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04.11.2020
Susanna Arcieri - Raffaele Bianchetti - Antonio Salvati

Literary suggestions against the death penalty

Interview with Antonio Salvati

Issue 11/2020

Siamo rimasti molto colpiti dalla lettura del suo ultimo libro, La penna e la forca. Scrittori e pena di morte. Suggestioni letterarie per il rifiuto della pena capitale (Intrecci, 2020), nel quale lei presenta una ricognizione storico-letteraria delle principali opinioni critiche espresse nel corso della storia da decine di scrittori, poeti e letterati, in materia di giustizia e, in particolare, sul problema della pena di morte.

 A questo proposito, le chiediamo: perché ha scelto proprio le la pena capitale (e le critiche a essa rivolte) come tema centrale dell’opera? Quale criterio ha seguito nel selezionare gli autori da citare?

Per la verità, non c’è stato nessun criterio. Amo molto leggere, sono un insegnante d’italiano, divoro romanzi nel corso dell’anno. In virtù del mio impegno ultraventennale per l’abolizione della pena di morte[1], rimanevo colpito ogni volta che mi imbattevo in brani, testi e romanzi che trattavano questo tema.

Dunque, ho semplicemente raccolto i vari scritti che ho incontrato negli anni, circa cinquanta autori in totale, senza di fatto operare alcuna selezione. Non pretendo certo di aver dato conto di tutto, sono sicuro che ci siano molti altri testi, soprattutto tra quelli contemporanei. Penso ad esempio a Grisham: nel mio libro ho incluso in paio di suoi romanzi, ma credo che il tema della pena di morte sia presente in altri suoi legal-thriller.

Attraverso questo libro, ho potuto coniugare due profonde passioni: quella per i romanzi e per la letteratura in generale e il mio personale impegno contro la pena di morte, impegno che condivido con gli amici della Comunità di Sant’Egidio a Roma, presso la quale presto servizio. In questo senso, proprio nella prospettiva del nostro impegno abolizionista, ho incluso nella rassegna anche alcuni testi a mio avviso particolarmente “suggestivi”, come ad esempio alcuni estratti delle opere di Dostoevskij e di Hugo.

Attraverso questo libro, ho potuto coniugare due profonde passioni: quella per i romanzi e per la letteratura in generale e il mio personale impegno contro la pena di morte […]. Proprio nella prospettiva del nostro impegno abolizionista, ho incluso nella rassegna anche alcuni testi a mio avviso particolarmente “suggestivi”, come ad esempio alcuni estratti delle opere di Dostoevskij e di Hugo

Le ragioni della scelta del tema centrale del libro, ossia l’abolizione della pena di morte e il rapporto tra giustizia e letteratura, emerge non solo dal suo impegno nell’associazionismo, ma anche – come lei stesso spiega – dall’esperienza da lei maturata, nella sua vita e nella sua professione, in merito alla possibilità di trasmettere messaggi importanti tramite rappresentazioni letterarie, cinematografiche, addirittura attraverso le canzoni. In particolare, ci ha spiegato che, talvolta, questi strumenti consentono di veicolare idee e concetti con una forza straordinaria, nei confronti sia dei giovani sia delle persone adulte.

Certo. La filosofia di fondo del mio libro è sostanzialmente questa: la letteratura, e più in generale l’espressione artistica, hanno giocato e possono giocare anche in futuro un ruolo fondamentale per quanto concerne la promozione dei diritti umani, spesso molto più di quanto possano fare testi filosofici o giuridici, che talvolta sono troppo tecnici e asettici per essere sufficientemente compresi e apprezzati da un pubblico di giovani (e non solo). Specialmente per quanto riguarda i giuristi, infatti, talvolta si ha la percezione che essi parlino più che altro “per i propri simili”, indirizzando le proprie riflessioni a un pubblico preciso e circoscritto.

