finalizzate a proseguire e perfezionare il progetto mediante convegni e incontri di tipo scientifico – ne sono stati organizzati diversi, in città come Torino, Roma, Cuneo, Alessandria, Milano e Novara –, oppure di carattere più divulgativo (attraverso interviste e dibattiti ospitati dai mass-media). In quarto luogo, dalla nostra iniziativa sono derivati fecondi contatti con colleghi psicologi e studiosi di altre discipline, nonché gruppi e istituzioni, particolarmente interessati al cd. Contrasto all’Estremismo Violento (CVE) come pure alla prevenzione della radicalizzazione estrema.

 

Dott. Peirone, specie dopo la morte del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, come interpreta e prevede gli sviluppi del terrorismo internazionale? E, soprattutto, ritiene che adesso il mondo sia più sicuro?

Sarei solo cautamente ottimista. Dopo la sconfitta sul campo di battaglia e la dissoluzione “territoriale” di IS (Islamic State), non è detto che l’ISIS quale movimento politico-ideologico sia scomparso. Non esiste più la struttura organizzata nel senso geopolitico di “stato” (sia pure solamente autoproclamato e non riconosciuto da altri stati), ma che sarà dell’enorme numero di individui che ne costituivano il concreto braccio armato? Tra profughi, transfughi, trasformisti, evasi dai campi di prigionia, guerriglieri “duri e puri”, mogli e figli dei combattenti, e quant’altro ancora, chi può prevedere cosa succederà in quella parte del mondo (e anche nelle restanti parti)?

Si dice «morto un Papa, se ne fa un altro». Si potrebbe dire «morto un Califfato o un certo tipo di terrore, se ne fa un altro». Non a caso, pochi giorni dopo la sua uccisione, il califfo al-Baghdadi è stato prontamente rimpiazzato dal suo successore al-Qurashi: in tal modo l’ISIS non solo ha confermato la morte del “capo” ma ha anche rassicurato se stesso (e spaventato il mondo) sul fatto di essere in grado di far rinascere la propria interna leadership e di continuare l’azione terroristica esterna…

Dopo la morte di un leader i suoi seguaci, i suoi gregari non sempre si sciolgono come neve al sole: possono sopravvivere come gruppo “sotterraneo e clandestino” oppure come singole persone. Non dimentichiamo che l’uccisione di Bin Laden non ha azzerato il terrorismo: anzi, da quelle ceneri e da gruppi collaterali l’azione del terrore ha trovato impulso sotto nuove vesti e nuovi nomi.

Forse la storia potrebbe ripetersi. In Siria e dintorni, nel nuovo e sempre mutevole panorama strategico, molti combattenti locali e stranieri probabilmente modificheranno il loro comportamento, per evidenti concrete convenienze. Ma gli individui super-ideologizzati – disposti a morire per la Causa, mossi da un ideale para/pseudo-religioso che infonde tanto la certezza “divina” quanto il maniacale e delirante pensiero di essere nel giusto – non si sentiranno scalfiti: anzi, paradossalmente, potrebbero rafforzare la propria convinzione di essere rimasti i pochi “depositari” della Verità. Una élite, insomma, coriacea e imperterrita.

Dopo la morte di un leader i suoi seguaci, i suoi gregari non sempre si sciolgono come neve al sole: possono sopravvivere come gruppo “sotterraneo e clandestino” oppure come singole persone. Non dimentichiamo che l’uccisione di Bin Laden non ha azzerato il terrorismo: anzi, da quelle ceneri e da gruppi collaterali l’azione del terrore ha trovato impulso sotto nuove vesti e nuovi nomi

Inoltre, e qui siamo nel vivo della psicologia della personalità e relativa psicopatologia, certi soggetti “che più estremi non si può”, proprio in quanto sconfitti e ridotti di numero o addirittura sinora mai coinvolti (ma coinvolgibili dal “delirio suicidale”), potrebbero contribuire ad accrescere una delle caratteristiche del terrorismo “gassoso” (che va ben oltre quello “liquido”): la caratteristica della frammentazione individuale. Proprio questo “spezzettamento”, ben più invisibile e imprevedibile della compattezza del terrorismo organizzato, va ad aumentare nel mondo pacifico la soggettiva percezione di insicurezza e sfiducia.

Per queste ragioni, pesantemente psicologiche, la “cultura/subcultura” del terrore estremo è “dura a morire”, come pure l’insicurezza che continuamente aleggia nell’aria, corrodendo in termini di sottile e subliminale distress.

