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13.11.2019
Redazione - Carla Bagnoli

The nature and functions of responsibility. Interview with Carla Bagnoli

Issue 11/2019

Alla luce delle attuali conoscenze scientifiche in ordine al funzionamento della nostra mente, diversi studiosi affermano che il concetto stesso di responsabilità – e i relativi criteri di attribuzione – sarebbe oggi superato, in quanto incompatibile con le teorie che spiegano l’agire umano in termini causali-deterministici.

Quale è la sua opinione in proposito?

I dibattiti recenti sulla responsabilità morale hanno visto una ripresa imponente degli argomenti scettici. Ritengo che una teoria filosofica della responsabilità debba tenere conto dei vincoli imposti dalle teorie scientifiche e, in questo caso, dalle neuroscienze. D’altra parte, gli argomenti scettici che si basano sulle neuroscienze non mi sembrano convincenti. Anzi, credo che vi siano forti argomenti per sostenere che il concetto di responsabilità svolge funzioni fondamentali, non solo dal punto di vista dell’organizzazione della nostra mente, ma anche dal punto di vista dell’organizzazione del nostro agire individuale e sociale. Ciò non esclude la spiegazione causale dell’agire. Al contrario, rappresenta una prospettiva sull’agire complementare alla spiegazione causale. Questa difesa della responsabilità come concetto cardine dell’agire guidato da principi e ragioni non dipende da vetuste tesi metafisiche, come spesso sostengono gli scettici. Certo, l’indagine filosofica deve rispettare i vincoli di tipo naturalistico. Ma ci sono diverse teorie normative della responsabilità disponibili che non si fondano su una tesi metafisica, né sul principio del controllo psicologico. Ciò che accomuna queste teorie è l’attenzione alla prospettiva deliberativa, nella quale l’agente autorizza l’azione in prima persona. Questa posizione è estranea al dibattito sul libero arbitrio. Per certi versi, può essere confusa con una riformulazione del compatibilismo, la tesi che l’attribuzione di responsabilità sia compatibile con il determinismo perché il concetto di libertà che implica è molto debole. Ma questa è, appunto, una confusione e trascura un punto importante e nuovo. Per comprendere il concetto di responsabilità bisogna interrogarsi sulle funzioni che esso svolge all’interno di comunità governate da norme. La domanda fondamentale non è se abbiamo controllo sulla nostra mente o come lo esercitiamo. Piuttosto, la domanda è se e come abbiamo autorità sulla nostra mente e come autorizziamo le nostre azioni, i nostri pensieri, le emozioni e gli atteggiamenti. Gli studi sperimentali possono contribuire a rispondere a questa domanda solo in modo indiretto; e non è affatto chiaro se il loro contributo sia decisamente a favore dello scetticismo.

Ci sono diverse teorie normative della responsabilità disponibili che non si fondano su una tesi metafisica, né sul principio del controllo psicologico. Ciò che accomuna queste teorie è l’attenzione alla prospettiva deliberativa, nella quale l’agente autorizza l’azione in prima persona […] Per comprendere il concetto di responsabilità bisogna interrogarsi sulle funzioni che esso svolge all’interno di comunità governate da norme. La domanda fondamentale non è se abbiamo controllo sulla nostra mente o come lo esercitiamo. Piuttosto, la domanda è se e come abbiamo autorità sulla nostra mente e come autorizziamo le nostre azioni, i nostri pensieri, le emozioni e gli atteggiamenti

Gli argomenti scettici hanno due obiettivi distinti. Il primo è dimostrare che non si può mai propriamente parlare di scelte libere perché non abbiamo davvero controllo e conoscenza introspettiva della mente. Il secondo obiettivo è dimostrare che non ci sono deliberazioni razionali propriamente dette, poiché la ragione non ha efficacia causale. A proposito del primo obiettivo, direi che gli studi sperimentali hanno corroborato una tesi filosofica antica e radicale. Se tali studi hanno messo in discussione il principio del controllo psicologico, la critica filosofica ha scartato tale principio non perché è in contrasto con il determinismo, ma perché non risponde alle domande centrali riguardo all’agire guidato da norme.