A questo proposito si possono fare una valanga di esempi, molti dei quali sono riportati anche nel libro. Penso innanzitutto ad alcune pagine dell’opera di Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti, che, come è noto a tanti, contiene una critica talmente serrata nei confronti del sistema penitenziario russo da spingere lo Zar Alessandro II ad attuare un’ampia riforma giudiziaria. Ma penso anche alla nota opera di Turgenev, Memorie di un Cacciatore, i cui racconti, apparsi tra il 1847 e il 1850, rappresentano un atto di denuncia sociale molto potente, in cui sono poste in evidenza le condizioni miserevoli dei contadini dell’epoca, il dispotismo dei proprietari terrieri e il processo di progressivo impoverimento delle campagne. Il tutto venne descritto in maniera tanto efficace da suscitare forti emozioni nei lettori e si racconta che lo stesso erede al trono, il futuro Zar Alessandro III, ne rimase profondamente turbato. Sempre per restare in ambito russo, sappiamo bene, inoltre, quanto le opere di Pasternak e Solgenitsin abbiano avuto la forza e la capacità di incidere concretamente nella storia degli uomini, non solo degli uomini dei loro paesi.

La filosofia di fondo del mio libro è sostanzialmente questa: la letteratura, e più in generale l’espressione artistica, hanno giocato e possono giocare anche in futuro un ruolo fondamentale per quanto concerne la promozione dei diritti umani, spesso molto più di quanto possano fare testi filosofici o giuridici, che talvolta sono troppo tecnici e asettici per essere sufficientemente compresi e apprezzati

Ciò che ripeto spesso ai miei studenti è che molte persone della mia generazione hanno compreso l’Italia fascista in gran parte grazie ai romanzi, grazie a opere come Gli Indifferenti di Alberto Moravia e Fontamara di Ignazio Silone. Quest’ultimo, in particolare, offre un significativo spaccato della vita contadina, molto diffusa nell’Italia all’epoca, e di come vivevano gli abitanti di quei comuni rurali durante il fascismo.

Lei sostiene che la letteratura può assumere un ruolo importante anche per quanto riguarda la comprensione del concetto stesso di giustizia, e per la promozione della stessa nella società civile. In che modo, secondo lei, si manifesta concretamente questo ruolo?

Quando, nell’ambito delle attività svolte con la Comunità di Sant’Egidio, ci rechiamo nelle scuole, spesso ci sentiamo dire dagli studenti: «In Italia la pena di morte non c’è più».

In questi casi, solitamente rispondo: «Sì, grazie a Dio è vero, ma ragionare di pena di morte significa in realtà ragionare anche su altri temi, che ci riguardano da vicino, come appunto la giustizia, la vendetta, la redenzione». Sono tutti problemi su cui occorre ragionare continuamente, se non vogliamo diventare disumani. In questo senso, sono convinto che la letteratura ci venga incontro, che rappresenti un grande aiuto soprattutto per noi insegnanti, che talvolta abbiamo il limite di non riuscire a trasmettere i concetti con la stessa passione e la stessa efficacia dei grandi scrittori.

A questo proposito, bisogna però sgombrare il campo da un pregiudizio, secondo cui un romanzo è qualcosa che si legge – potremmo dire – “per perdere tempo”, o anche per puro e semplice intrattenimento. Non è così: il romanzo, di per sé (non parlo, ovviamente, di tutti i romanzi) possiede un valore fortemente conoscitivo e non è un caso che, dall’inizio dell’800, divenne via via un genere sempre più egemonico, un vero e proprio strumento di conoscenza e di verità.

Ragionare di pena di morte significa in realtà ragionare anche su altri temi, che ci riguardano da vicino, come appunto la giustizia, la vendetta, la redenzione. Sono tutti problemi su cui occorre ragionare continuamente, se non vogliamo diventare disumani

Questo è molto importante, anche perché, tra parentesi, il mio libro vorrebbe essere anche un esempio di amore nei confronti della letteratura; io stesso cerco continuamente di trasmettere ai miei studenti la mia personale passione per la letteratura. Racconto loro spesso che, leggendo e rileggendo romanzi di autori come Stendhal, Balzac, Dickens, Dostoevskij, Tolstoj, possiamo ricavarne, ogni volta, un fascino immenso, e ci sentiamo sempre profondamente toccati.