Cellule di foreign fighters di ritorno, lupi solitari “autoaddestrati” e “fai da te”, nonché persone del tutto prive di ideologia, di politica, di religiosità, ma affette da disturbi psichici per cui diventano “emulatori” allo scopo di ottenere il loro “quarto d’ora di celebrità” (secondo la famosa espressione di Andy Warhol): ebbene questi contenitori vuoti, facilmente riempibili da un Falso Sé Grandioso e Onnipotente, possono dare/ridare vita al pericolosissimo “self-made terrorist”.

Se c’è maggiore sicurezza nel mondo? È difficile rispondere. L’unica certezza sta in un invito: non abbassiamo la guardia. Restiamo vigili, attenti, pronti. Probabilmente l’onda lunga del terrorismo jihadista (e non solo quello) impiegherà un tempo non breve prima di estinguersi. Per cui: “estote parati”.

Se c’è maggiore sicurezza nel mondo? È difficile rispondere. L’unica certezza sta in un invito: non abbassiamo la guardia. Restiamo vigili, attenti, pronti. Probabilmente l’onda lunga del terrorismo jihadista (e non solo quello) impiegherà un tempo non breve prima di estinguersi. Per cui: “estote parati

In quali iniziative o progetti futuri è attualmente coinvolto?

Dopo i recenti approfondimenti specifici sul problema del terrorismo, sto lavorando in particolare su alcuni punti.

  • La ripresa degli studi generali – cioè di base, al di là di certe puntualizzazioni – sulle radici “a monte” (sino a quelle che potremmo definire “primarie”) dell’aggressione violenta, vale a dire la questione dell’aggressività presente nell’Essere Umano tout court e nelle sue varie diramazioni “a valle”. Si tratta della questione di come e perché “prende vita e cresce e si può controllare” la spinta aggressiva (che è assai articolata e complessa).
  • Il sottolineare, con robuste argomentazioni metodologiche ed epistemologiche “a tutto tondo”, il rischio di certi “riduzionismi” che potrebbero portare a grossolane ed errate semplificazioni del tipo «la psicologia è inutile perché il terrorismo è solo un fenomeno politico» oppure «tutto il male risiede nella presenza dell’istinto di morte».
  • Per esempio, nel volume “Aggressività e violenza” si possono trovare due miei capitoli, uno specifico sugli aspetti socio-culturali della personalità del terrorista del terzo millennio, e un altro sugli aspetti inconsci e precoci del comportamento aggressivo/violento. Si tratta di due temi solo apparentemente lontani in quanto a collocazione disciplinare (sociologia vs psicoanalisi, psicologia sociale vs psicologia clinica, approccio macroscopico vs approccio microscopico), che sono in realtà facce diverse dello stesso “oggetto”, che è l’Essere Umano.
  • Il cercare di perfezionare in senso operativo la cosiddetta “Tecnica R.”, cioè “Tecnica della Responsabilità/Responsabilizzazione” (suggerita dallo psicoanalista Franco Fornari a proposito della guerra e dei conflitti di ogni ordine e grado), calandola al meglio nei vari contesti applicativi: gli individui, i gruppi, le comunità, le società, le nazioni. Non è uno strumento facile da mettere in atto, poiché richiede di fare la dolorosa e faticosa esperienza della “posizione depressiva” (aggressività portata dentro), la quale costituisce l’inevitabile scotto da pagare per superare la “posizione schizo-paranoide” (aggressività portata fuori, contro il Nemico), approdando infine alla “posizione riparativa” (aggressività sublimata nei sentimenti positivi verso l’ex-Nemico percepito quale l’Amico).
  • Il tentativo di dare corpo ad una psicoanalisi sociale e “politica” (nel vero e nobile senso di quest’ultima parola), facendo action-research (o ricerca-azione), un modello di approccio alla ricerca che unisce l’approfondimento teorico all’esperienza di tipo pratico. La realizzazione della responsabilità (individuale, sociale, politica), autentica e profonda, avviene passando necessariamente attraverso un poderoso gioco di fantasmi inconsci, i quali sono tanto misteriosi quanto inquietanti… Insomma, per superare i conflitti esterni (che sono oggettivi e visibili) occorre tener conto del cosiddetto “Mondo Interno” (che è soggettivo e invisibile). Un bel rebus. Occorre cercare di tenere a bada i “paurosi” contenuti del proprio personale inconscio, fonte di perenne insicurezza per l’individuo.

