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22.06.2020
Eleonora Perego

Prison between Dante’s Inferno and Never Land

Issue 6/2020

SUMMARY: 1. How much do you really know about “punishment”, “trial”, “freedom”? – 2. Willingly entering prison: the experience of a volunteer. – 3. Let’s break the prison isolation bubble.

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«Lo duca e io per quel cammino ascoso,              133
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.                 138
E quindi uscimmo a riveder le stelle».

 

Così come l’Inferno dantesco, l’ingresso in carcere rappresenta l’inizio di una discesa, tortuosa. L’inizio di un viaggio, pieno di contraddizioni e timori, in cui non si è mai da soli ma al contempo si soffre di profonda solitudine, in cui ci sono delle guide, ma durante il quale è facile perdere la speranza. Un percorso che, nell’interesse di tutti, dovrebbe concludersi con una risalita “nel chiaro mondo”, perché il desiderio di giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta.

Un tassello fondamentale per la realizzazione di ciò consta in una consapevolezza nuova, a tratti ingenua, che dovrebbero abbracciare tutti, in particolare i non addetti ai lavori, la gente comune che di carcere non vuol sentir parlare, che in carcere non è mai stato, che del carcere fa l’oggetto di commedia. Solo così, forse, anche parole frequenti e spesso abusate, come pena, processo, libertà, acquisteranno un senso diverso. Solo così saremo un po’ di più tutti volontari, parte di un mondo parallelo ma intrecciato con la realtà carceraria, di quella gente comune che si impegna quotidianamente a far propria una consapevolezza nuova.

Solo così il carcere smetterà di essere un’isola dimenticata, un’idea confusa nella mente dei più, e sarà possibile andare “oltre” le sbarre, che non chiudono solo le celle, ma anche le menti.

Solo così il carcere smetterà di essere un’isola dimenticata, un’idea confusa nella mente dei più, e sarà possibile andare “oltre” le sbarre, che non chiudono solo le celle, ma anche le menti

1. Quanto ne sai veramente di “pena”, “processo”, “libertà”?

Quella “catena del male” che parte dal reato e arriva a provocare nella popolazione paura, rabbia, rancore, vede al centro le persone detenute, a cui la società chiede di pagare sempre più duramente per il male fatto. Ma quanto i luoghi comuni, i pregiudizi, condizionano le nostre idee più profonde su alcuni pilastri del sistema penale? Non si vuole qui dissertare sull’evoluzione storica e morale dei concetti in oggetto, ma solo offrire spunti, anzi, punti di vista differenti, di alcuni di coloro che si sono posti più domande che risposte.

«…Conosci lo slogan del Partito: “La Libertà è Schiavitù”. Hai mai pensato che se ne possono invertire i termini? La schiavitù è libertà. Da solo, libero, l’essere umano è sempre sconfitto. Deve essere per forza così, perché l’essere umano è destinato a morire, e la morte è la più grande delle sconfitte…»; così George Orwell parlava della visione distorta della libertà del Grande Fratello in 1984.

E se questo pensiero avesse anche qualcosa da insegnare? Diritto inviolabile dell’uomo, motivo di guerre, oggetto di saggi, ma difficile da vedere in un’ottica anche solo lontanamente negativa. Eppure, a ogni persona detenuta che viene privata (non in toto) della sua libertà corrisponde, in diverse forme e più o meno direttamente, la persona di cui l’autore del reato ha invaso la propria sfera di libertà. In una catena (pericolosa?) di diritti privati in modo lecito, nel primo, o illecito, nel secondo caso.

Quella “catena del male” che parte dal reato e arriva a provocare nella popolazione paura, rabbia, rancore, vede al centro le persone detenute, a cui la società chiede di pagare sempre più duramente per il male fatto. Ma quanto i luoghi comuni, i pregiudizi, condizionano le nostre idee più profonde su alcuni pilastri del sistema penale?

L’eccessiva libertà, ossia quella che esonda dagli argini della sfera di ognuno, e che porta a privare l’altro della propria, spesso ferisce, e nel caso dello Stato, viene punita. Occhio per occhio, dunque? No, almeno se si guarda alla funzione che la pena ha nello stato italiano, e che percorre i suoi primi passi dalla visione di Cesare Beccaria: «… Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali …».

Certamente, oggi la prevenzione generale e speciale hanno come chiave di lettura la finalità rieducativa dell’autore del reato ex art. 27 (III) Costituzione, finalità che trova specifica attuazione nell’Ordinamento penitenziario, e nel diritto riconosciuto al detenuto di essere sottoposto ad un trattamento rieducativo individualizzato, per il suo reinserimento sociale. Senza mezzi termini, e con un velo di tristezza, si può dire che gli ultimi interventi legislativi si siano molto incentrati sul mondo “dentro” il carcere, mentre quella linea di giunzione che collega la detenzione all’esterno, dalle misure alternative, alla vita dopo la pena, sia ancora troppo debole.