Molto più complesso è lo stato dell’arte a proposito del secondo obiettivo, poiché il concetto di ragione pratica e di razionalità pratica è l’oggetto stesso del contendere. In conclusione, i recenti studi scientifici hanno messo in crisi un modello intellettualistico di razionalità che era già stato ampiamente criticato e, a mio avviso, dimostrato ormai inutilizzabile. Al contempo, questi studi hanno riproposto il problema dell’autorità dell’agente nell’agire informato da ragioni e, più in generale, il problema della struttura auto-riflessiva della mente. Credo che a questa domanda possa rispondere solo una teoria della ragione pratica, cioè una teoria filosofica che spieghi in che modo il ragionamento può essere produttivo e generativo.

I recenti studi scientifici hanno messo in crisi un modello intellettualistico di razionalità che era già stato ampiamente criticato e, a mio avviso, dimostrato ormai inutilizzabile. Al contempo, questi studi hanno riproposto il problema dell’autorità dell’agente nell’agire informato da ragioni e, più in generale, il problema della struttura auto-riflessiva della mente

Nei miei studi sull’argomento difendo una teoria costruttivista secondo la quale il ragionamento ha natura pubblica, non nel senso che è una forma di negoziazione sociale, ma nel senso kantiano che ha una struttura riflessiva e dialogica, per questo capace di produrre ragioni che si indirizzano ad altri esseri razionali. Le ragioni sono strumenti preziosi per costruire interazioni cooperative. Esse articolano accordi e disaccordi, li rendono intelligibili e ci consentono di organizzare piani e strategie. Questa tesi trova conferma in recenti studi naturalistici sulla mente e sull’agire condiviso. Credo che questa convergenza sia rassicurante, poiché rafforza entrambi i percorsi di indagine, che pure rimangono distinti.

 

Nel Suo ultimo libro, Teoria della responsabilità (Il Mulino, 2019), lei opera una distinzione tra responsabilità morale e responsabilità causale.

Ci spiega, in sintesi, questa sua distinzione?

La responsabilità causale riguarda l’agire inteso come produzione o alterazioni di stati di cose. È facile pensare che la responsabilità causale sia una condizione di base della responsabilità morale. In effetti, la qualifica di agenti porta con sé l’idea dell’efficacia causale. Ma l’essere agenti ragionali non significa prima di tutto essere cause efficienti, bensì costituirsi come il principio dell’azione. Questa definizione sembra rendere secondaria l’efficacia causale secondaria. D’altra parte, oltre ad essere responsabili di ciò che intendiamo produrre, siamo spesso responsabili anche di effetti non intesi, imprevisti oppure addirittura imprevedibili. Non è ovvio se e perché questi effetti siano estranei all’agente e fuori dalle sue responsabilità. Perciò, la relazione tra responsabilità morale e responsabilità causale è molto complessa. Per esempio, solitamente l’agente è imputabile e responsabile per i danni inflitti a terzi, anche se non intenzionalmente; si deve far carico di affrontare le vittime di quei danni ed è appropriato che proponga misure di rimedio o di compensazione. Si può dire che queste siano responsabilità morali. In un altro senso di responsabilità morale, però, non ha molto senso giudicare moralmente un agente per ciò che non ha inteso fare.

Il punto essenziale è che il concetto di responsabilità sta al centro di pratiche molto differenziate che regolano relazioni personali tra soggetti reciprocamente vulnerabili e vulnerabili alla sorte. L’azione ci espone al giudizio degli altri, nonostante che si agisca in condizioni di incertezza epistemica, ovvero, senza il controllo assoluto sulle circostanze dell’azione e nell’ignoranza almeno parziale dei suoi effetti e delle sue origini. Queste caratteristiche fanno parte della condizione umana e definiscono i modi in cui possiamo assumerci le nostre responsabilità verso noi stessi e verso gli altri

L’azione ci espone al giudizio degli altri, nonostante che si agisca in condizioni di incertezza epistemica, ovvero, senza il controllo assoluto sulle circostanze dell’azione e nell’ignoranza almeno parziale dei suoi effetti e delle sue origini

Ritiene possibile – ed eventualmente a quali condizioni – attribuire all’individuo la responsabilità, morale e giuridica, per gli effetti non voluti e non previsti della sua condotta?