Per chi si occupa di diritto e giustizia, alcune di queste letture – ad esempio, Il Rosso e il Nero di Stendhal, Guerra e Pace di Tolstoj, L’Idiota di Dostoevskij – non solo possiedono un fascino irresistibile, ma pongono anche numerosi interrogativi. Sono testi ricchissimi di quesiti, che stimolano domande, contengono vere e proprie sfide per il diritto, nelle quali il tema di giustizia è una costante pietra d’intralcio, una domanda insistente. Spesso poi la domanda rimane priva di risposte, ma la domanda è stata posta.

Infatti, la letteratura non ha la pretesa di fornire soluzioni; tuttavia, io credo fermamente che, senza la letteratura, saremmo tutti un pochino più poveri. Come ebbe a dire Todorov, la letteratura è importante perché vuole conoscere semplicemente l’esperienza umana. Come tanti hanno sottolineato, Dante e Manzoni ci hanno insegnato tanto sulla condizione umana, quanto e forse più di tanti sociologi e psicologici. Non c’è, pertanto, un’incompatibilità fra discipline sociali e letteratura: quest’ultima è infatti in grado di calarsi nella profondità di abissi spesso incommensurabili, ivi compreso l’abisso dell’orrore della pena di morte.

In questo senso, il compito della letteratura non è trovare risposte, ma mettere a disposizione i propri mezzi per cercarle. E i mezzi di cui la letteratura dispone sono tanti.

Senza la letteratura, saremmo tutti un pochino più poveri. Come ebbe a dire Todorov, la letteratura è importante perché vuole conoscere semplicemente l’esperienza umana. Come tanti hanno sottolineato, Dante e Manzoni ci hanno insegnato tanto sulla condizione umana, quanto e forse più di tanti sociologi e psicologici. Non c’è, pertanto, un’incompatibilità fra discipline sociali e letteratura

Effettivamente, attraverso i romanzi è possibile raccontare esperienze, relazioni, situazioni, spesso in maniera molto più efficace di quanto si possa fare tramite un saggio.

Esattamente. In questo senso, la letteratura può veramente aiutarci, può essere una vera e propria risorsa di senso per l’umanità del nostro tempo. Anche sotto questo profilo, gli esempi non mancano. Ne propongo uno solo, forse quello che ho visto ha toccato maggiormente i miei studenti. Molti dei testi che ho analizzato nel libro, hanno conosciuto anche una trasposizione cinematografica (è noto a tutti il grande successo che ebbe Dead Man Walking, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di suor Helen Prejean, la cui storia è divenuta famosa proprio grazie al film). Come dicevo prima, tra i libri presenti nella mia rassegna ne ho incluso alcuni di John Grisham, tra cui un’opera intitolata L’Appello, che è poi approdata al grande schermo col film The Chamber, che vanta un’ottima performance dell’attore Gene Hackman, nei panni del condannato a morte.

L’Appello è forse uno dei libri più seri e impegnati dello scrittore americano: racconta la storia di un uomo, militante del Ku Klux Klan, razzista, accusato di aver ucciso in un attentato i due figli di un avvocato ebreo, che attende di essere giustiziato. Egli ha un nipote, un giovane laureato in legge che decide di fare propria la causa del nonno.

Grisham dipinge il condannato come un uomo spregevole, la personificazione del male assoluto, una persona che difende a spada tratta le sue idee antisemite e che ha ucciso un ragazzo nero senza motivo. Il nipote, però – che peraltro è al suo primo incarico professionale – decide non solo di difenderlo, ma anche di entrare in rapporto con questo nonno veramente ingombrante. È da sottolineare l’estrema bravura dello scrittore, che si è mostrato capace di far emergere il lato umano dell’assassino, per dimostrare come anche le persone più spietate siano capaci di sentimenti nobili. Ed è precisamente quello che, col tempo, capisce il nipote, il quale non riuscirà a salvarlo ma si ritroverà, alla fine della storia, animato da un forte senso di umanità. Capirà, cioè, che in fondo quell’uomo cercava di essere compreso e perdonato.