Conosci lo slogan del Partito: “La Libertà è Schiavitù”. Hai mai pensato che se ne possono invertire i termini? La schiavitù è libertà. Da solo, libero, l’essere umano è sempre sconfitto. Deve essere per forza così, perché l’essere umano è destinato a morire, e la morte è la più grande delle sconfitte

George Orwell - 1984

E, ancora, che occasioni fertili come quella della mediazione, o dei lavori socialmente utili, siano lasciati in balia di rare annaffiature, così da non germogliare come potrebbero. Quello che è certo è che strada ne è stata fatta, con riguardo al Carcere; e questa lettera maiuscola è volta a far riferimento non tanto e non solo alla struttura, quanto alla dimensione che costituisce, una vera e propria monade che, come detto, fa ancora fatica a comunicare. Ma c’è un altro concetto, a tratti pre-concetto che spesso viene utilizzato come strumento cinico di consenso, per tracciare in modo stereotipato il ruolo del carnefice: il processo penale.

«… Lo scopo di un processo è rendere giustizia e basta; qualunque altro scopo, anche il più nobile non può che pregiudicare quello che è il compito essenziale della legge: soppesare le accuse mosse all’imputato, per render giustizia e comminare la giusta pena» dice Hannah Arendt ne La banalità del male.

L’informazione, soprattutto quella legata alla cronaca nera e giudiziaria, può avere un peso enorme nell’alimentare la paura, invece che aiutare a capire.

2. Entrare in carcere spontaneamente: l’esperienza di una volontaria

Ma non è semplice parlare di carcere, ed è ancora più difficile farlo “dalla parte dei detenuti”. Ma a ben vedere, anche quest’ultima affermazione pecca di populismo.

Quando ci si accosta agli altri in quanto volontari, ci può essere, certamente, un fondo di generosità, ma spesso si tace su come lo sbaglio sia dietro l’angolo, su come si possa essere fuori posto, su come l’ostinazione di dare faccia dimenticare completamente l’interlocutore, il destinatario. E ciò non accade solo a coloro che, alle prime armi, carichi di positività e ideali, varcano la soglia del carcere con un proprio progetto “salvifico”; persiste, vigila sull’operato volontario per tutta la sua durata.

Quando, piano piano, ci rendiamo conto che la volontà non può essere soltanto la nostra, ma innanzitutto di un’altra persona. Quando molto presto impariamo a rispettare il progetto dell’altro, o la sua mancanza, il suo rifiuto, o il suo desiderio. Quando troviamo il coraggio di ammettere che il ruolo del volontario non è né quello del giustiziere né quello del samaritano. Forse è di più, forse è di meno: l’unico minimo comun denominatore sta, e deve stare, nell’assenza di pregiudizio. Il volontario lascia le sentenze a chi è competente, dà il beneficio del dubbio ma non si schiera; crede nella giustizia ma anche in un’espiazione che non sia perpetua.

Quando ci si accosta agli altri in quanto volontari, ci può essere, certamente, un fondo di generosità, ma spesso si tace su come lo sbaglio sia dietro l’angolo […], su come l’ostinazione di dare faccia dimenticare completamente l’interlocutore, il destinatario

È una persona che, secondo un mio modo di vedere, fa della parola il suo miglior strumento, ma non ne abusa, e mette al centro l’altro nel suo rapporto con se stesso e con le tutte le figure istituzionali che insieme a lei abitano il carcere. Gli aspetti normativi sono ancora pochi, ma non voglio credere che ciò dipenda dalla svalutazione della figura tra le mura del carcere. Certo, è altrettanto vero che ciò non può corrispondere a un margine di libertà molto ampio, quasi arbitrario del volontario. Quest’ultimo è in un certo senso un mediatore sui generis, perché da un lato intrattiene un rapporto con la persona detenuta, donna, uomo, anziano, giovane, a volte troppo, che sia; e dall’altro lato si interfaccia con una serie di figure certamente più centrali nel percorso di rieducazione, di cui si darà menzione nel prosieguo.

Il legislatore italiano, già nel 1975 aveva cercato di incentivare la partecipazione della società libera alla vita delle carceri, con lo scopo di agevolare i contatti con il mondo esterno ed evitare un totale isolamento. In particolare gli articoli 17 e 78 dell’Ordinamento penitenziario sanciscono ancora oggi la possibilità per i liberi cittadini di accedere agli istituti di pena, come strumento utile dell’azione rieducativa. L’articolo 17, in particolare, parla di «tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti che dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera». E ancora l’articolo 78 fa riferimento a «persone idonee all’assistenza e all’educazione […] allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro inserimento nella vita sociale. Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto».