La responsabilità per le conseguenze di ciò che si fa, intenzionalmente o non-intenzionalmente, è particolarmente rilevante dal punto di vista morale. Questa mia affermazione può sorprendere per via del mio approccio “kantiano” alla questione della responsabilità. L’obiezione tradizionale è che tale approccio ha difficoltà a rendere conto della responsabilità delle conseguenze perché attribuisce responsabilità su base intenzionale e quindi sembra limitare la responsabilità morale dell’agente all’ambito angusto dei suoi propositi. Le difese d’ufficio consistono di ingegnosi tentativi di spiegare com’è che l’agire intenzionale possa essere isolato dalle conseguenze non intese.  Secondo me la relazione che un agente intrattiene con ciò che ha prodotto, anche non intenzionalmente, non è una relazione trascurabile. In particolare, non si è indifferenti dal punto di vista morale alle conseguenze negative di ciò che si è causato, seppure accidentalmente. Ciò significa, a mio avviso, che il problema centrale non è come distinguere le conseguenze intese da quelle non intese. Piuttosto, il problema è concepire in maniera adeguata l’ambito della deliberazione razionale, ciò che può essere trasformato attraverso l’azione. Talvolta il compito e il fine dell’azione non è produrre dei risultati, ma cambiare l’interlocutore, il suo atteggiamento oppure la relazione che abbiamo con lui. In generale, il nostro agire è soggetto alla sorte e ciò significa che non possiamo avere il controllo (metafisico o epistemico) delle conseguenze. Ma il modo in cui si reagisce alla sorte riflette il carattere ed è passibile di giudizio morale. Le azioni e le conseguenze sono imputabili non solo per via delle intenzioni, ma anche per via delle reazioni e delle risposte che l’agente dà a ciò che gli capita in sorte.

Le difese d’ufficio consistono di ingegnosi tentativi di spiegare com’è che l’agire intenzionale possa essere isolato dalle conseguenze non intese.  Secondo me la relazione che un agente intrattiene con ciò che ha prodotto, anche non intenzionalmente, non è una relazione trascurabile. In particolare, non si è indifferenti dal punto di vista morale alle conseguenze negative di ciò che si è causato, seppure accidentalmente

D’altra parte, l’agente non è imputabile per le conseguenze nello stesso modo e per le stesse ragioni per cui è imputabile per le azioni intese. Ci sono differenze rilevanti anche tra le conseguenze che l’agente non aveva previsto, quelle imprevedibili, e quelle che avrebbe dovuto prevedere. In condizioni di incertezza epistemica, l’agente che corre dei rischi è moralmente responsabile delle azioni che intraprende pur non avendo accesso epistemico alle conseguenze. Come insegna P.F. Strawson, il giudizio con cui si ascrive la responsabilità morale è corredato da una certa ampia varietà di “atteggiamenti reattivi”, che qualificano la posizione dell’agente e le sue relazioni personali all’interno della comunità regolata da norme. In questo complesso ordinamento normativo, si possono modulare in maniera molto raffinata le risposte appropriate nel caso di errore, incapacità, mancanza, negligenza, o colpa.

 

In termini più generali, ritiene che vi siano differenze tra i criteri che consentono di attribuire la responsabilità in senso giuridico e in senso morale?