Si tratta di un libro che – come si vede molto bene nel film – rappresenta un vero e proprio inno alla vita, ed è perciò un ottimo strumento per far capire, una volta di più, l’inutilità della pena di morte. Sotto questo specifico aspetto, inoltre, il libro è estremamente valido: pur essendo un romanzo, tratta l’argomento con grande precisione e rigore, ma anche con durezza, e trasmette una forte angoscia. Le assicuro che ho visto giovani commuoversi, soprattutto davanti alla visione del film.

Questo mi porta ad un altro aspetto importante: la letteratura, a mio modo di vedere, ci consente di restituire dignità anche a uomini che, come il protagonista del libro di Grisham, che si sono macchiati di crimini gravissimi. Ho avuto modo di sperimentare questa circostanza personalmente, in occasione degli scambi di corrispondenza con alcuni detenuti condannati, un’attività che abbiamo avviato all’interno della Comunità di Sant’Egidio. Nell’ambito di questi rapporti epistolari, i detenuti ci hanno spesso rivolto domande e provocazioni, che ci hanno costretti a riflettere anche sulla nostra vita personale. Al contempo, ci hanno anche chiesto amicizia, umanità; si tratta di persone che, molto spesso, mostrano un profondo senso della dignità umana e non di rado sono ferventi religiosi.

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Ho frequentato le carceri per vent’anni e ho visto cose straordinarie, tanto da pensare, a volte – e si tratta di un pensiero quasi paradossale – che forse, ad alcuni, il carcere ha fatto bene, in fin dei conti. Ho visto detenuti, che nella vita da liberi non avevano mai preso in mano un quotidiano, leggere il giornale tutti i giorni; li ho visti divorare libri, intraprendere percorsi artistici attraverso il teatro.

Il carcere, soprattutto in Italia, è e rimane un’esperienza drammatica, che senz’altro non auguro a nessuno, ma talvolta può trasformarsi in un’occasione di ravvedimento, di ricomprensione della propria vita. E la letteratura rappresenta uno strumento prezioso per far emergere tutto questo.

Con tutto il rispetto, trovo che spesso i giuristi e i filosofi del diritto si imbarchino in discorsi estremamente tecnici, mentre noi “profani” abbiamo perlopiù bisogno di trasmettere un senso di dignità, di umanità dei detenuti, i quali, anche laddove abbiano effettivamente sbagliato e arrecato danni ad altri, hanno pur sempre il diritto – come prevede la Costituzione – di intraprendere un percorso di riabilitazione.

Con tutto il rispetto, trovo che spesso i giuristi e i filosofi del diritto si imbarchino in discorsi estremamente tecnici, mentre noi “profani” abbiamo perlopiù bisogno di trasmettere un senso di dignità, di umanità dei detenuti

Un passaggio del suo libro che ci ha molto colpito, e che vorremmo ricordare, è quello in cui lei osserva: «Si crede che al di là del testo di legge non ci sia altro che l’arbitrio e l’abuso di potere. Non si crede che vi sia una verità morale da scoprire, cioè che vi siano valutazioni giudiziarie corrette e giustificabili sul piano della ragione e valutazioni prevaricatrici e infondate». Lei riconduce questa circostanza a una sorta di «deficit culturale», un «problema di coscienza», che «ha bisogno di una società, di un humus culturale, in cui sia diffusa la convinzione che i giudizi di coscienza non sono il frutto dell’arbitrio personale» (p. 35-36).

Può spiegarci meglio la sua posizione su questo punto, specie con riferimento ai processi decisionali seguiti dal giudice (penale)?

Mi vengono in mente a questo proposito due libri: il primo è La domanda di giustizia, che è un dialogo tra il Cardinal Carlo Maria Martini e Zagrebelsky sul tema del giudicare, e il secondo è un’opera dello scrittore francese André Gide, Non Giudicate, che ho trattato anche nel mio libro.