Scopo di noi volontari è quello di aiutare coloro che a vario titolo sono detenuti, un aiuto che come ben descritto dalla legge va ben oltre le necessità materiali. Certamente interveniamo quando è possibile per risolvere alcune problematiche di ordine pratico; ma il motivo principale che credo debba spingere un volontario è il forte credo in un progetto rieducativo, insieme alla volontà di offrire un sostegno per lo più morale ai ristretti che troppo spesso si sentono abbandonati a loro stessi. Senza puntare il dito contro, ma con la mano tesa: un tempo di privazione della libertà deve essere uno spazio per ricostruirsi, per rimettere al centro le dimensioni fondamentali con sé stessi e con il prossimo. Per apprezzare la libertà propria e altrui, per riflettere su sé stessi.

C’è chi ha bisogno della carta da lettere, perché telefonare costa; chi ha bisogno di una lametta per la barba, chi di un paio di calze; ma in fondo tutti hanno bisogno di essere ascoltati. Le storie sono le più disparate, non basta che il capo di imputazione sia il medesimo per classificare una persona al pari di un’altra: ognuno ha il proprio vissuto, i propri affetti, la propria vicenda giudiziaria (magari più di una) che li rende singolari.

C’è chi ha bisogno della carta da lettere, perché telefonare costa; chi ha bisogno di una lametta per la barba, chi di un paio di calze; ma in fondo tutti hanno bisogno di essere ascoltati. Le storie sono le più disparate, non basta che il capo di imputazione sia il medesimo per classificare una persona al pari di un’altra

E per molti versi, se una certa dose di “solidarietà” (utilizzo il virgolettato per non conferire un accento buonistico) viene portata dai volontari, dagli educatori e da tutte le figure istituzionali che contribuiscono al percorso di rieducazione della persona detenuta, un’altra parte germoglia da dentro le mura: si tratta delle stesse persone detenute, che si improvvisano cuochi, parrucchieri, interpreti, persino avvocati di altri, di chi all’interno del carcere rischierebbe di soccombere, di chi è più solo e non sa dove guardare.

Non si tratta di promuovere un sentimento di compassione nei confronti di chi ha commesso un torto, anzi, credo che un volontario non possa spingersi tanto in là nella relazione emotiva, diversamente da quella pragmatica. Come si dice? Non deve diventare empatico. Uno degli aspetti più complessi, sicuramente: per mia stessa esperienza, dall’ingresso nella struttura fino al termine della visita è sempre presente un insieme di emozioni difficilmente descrivibile.

E per molti versi, se una certa dose di “solidarietà” (utilizzo il virgolettato per non conferire un accento buonistico) viene portata dai volontari […] un’altra parte germoglia da dentro le mura: si tratta delle stesse persone detenute, che si improvvisano cuochi, parrucchieri, interpreti, persino avvocati di altri, di chi all’interno del carcere rischierebbe di soccombere

Emozioni che si associano a odori, immagini, rumori inconfondibili, e che incontrano la malinconia, la sofferenza, l’apatia, a volte anche il menefreghismo di chi si siede dall’altra parte del tavolo. Sono emozioni, sensazioni che bisogna continuare a provare, una fiamma da tenere in vita a servizio dell’altro.

3. Rompiamo la bolla di isolamento del carcere

L’importanza di questa fiamma trova il proprio contraltare nelle fiamme dell’inferno. Perché il carcere è un inferno, non si può discutere di questo. Per bambini. Come per bambini? Prendete l’Isola di Peter Pan, fuori dal tempo e dallo spazio, poi rompete tutti gli orologi, sbarrate tutte le finestre dei luoghi chiusi, fate entrare il gelo dell’inverno e il caldo torrido dell’estate, togliete le porte ai bagni, date del “tu” in senso dispregiativo, sorvegliate le docce, zittite durante la celebrazione di una Messa.

E potrei andar avanti per molto. «Tutto il mondo fuori» non è solo la frase di una canzone, ma una condizione che purtroppo riguarda troppe delle carceri italiane. Luoghi dove, oltre la Costituzione, le leggi, i regolamenti, le parole dei volontari, ancora manca il senso della comprensione e della responsabilizzazione. Dove la parola d’ordine è obbedienza, come per i bambini, insieme all’isolamento e alla lontananza dal resto della società.

Prendete l’Isola di Peter Pan, fuori dal tempo e dallo spazio, poi rompete tutti gli orologi, sbarrate tutte le finestre dei luoghi chiusi, fate entrare il gelo dell’inverno e il caldo torrido dell’estate, togliete le porte ai bagni, date del “tu” in senso dispregiativo, sorvegliate le docce, zittite durante la celebrazione di una Messa

La fase della esecuzione penale è caratterizzata da diverse difficoltà, anche per quanto riguarda questioni importanti (lavoro, abitazione, assistenza sanitaria…) che subiscono una sorta di ibernazione, salvo ripresentarsi in tutta la loro drammaticità all’approssimarsi del fine pena.

Ma se la pena deve tendere al reinserimento nella società, occorre progettare e articolare tutta l’esecuzione penale in funzione di questo reinserimento, tracciando un percorso graduale che riesca.

«Tutto il mondo fuori» pensa di conoscere tutto del carcere, ma non conosce l’inverno dell’anima e i volti trasfigurati delle persone che lo vivono.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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