Il concetto di responsabilità areteica, che si riferisce alla qualità del carattere, può essere difeso in un modo che pertiene esclusivamente all’ambito etico. Quando si dice che Liliana è una cittadina responsabile si intende lodare una qualità ammirevole del carattere e non solo un modo ammirevole di esercitare certi diritti, per esempio i diritti di cittadinanza. Tuttavia, mi colpiscono le analogie tra l’ambito etico e giuridico, specialmente se pensiamo alla teoria kantiana e al problema della sorgente della normatività e di autorità sull’azione. In un certo senso Kant segue la tradizione chiamando azione (Handlung) un atto (Tat, factum) che può essere imputato a un autore (Urheber, auctor) e quindi fatto oggetto di un giudizio che ricade sotto una legge, secondo una certa giurisdizione (iudex sive forum); ciò costituisce il fondamento della punizione o del premio (poena, praemium) (Kant, Metafisica dei costumi, 6: 227). Kant offre una articolazione complessa del modo in cui le conseguenze o i risultati di un atto possono essere imputati, secondo che l’atto sia doveroso, contrario al dovere o meritorio. In particolare, non si possono imputare conseguenze buone o cattive di un atto doveroso, poiché l’azione doverosa è anche razionalmente necessaria. Per le azioni meritorie, sono imputabili solo le conseguenze buone, mentre per le azioni proibite sono imputabili solo le conseguenze negative.

Il concetto di responsabilità areteica, che si riferisce alla qualità del carattere, può essere difeso in un modo che pertiene esclusivamente all’ambito etico. Quando si dice che Liliana è una cittadina responsabile si intende lodare una qualità ammirevole del carattere e non solo un modo ammirevole di esercitare certi diritti, per esempio i diritti di cittadinanza. Tuttavia, mi colpiscono le analogie tra l’ambito etico e giuridico, specialmente se pensiamo alla teoria kantiana e al problema della sorgente della normatività e di autorità sull’azione

Questa caratterizzazione è soddisfacente soprattutto se si pensa all’imputazione sotto una legge, per esempio nei casi in cui l’azione dell’agente abbia avuto effetti sui diritti o sullo status di altri soggetti. Se un’azione è doverosa rispetto ad una legge e la sua omissione non è scusabile, allora le conseguenze non possono essere imputabili e poco importa se sono prevedibili o meno. Questo è plausibile. Ma per rendere conto della varietà e della complessità della vita morale bisogna, a mio avviso, ripartire dalla descrizione dell’azione nella prospettiva dell’agente, ciò che costituisce il fine dell’azione. È proprio sotto la descrizione dell’azione che l’agente propone che l’azione gli è moralmente imputabile. Le conseguenze sono parte integrante della descrizione dell’azione, non degli elementi estranei o circostanziali. Al contrario, esse costituiscono la materia della deliberazione razionale e morale.

Bisogna dunque ripensare le conseguenze come parti integranti del concetto di azione, anche se non sono parte del proposito che le ha ispirate. Il lavoro deliberativo e morale dell’agente consiste nel situare l’azione nelle sue circostanze e ciò comporta il discernimento delle conseguenze.

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Assumersi la responsabilità per la propria condotta presuppone, da parte del soggetto, la capacità di spiegare le ragioni che si pongono alla base del suo comportamento.

A suo parere, gli argomenti che adduciamo per giustificare le nostre scelte comportamentali corrispondono alle cause reali dell’azione?

In altri termini, ritiene che l’essere umano sia sempre effettivamente consapevole delle istanze che, di volta in volta, lo spingono verso un determinato comportamento?

La nostra condizione epistemica è molto limitata. Le intenzioni sono opache, come diceva Kant. Non abbiamo accesso epistemico a tutti i processi mentali. Alcuni di questi processi che pure regolano la vita della mente sono sub-personali e inaccessibili alla coscienza. In più, le menti auto-riflessive come le nostre sono inclini alla confabulazione e all’auto-inganno, e ciò proprio in virtù del loro essere auto-riflessive. Ma queste condizioni della mente non minano le pratiche di attribuzione e di assunzione di responsabilità. Questa è una conseguenza importante dell’aver svincolato la responsabilità del principio del controllo psicologico ed è un vantaggio teorico notevole rispetto ad altre concezioni della responsabilità basate sull’autonomia.