I magistrati in Italia sono diverse migliaia. Si tratta, a mio avviso, di persone che hanno alle spalle un’ottima formazione non solo giuridica, ma anche culturale. È difficile incontrare un magistrato che si lascia andare a considerazioni sconsiderate.

Eppure, mi pare che talvolta alcuni magistrati subiscano non poco la pressione esercitata dai mezzi d’informazione, che spingono nella direzione della ricerca di un colpevole a tutti i costi e in tempi rapidi.

Per quanto riguarda il libro di Gide, quello che più mi ha colpito di quest’opera è il frequente richiamo, da parte dell’autore, alla dimensione interiore delle scelte degli uomini di legge. Gide sostiene che le regole giuridiche, per quanto dettagliate e precise, non possano mai prescindere, nella loro concreta applicazione, dalle valutazioni personali del giudice e dell’avvocato. I quali, ovviamente, non vivono in un mondo a parte, avulso da qualsivoglia pressione. Da questo punto di vista, la nostra cultura giuridica e sociale, ispirata ai principi del primato della legge e della neutralità del diritto e dello Stato, si trova spesso del tutto impreparata.

È difficile incontrare un magistrato che si lascia andare a considerazioni sconsiderate. Eppure, mi pare che talvolta alcuni magistrati subiscano non poco la pressione esercitata dai mezzi d’informazione, che spingono nella direzione della ricerca di un colpevole a tutti i costi e in tempi rapidi

Alcuni ritengono che, al di là del testo di legge, non ci sia altro che l’arbitrio e l’abuso di potere: si fa fatica a credere che vi sia, al contrario, una verità morale da scoprire, che esistano valutazioni giudiziarie corrette e giustificabili sul piano della regione e valutazioni prevaricatrici e infondate. Si tratta di un deficit culturale che, a mio parere, non potrà mai essere colmato semplicemente moltiplicando il numero di vincoli procedurali o dei codici di rito, perché nulla di tutto ciò potrà mai sostituire il giudizio pratico, e la libertà di scelta, del singolo operatore giuridico e del singolo magistrato.

In altri termini, si tratta di un problema di coscienza che, per essere adeguatamente affrontato, necessita, prima della redazione di norme e procedure, di un humus culturale in cui sia diffusa la convinzione che i giudizi di coscienza sono il frutto non dell’arbitrio personale, ma di un pensiero ragionato, che tenga conto di tutte le posizioni possibili e soppesi le diverse ragioni contrastanti.

Si tratta di un problema di coscienza che, per essere adeguatamente affrontato, necessita, prima della redazione di norme e procedure, di un humus culturale in cui sia diffusa la convinzione che i giudizi di coscienza sono il frutto non dell’arbitrio personale, ma di un pensiero ragionato

 

Dico questo perché ho l’impressione che ogni volta che accade qualcosa, ogni volta che ci troviamo di fronte a un nuovo problema sociale, ci sia sempre qualcuno che afferma che: «Occorre inasprire le norme». Aumentano le morti per incidenti stradali? Occorre inasprire le norme. Aumentano le morti sul lavoro? Occorre inasprire le norme.

Io credo – e mi pare di interpretare così anche il pensiero di Gide – che una società che ha cura del giudizio di coscienza e ne costudisce la corretta formazione ed edificazione, sia cosa ben diversa da una società che cerca di condizionare quei giudizi servendosi dell’emotività dell’opinione pubblica. Questo è a mio avviso il problema di fondo. E credo anche che, per quanto riguarda questo problema dell’emotività dell’opinione pubblica, sia fondamentale il richiamo degli scrittori alla dimensione interiore delle scelte degli uomini di legge, che poi è essenzialmente la questione della verità morale.

Se possiamo parlare di giudizi pratici veri o falsi è perché ammettiamo, a monte, l’esistenza di una verità morale da scoprire e da valorizzare. In caso contrario, perché mai dovremmo scandalizzarci se, in una società in cui ognuno tende a fare ciò che più gli aggrada, anche i giudici non trovano ancoraggi di ragionevolezza pratica per giustificare le loro decisioni ufficiali?