 

Quali eventuali temi e problemi, connessi ai fenomeni del terrorismo e della paura, a suo avviso meritano ulteriore approfondimento? Su quali occorrerà concentrare l’attenzione degli studiosi nel prossimo futuro?

Numerosi e complessi compiti spettano agli studiosi nell’indirizzare le energie del domani (sia quello immediato sia quello a media/lunga gittata). Va precisato che, proprio a ribadire il senso trans-culturale e inter-generazionale nonché il coinvolgimento di tutta la popolazione (terrore e paura non hanno confini!), tali “compiti” non devono restare riservati ai ricercatori, agli specialisti, agli intellettuali, ai maîtres à penser, bensì vanno coinvolte tutte le forze sociali: politici, amministratori, cittadini comuni, educatori e (soprattutto!) i giovani, gli adolescenti, i bambini, insomma tutti coloro che vanno “forgiati” e fatti crescere. Pertanto risulta fondamentale, dopo il lavoro di “messa a punto” da parte degli esperti, l’opera di fallout sulle comunità, vale a dire l’opera di “divulgazione e intervento operativo”.

Ritornando agli specifici temi e problemi, ecco di seguito una breve elencazione panoramica di tali “doveri” (e diritti) a conoscere e a fare.

  • Il riuscire nell’arduo compito di condurre ricerche empiriche e azioni riabilitative sui singoli terroristi concreti, ben sapendo quanto sia difficile intervistarli, testarli, conoscerli, avvicinarli…
  • Il saper coniugare (efficacemente e su vasta scala) i risultati delle indagini psicologiche, sociologiche e antropologico-culturali sul terrorismo con le azioni di contrasto a quest’ultimo.
  • L’elaborazione e l’implementazione sul campo di valide “contronarrative”: da un lato, nell’ambito di una azione di “coping” verso l’ideologia e l’azione del terrorismo e, dall’altro lato, allo scopo di costruire una adeguata “resilienza” (soprattutto preventiva) in favore dei soggetti esposti, in quanto vittime, al danno materiale/immateriale prodotto/producibile dal terrorismo.
  • Il lavorare, attraverso mirate “social and community policies”, sul tema della paura e della sua gestione, rendendola “sostenibile” e impedendo la sua escalation sino al grado del terrore.
  • Ad un livello solo apparentemente più astratto, occorre saper imprimere decise svolte teorico-empiriche ed applicative sul tema “il Bene e il Male”, tanto nelle concrete “piccolezze” quotidiane, come pure nella raffinata (ma non sterile) lettura semiotico-simbolica (da parte della psicologia immaginativa, della psicoanalisi, della linguistica, della filosofia, della giurisprudenza etc.).
  • Ad esempio, il tema “Good and Evil” è importante sia nella formulazione pratica suggerita dai lavori di Zimbardo[2], sia nella formulazione logica che distingue la psicologia clinica (operante sul Male) dalla psicologia della salute (operante soprattutto sul Bene)[3].

Fig. 1: Psicologia clinica e psicologia della salute a confronto: competenze e funzioni

  • Il tutto, ovviamente, deve avvenire nel quadro della sistematica progettazione di una “Cultura della Pace” fatta non di meri suggestivi slogan o estemporanee iniziative che durano “l’espace d’un matin”, ma che invece sappia essere sia efficiente sia efficace, nonché di ampia portata socio-demografica e (soprattutto a causa della spesso problematica trasmissione dei valori da una generazione all’altra) duratura nel tempo.

In definitiva, si tratta di continuare a produrre una conoscenza scientifica che, proprio in quanto “cultura psicologica”, sappia essere al tempo stesso anche un vettore per proteggere e far ulteriormente maturare gli aspetti positivi della Persona Umana.

Si tratta di continuare a produrre una conoscenza scientifica che, proprio in quanto “cultura psicologica”, sappia essere al tempo stesso anche un vettore per proteggere e far ulteriormente maturare gli aspetti positivi della Persona Umana


[1] M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, 1958.

[2] P.G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, 2008.

[3] L. Peirone, Psicologia clinica e psicologia della salute: sviluppi contemporanei e precisazioni metodologiche / Clinical psychology and health psychology: contemporary developments and methodological specifications, in Leadership Medica, 11 (6), 1995, pp. 24 ss.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
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