Assumere la responsabilità di un’azione significa stabilire una certa relazione pratica di autorità con il proprio agire. Si tratta di una relazione normativa. Siamo capaci di intrattenere tali relazioni in quanto agenti auto-riflessivi, capaci di spiegare e giustificare ciò che facciamo sulla base di ragioni. La costruzione di ragioni è vincolata dal riconoscimento degli altri come aventi pari status. Ritenere gli altri responsabili è anch’essa una pratica che ha senso nei contesti marcati dal riconoscimento di pari status.

Le intenzioni sono opache, come diceva Kant. Non abbiamo accesso epistemico a tutti i processi mentali. Alcuni di questi processi che pure regolano la vita della mente sono sub-personali e inaccessibili alla coscienza. In più, le menti auto-riflessive come le nostre sono inclini alla confabulazione e all’auto-inganno, e ciò proprio in virtù del loro essere auto-riflessive. Ma queste condizioni della mente non minano le pratiche di attribuzione e di assunzione di responsabilità

Sotto questa descrizione, la responsabilità è connessa strettamente alla capacità di rispondere agli altri delle proprie azioni e delle proprie credenze ed è una condizione indispensabile delle interazioni cooperative in cui si richiede reciprocità. Così intesa, la responsabilità è un concetto chiave per comprendere le relazioni sistemiche tra agenti interdipendenti che sono costretti ad interagire e sono dunque reciprocamente vulnerabili in modi distintivi.

 

È noto in letteratura come i meccanismi di attribuzione della responsabilità assumano speciale rilievo nell’ambito della gestione dei conflitti sociali. Il riferimento è, in particolare, agli studi condotti nei campi della sociologia, dell’antropologia, della criminologia e della psicologia, riguardanti i processi di costruzione del “capro espiatorio”, vale a dire l’individuazione, all’interno del gruppo sociale, di una vittima designata, sulla quale vengono fatte ricadere le “colpe” dell’intera collettività e il cui sacrificio produce l’effetto di soddisfare le istanze violenze e assicurare così la pace sociale.

Sulla scorta dei suoi studi, può darci la sua chiave di lettura in ordine al presente fenomeno?

Non mi sono occupata direttamente di questi fenomeni ma questo è un caso in cui la teoria della responsabilità che ho elaborato potrebbe rivelarsi utile e dare indicazioni alternative rispetto alla tradizione antropologica e sociologica del sacrificio. Sostengo che la responsabilità è prima di tutto una pratica normativa, le cui condizioni di appropriatezza non sono dettate dalla metafisica (vincolate né al libero arbitrio, né alla metafisica descrittiva). In questa prospettiva, la responsabilità è qualcosa che gli agenti possono reclamare, rifiutare o rivendicare. Ciò significa anche che è uno strumento essenziale di riconoscimento e quindi anche di lotta per il riconoscimento. Ma può essere anche uno strumento di disconoscimento e di oppressione. Negare agli altri lo status di agente cui si possono ascrivere ed imputare le azioni è un modo di marginalizzarli e sottrarre loro l’opportunità di far parte di giochi cooperativi. Rivendicare la responsabilità per le proprie azioni è il modo primario di esprimere rispetto di sé come agenti, costituirsi come agenti in mezzo ad altri agenti, e richiedere dagli altri il riconoscimento. Reclamare la responsabilità dell’azione è un atto normativo, talvolta costitutivo. In certi casi, è addirittura un modo con cui si modificano le dinamiche di appartenenza e si alterano i criteri di accesso, di inclusione ed esclusione nelle comunità regolate da norme.