Per questo motivo è necessario, come in effetti suggeriscono numerosi scrittori, non rispondere alla violenza con altra violenza, mettendo così in moto un circolo vizioso di cui non si vede mai la fine. La giustizia deve essere altro, sempre. Ecco qual è, a mio avviso, il problema di alcuni magistrati: il fatto cioè di lasciarsi palesemente suggestionare dall’emotività dell’opinione pubblica.

Insomma, sono convinto che a una spinta verso una concezione punitivo-vendicativa occorra rispondere con un diritto rispettoso dei diritti, capace di realizzare forme di giustizia finalizzate a ripristinare le relazioni tra gli uomini. Perché il problema è tornare a convivere insieme; non recidere i rapporti, ma ricongiungerli.

Se possiamo parlare di giudizi pratici veri o falsi è perché ammettiamo, a monte, l’esistenza di una verità morale da scoprire e da valorizzare. In caso contrario, perché mai dovremmo scandalizzarci se, in una società in cui ognuno tende a fare ciò che più gli aggrada, anche i giudici non trovano ancoraggi di ragionevolezza pratica per giustificare le loro decisioni ufficiali?

Su questo tema presento alcuni esempi nel mio libro; uno è rappresentato da Albie Sachs, noto giurista sudafricano, ex membro della Corte Costituzionale del Sudafrica, che attraverso una famosa sentenza ha decretato la fine della pena di morte in Sudafrica. Sachs ha avuto una storia terribile, perché è stato vittima di un attentato da parte dei servizi segreti sudafricani durante il quale ha perso un occhio e un braccio. Quando il Sudafrica ha poi voltato pagina, egli è diventato un importante uomo di legge e si è sempre sforzato di giudicare con rettitudine, restituendo – come era solito dire – non l’uguale, ma l’opposto.

Sachs, vittima di un attentato, ha sempre detto che bisogna in ogni caso contrapporsi al male, cercando di non assomigliargli mai. Ha sostenuto che la giustizia non ha nulla a che vedere con il male restituito, ma mira al contrario a ricreare le condizioni positive preesistenti, o desiderabili ex ante.

«L’analfabetismo funzionale fortemente presente in questo Paese è molto preoccupante. La scuola e la cultura sono decisive». Così recita un post recentemente pubblicato sulla sua pagina Facebook (31 agosto 2020).

L’analfabetismo funzionale rappresenta quello che alcune delle persone più illuminate individuano come il problema chiave del nostro paese.

Abbiamo bisogno di investire molto in cultura; siamo tendenzialmente molto informati su tutto, ma buona parte della nostra popolazione è incapace d’interpretare, di comprendere veramente le notizie che raccoglie. Paradossalmente siamo sempre più connessi, ma sempre meno consapevoli della verità delle cose e sempre meno capaci di pensare in modo originale e approfondito.

Inoltre, nel sistema dell’informazione cui siamo immersi, spesso ciò che è nuovo viene anche venduto come rilevante. Ma è effettivamente così, mi domando? Dovremmo tutti provare a fare un esercizio: domandiamoci che cosa è importante per la nostra vita. Chiaramente la nostra famiglia, le persone a noi più care; spesso anche la nostra professione. Tutto ciò che riguarda questi aspetti ci tocca direttamente ed è estremamente rilevante per noi.

Mi è capitato di leggere recentemente alcune pubblicazioni in cui veniva spiegato che, di media, ciascuno di noi legge tra le 20.000 e le 30.000 notizie ogni anno. Quante di queste notizie, però, siamo in grado di ricordare? Alcuni studi attestano che mediamente dedichiamo fra i 60 e i 100 minuti al giorno al consumo di news, in tutti i possibili formati. Non moltissimo tempo, mi verrebbe da dire che non è un granché.

Nel sistema dell’informazione cui siamo immersi, spesso ciò che è nuovo viene anche venduto come rilevante. Ma è effettivamente così, mi domando?