Questa interpretazione della responsabilità è particolarmente utile per gli atti che hanno un valore simbolico e sociale. Prendiamo il caso della rivendicazione di un atto terroristico. Può succedere che proprio attraverso la rivendicazione della responsabilità di un atto un soggetto fino ad allora assente dall’arena politica si costituisce come attore politico. Certo, è controverso dal punto di vista politico e moralmente riprovevole che la costituzione di un nuovo attore politico passi attraverso un atto violento. Si può argomentare che in questo caso vengono meno le condizioni di legittimità politica e morale. Ma il punto qui è che la rivendicazione di responsabilità è un atto normativo finalizzato all’affermazione dell’agente come soggetto politico. Oppure, prendiamo il caso in cui alcune donne accusate di complicità in uno stupro di massa in Uganda rifiutano la responsabilità di essere complici. Il rifiuto della complicità comporta la denuncia della narrativa dell’oppressione, e al contempo veicola la richiesta di pari considerazione e rispetto.

Questi casi paradigmatici indicano che la rivendicazione di responsabilità è una modalità fondamentale di affermazione di sé come agente e di espressione del rispetto di sé. Viene messa in atto quando l’agente si sente sotto minaccia, oppure ritiene che la sua condizione di agente sia manipolata, alienata, seriamente compromessa o addirittura negata. In alcuni casi, la rivendicazione ha carattere difensivo, nel senso che opera in difesa della propria sfera di agenti. In altri casi, invece, ha il compito di dar voce a disaccordi radicali, è un modo di far pressione per cambiare i criteri di appartenenza e, di conseguenza, di alterare lealtà e identità pratiche. In entrambi i casi, dunque, il concetto di responsabilità è uno strumento essenziale nella lotta per il riconoscimento di status e quindi di trasformazione sociale.

La rivendicazione di responsabilità è una modalità fondamentale di affermazione di sé come agente e di espressione del rispetto di sé. Viene messa in atto quando l’agente si sente sotto minaccia, oppure ritiene che la sua condizione di agente sia manipolata, alienata, seriamente compromessa o addirittura negata

In modo corrispondente, gli atti di negazione di responsabilità (disclaimers) non sono sempre evasivi, ma anche assertivi. Attraverso di essi, l’agente marginalizzato dà voce al disaccordo, mette in discussione le narrazioni del passato e propone nuovi criteri per redistribuire le responsabilità particolari. Si tratta di atti normativi che non solo modificano la posizione del nuovo attore politico, ma riorientano le relazioni future, generando nuovi obblighi e aspettative reciproche. Nei casi fortunati, si tratta di operazioni che muovono verso la riconciliazione e la riparazione.

La funzione riparativa e auto-riparativa del giudizio di responsabilità è stata del tutto ignorata, a vantaggio di una concezione molto limitata del giudizio di responsabilità come imputabilità. Recuperarla all’attenzione significa anche far leva sulla responsabilità come strumento etico e politico che regola l’accesso e l’esclusione da relazioni cooperative di mutuo vantaggio e, più in generale, dalla comunità morale. Reclamando la responsabilità di un atto, l’agente non afferma il proprio potere causale anzi, talvolta questo potere non è in gioco. Piuttosto, rivendicando o assumendosi la propria responsabilità per l’azione, l’agente si costituisce autore dell’azione e chiede di essere trattato come tale, reclamando il suo posto in un sistema di relazioni normative complesse e dinamiche. In modo corrispondente e coordinato, dichiarando qualcuno incapace di responsabilità, lo si espropria dalla sua azione, escludendolo al contempo da aspettative normative e dagli atteggiamenti reattivi segnati dalla reciprocità. Se e a quali condizioni tale esclusione sia giusta o discriminatoria è questione normativa, non empirica, né metafisica. A volte questa esclusione ha la funzione di proteggere l’agente, schermandolo dal biasimo, dal risentimento e assolvendolo da aspettative normative che, nel suo caso, sarebbero fuori luogo; questo è il caso dell’appello a circostanze attenuanti o peculiari condizioni psicologiche, temporanee o permanenti, che esentano l’agente dall’assumersi la responsabilità dell’atto. Ma altre volte questa esclusione ha il carattere della punizione, che può essere inflitta per un crimine commesso ma anche a scopo preventivo. Pensiamo, per esempio, all’antica pratica dell’ostracismo. Il dibattito sulle condizioni che sospendono il biasimo, il risentimento e l’indignazione morale si è concentrato su scuse, giustificazioni ed esenzioni. Ma l’adozione di una prospettiva disimpegnata dal punto di vista degli atteggiamenti reattivi, “oggettiva” nel senso in cui Strawson usa il termine, è una prerogativa che può essere esercitata per ragioni auto-interessate e, talvolta, per calcolo politico. Le conseguenze di questa tesi sono state trascurate e credo sia importante, invece, portarle alla luce, per comprendere la centralità del concetto di responsabilità, in tutte le sue ramificazioni.

 

Nel suo ultimo saggio, Teoria della responsabilità, vuole fornire una spiegazione filosofica dell’agire guidato da ragioni.

A quali conclusioni è giunta?

Condivido l’ipotesi che possiamo agire guidati da ragioni in virtù di una certa caratteristica naturale delle nostre menti, l’auto-riflessività. Possiamo interrogarci sulla legittimità delle nostre azioni o dei nostri stati mentali ed è proprio attraverso questo esame di legittimità che ci è consentito appropriarci di ciò che facciamo e di ciò che siamo. Attraverso questo processo critico e deliberativo, l’agente autorizza certi stati mentali o atti e li riconosce come suoi. Non si tratta di verificare la forza conativa o compulsiva di certi stati mentali, ma di impegnarsi in un’attività razionale attraverso la quale si conferisce autorità e forza normativa. Si tratta di un’attività di trasformazione, con forti risvolti identitari.

Questa attività è al contempo un esame di legittimità e una prerogativa distintiva dell’agente. Per specificare la prospettiva dell’agente si ricorre alle ragioni per l’azione, anziché alle cause dell’agire. Le circostanze e le catene causali sono importanti per caratterizzare la relazione (causale) tra l’agente e l’azione, ma non sono elementi che guidano l’agente nella sua deliberazione e quindi non interferiscono in nessun modo con l’autorità dell’agente sull’azione, né indeboliscono o rafforzano la sua responsabilità per ciò che accade. Considerazioni sulle circostanze e sulle relazioni causali entrano nella deliberazione dell’agente. Tuttavia, non sono le circostanze e le relazioni causali in sé stesse che determinano l’agente a intraprendere un corso di azione invece di un altro. Questi elementi possono avere un ruolo determinante e quindi contare come fonti aliene di autorità, solo se l’agente non si rappresenta autore della sua azione e ne subisce passivamente la forza. In questo caso, però, è proprio il suo status di agente a essere sospeso e quindi la questione della responsabilità si applica solo in senso causale.

Le circostanze e le catene causali sono importanti per caratterizzare la relazione (causale) tra l’agente e l’azione, ma non sono elementi che guidano l’agente nella sua deliberazione e quindi non interferiscono in nessun modo con l’autorità dell’agente sull’azione, né indeboliscono o rafforzano la sua responsabilità per ciò che accade

Nella prospettiva pratica, l’agente rappresenta le circostanze dell’azione, come le relazioni causali, gli effetti intesi e previsti, e altri elementi del contesto di scelta come basi per formare le sue ragioni per agire. Questa è una caratterizzazione adeguata della deliberazione, indipendentemente dal fatto che le nostre decisioni siano, sempre o talvolta, effetti di poteri causali sui quali non abbiamo controllo. Infatti, non c’è modo di essere costretti esternamente ad accettare una certa rappresentazione soggettiva, in prima persona. Per occupare una certa posizione pratica bisogna che l’agente abbia una certa relazione con sé stessa e si rappresenti come la causa della propria azione. Questa auto-rappresentazione ha una sua efficacia, che non può essere tradotta in termini causali senza perdita di significato. È, infatti, all’origine della relazione di autorità che l’agente intrattiene con la sua azione.

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A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
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