Quasi sempre, seguire freneticamente gli sviluppi dell’attualità non ci aiuta davvero a capire il mondo. Ci illude, semmai, di partecipare emotivamente a ciò che accade nel mondo, perché veniamo raggiunti dalle notizie in tempi rapidissimi. Racconto spesso ai miei studenti che, quando rapirono Moro, per poter anche solo cominciare a capire che cosa accadde dovetti aspettare il telegiornale della sera, perché prima di quel momento non erano ancora disponibili informazioni chiare su che cosa fosse successo. Oggi, se si verifica un fatto importante, come una vicenda delittuosa grave, dopo appena mezz’ora in rete troviamo tutti i dettagli. Questo ci illude di partecipare attivamente e personalmente all’accaduto, ma non ci permette di comprendere pienamente. Il problema è che per comprendere bisogna faticare, bisogna mettere in campo fatica e – soprattutto – tempo. Occorre, cioè, conoscere non soltanto i fatti, ma anche le vicissitudini, le dinamiche che le collegano e per questo, che ci piaccia o no, occorre tempo, occorrono libri. Non è accettabile che la gente creda di aver capito tutto solo perché ha letto le notizie pubblicate su un blog.

Senza contare che questo controllo compulsivo delle news ci rende anche sempre più ansiosi, il che non fa che alimentare la nostra tendenza, forse innata, a dare spesso molto più peso alle notizie negative che da quelle positive.

Bisognerebbe, infine, contrastare anche questa diffusione incontrollata di espressioni di odio, di paura e di sospetto reciproci, contrapponendole a manifestazioni di bene, perché grazie a Dio in questo paese non siamo tutti razzisti. Ormai la paura sta dominando la nostra società, le nostre preoccupazioni personali. Vi faccio un esempio personale: come sapete sono un insegnante, e in questi giorni ho ripreso la mia attività a scuola. Non potete immaginare quanta ansia circoli oggi tra molti miei colleghi. Sicuramente viviamo in un momento storico difficile, e per la scuola le difficoltà sono particolarmente significative. Ma quando la paura diventa troppa, finisce per renderci passivi, poco inclini a essere propositivi e a intervenire in modo concreto per fare la nostra parte. La paura, cioè, intacca la nostra volontà, inducendoci a credere che tutto sia di fatto impossibile. Ma non è così; dovremmo sforzarci di generare la cultura del possibile

Il problema è che per comprendere bisogna faticare, bisogna mettere in campo fatica e – soprattutto – tempo. Occorre, cioè, conoscere non soltanto i fatti, ma anche le vicissitudini, le dinamiche che le collegano e per questo, che ci piaccia o no, occorre tempo, occorrono libri

Coloro che “fanno cultura”, penso soprattutto ai giornalisti, dovrebbero essere in prima linea in questo processo. Dovrebbero non solo essere competenti a trattare di quel che trattano, così da poter spiegare in maniera efficace le dinamiche dei fatti che raccontano, ma dovrebbero anche essere protagonisti di un giornalismo positivo, che provi anche a indicare le possibili soluzioni ai problemi descritti. Che poi è il problema anche della nostra classe politica, mi perdoni se torno sull’esempio della scuola.

Sappiamo che ha dedicato parte del suo percorso di formazione allo studio delle diverse culture, specialmente culture orientali. A questo proposito, nell’ambito delle attività di questa rivista, abbiamo avuto modo di riflettere con alcuni scienziati su come la cultura sia capace di incidere, anche profondamente, sulle capacità cognitive, di apprendimento e di regolazione delle emozioni di ciascun individuo – pare, ad esempio, che il fatto che in alcune tradizioni non sia “consentito” esprimere certe emozioni (es. vergogna, paura) possa modificare il comportamento delle persone, influenzando la loro reazione agli stimoli e le loro relazioni con gli altri –. Si tratta di un tema molto importante per il diritto penale: basti pensare al filone di ricerca dedicato ai cd. “reati culturalmente orientati”. Nel corso dei suoi studi, ha avuto occasione di affrontare anche questi problemi?

In questo particolare momento storico, caratterizzato da un trend generale di costante e progressiva decrescita del numero di esecuzioni capitali nel mondo, la pena di morte è un problema quasi esclusivamente dell’Asia. Il 95% delle esecuzioni, infatti, avvengono in paesi asiatici. In Europa, soltanto la Bielorussia prevede ancora oggi la pena di morte. Per quanto riguarda il continente americano, tra i paesi che tuttora applicano la pena capitale ci sono naturalmente gli Stati Uniti, ma anche lì – nonostante la situazione stia leggermente peggiorando, da quando Trump ha ripreso a fare ricorso alla pena di morte – il trend è molto positivo. Anche l’Africa si sta progressivamente liberando dalla pena di morte, manifestando così un senso di umanità importante; ad oggi, i paesi che ancora la applicano sono quasi sempre a maggioranza mussulmana (è il caso dell’Egitto, del Sudan, della Somalia, ecc.).

Quello della pena di morte è dunque un problema sostanzialmente circoscritto ai soli paesi dell’Asia, e alla Cina in particolare. Tuttavia, sulla base di alcune stime – purtroppo è quasi impossibile reperire dati certi – sembra che anche il numero di esecuzioni ordinate dal governo cinese sia in calo.

In questo particolare momento storico, caratterizzato da un trend generale di costante e progressiva decrescita del numero di esecuzioni capitali nel mondo, la pena di morte è un problema quasi esclusivamente dell’Asia. Il 95% delle esecuzioni, infatti, avvengono in paesi asiatici

Perché questa differenza tra l’Asia e il resto del mondo? È un argomento affascinante, che hanno studiato in molti. C’è senza dubbio una questione di cultura alla base dell’approccio che i diversi paesi hanno nei confronti della pena, e quindi anche della stessa vita umana. La cultura giuridica europea, ad esempio, risente certamente degli effetti della tradizione ebraico-cristiana che ha notevolmente influito in favore della promozione dei diritti umani. Per noi europei sarebbe semplicemente impossibile accettare un sistema di sorveglianza come quello che esiste in Cina, nel quale ogni movimento di ogni singolo cittadino è tracciato e registrato. Pensate che oggi, in Cina, anche coloro che fanno l’elemosina hanno una app sul cellulare che consente loro di ricevere il denaro tramite scansione del QR code!

Per noi occidentali tutto questo è semplicemente terrificante, oltre a rappresentare una grave violazione della nostra privacy. È però un sistema, quello cinese – sempre secondo i dati stime presentate dagli analisti – generalmente accettato dai cittadini, i quali anzi ripongono fiducia in quei meccanismi di controllo serrato sulla popolazione, nella convinzione che essi possano garantire sicurezza e stabilità a livello sociale. Pensate che lì esiste addirittura una sorta di “sistema premiale”, in base al quale ogni cittadino ha una specie di scheda, con un certo numero di punti: maggiore è il punteggio assegnato, più è facile per il singolo accedere ai servizi pubblici. Viceversa, a un punteggio basso – dovuto ad esempio alla presenza di precedenti penali – corrispondono una serie di ostacoli burocratici aggiuntivi e, in generale, una vita decisamente più complicata.

Dunque, anche le ripercussioni giuridiche e penali di queste differenze di cultura e di sistema sono significative. Senza contare, poi, le divergenze riguardanti, più nel profondo, il senso stesso della parola “giustizia”. Vi faccio un esempio: se pensiamo alle fattispecie di reato per le quali è prevista la pena di morte, nei paesi occidentali l’elenco è circoscritto alle ipotesi di omicidio; in Cina, invece, sono condannati a morte gli autori dei reati finanziari. Non di rado, nella storia, sono stati fucilati dirigenti di partito cinesi corrotti. Lo stesso vale per il traffico di stupefacenti, che è punito con estrema severità in molti paesi del Sud-est asiatico.

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[1] Antonio Salvati è infatti da anni esponente della Comunità di Sant’Egidio, tradizionalmente impegnata, tra l’altro, in una intensa campagna in favore della moratoria delle esecuzioni capitali e per l’abolizione della pena di morte.

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A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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