Credits to Pixabay.com
28.04.2021
Elisa Padoan - Maurizio Franzini

Abusi fiscali e white collar crimes. Perché la rete non cattura i pesci grossi – Ch. 2

Proposte e prospettive per una nuova distribuzione delle ricchezze.
Conversazione con Maurizio Franzini

Fascicolo 4/2021

Con l’aiuto degli economisti protagonisti delle nostre conversazioni, continuiamo a ragionare sulla diseguale distribuzione della ricchezza in Italia e nel mondo, sui cosiddetti “crimini dei colletti bianchi” e sulle storture che si riscontrano nell’applicazione pratica della giustizia. Dopo una prima panoramica dei principali temi e problemi, offerta da Giovanna Marcolongo, ricercatrice del Centro CLEAN – Crime: Law and Economic Analysis – dell’Università Bocconi di Milano[1], la nostra indagine prosegue con l’intervista a Maurizio Franzini, Professore ordinario di Politica Economica presso l’Università La Sapienza di Roma, direttore del “Menabò di Etica e Economia”, già Presidente dell’Istat (2018-2019), nonché autore di diversi libri sulle disuguaglianze e sulla distribuzione della ricchezza

Guarda il video del secondo capitolo dell’intervista a Maurizio Franzini, effettuata il 23 dicembre 2020

Guarda qui il video del primo capitolo.

Pubblichiamo qui il una sintesi del secondo capitolo dell’intervista, a firma di Elisa Padoan.

***

Nel proseguire[2] la nostra conversazione sul tema delle disuguaglianze, approfittiamo dei numerosi studi condotti da Maurizio Franzini in questo campo[3] per allargare lo sguardo al di fuori delle attività criminose e indirizzarlo sulle disparità che derivano dalla scarsa mobilità economica e sociale.

L’argomento, affascinante per le sue implicazioni economiche, sociali e culturali, è posto al centro del libro “Disuguaglianze inaccettabili. L’immobilità economica in Italia”, pubblicato nel 2013 ma ancora estremamente attuale: lì le considerazioni erano calate in un contesto caratterizzato dagli impatti della grande crisi finanziaria ed economica del 2008, che aveva approfondito le disuguaglianze già presenti nel nostro Paese (e non solo); ora quelle stesse riflessioni suonano particolarmente sinistre con una pandemia in corso destinata ad avere terribili ripercussioni sulla tenuta del sistema economico.

Del resto, è già sotto gli occhi di tutti l’aumento della povertà e delle tensioni sociali, destinate ad approfondirsi nei prossimi mesi e anni se non si adotteranno soluzioni di sostegno adeguate e non si incentiverà in modo corretto la ripresa della produzione e dei consumi, con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro. È una sfida globale, certo, ma particolarmente complicata in un’Italia ancora sofferente per la precedente crisi e avvitata su annosi problemi strutturali. Il Covid-19 ha colpito un paese già ferito, e rischia di darci il colpo di grazia.

Appare perciò quanto mai fondamentale ragionare sulle disuguaglianze e sui meccanismi che le alimentano. Parlando con Franzini, ci rendiamo conto di quanto la nostra società sia ancora divisa in classi piuttosto rigide, con uno spartiacque netto tra ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, e, soprattutto, con una trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze e dunque scarsa mobilità sociale.

 «Mobilità sociale, nell’accezione a cui voglio dare rilievo in questa sede, consiste nel fare in modo che il destino del singolo non sia fortemente dipendente dalle sue origini familiari. Mobilità sociale si realizza quando ognuno può avere una vita decente in base ai propri meriti piuttosto che in funzione del contesto in cui è nato […] si tratta di un’idea antica storicamente legata al superamento dell’ancien régime, che si immaginava di realizzare grazie ai sistemi di mercato e al capitalismo. In realtà – conclude Franzini – così non è stato, e in molti Paesi, tra cui il nostro, l’influenza delle origini familiari sul destino delle persone è ancora molto forte».

Mobilità sociale […] consiste nel fare in modo che il destino del singolo non sia fortemente dipendente dalle sue origini familiari. Mobilità sociale si realizza quando ognuno può avere una vita decente in base ai propri meriti piuttosto che in funzione del contesto in cui è nato […]. In molti Paesi, tra cui il nostro, l’influenza delle origini familiari sul destino delle persone è ancora molto forte

Se indaghiamo sui fattori decisivi per il formarsi e il perpetrarsi di tali disparità, scopriamo che non si tratta solo dei lasciti ereditari, ossia di ricchezze che si trasmettono da una generazione all’altra, ma anche dei redditi di lavoro, che dipendono moltissimo dalle condizioni familiari, sia per quanto attiene all’istruzione, perché si entra nel mondo del lavoro con un grado di istruzione più alto o più basso a seconda della famiglia da cui si proviene – e questo è il fallimento dell’idea della scuola come eguagliatore di opportunità – sia per i numerosi altri meccanismi che operano nel mercato del lavoro, in virtù dei quali le posizioni privilegiate vengono quasi sempre occupate da chi ha le migliori relazioni sociali. È un problema molto serio che si intreccia con il grado di disuguaglianza:

«Si è infatti scoperto che nei paesi come l’Italia, in cui si riscontra una più alta disuguaglianza tra i redditi – ossia i ricchi guadagnano molto più dei poveri – i ricchi sono figli dei ricchi e i poveri sono figli dei poveri, in misura maggiore che altrove. Questi due fenomeni si intrecciano in una spirale perversa che bisogna cercare di spezzare».

Il passaggio legato all’istruzione e al fallimento della scuola è, secondo chi scrive, particolarmente allarmante, poiché testimonia la miopia delle classi dirigenti che si sono susseguite, colpevoli di tagli che hanno impoverito il nostro sistema scolastico fino a renderlo inadeguato.

Basti pensare che nel 2017 l’Italia era quartultima in Europa per investimenti nell’istruzione in rapporto al PIL[4] e che la Legge di bilancio 2019, relativa al triennio 2020-2022, aveva previsto tagli progressivi per circa 4 miliardi di euro, ai quali dobbiamo aggiungere le ulteriori riduzioni di fondi stabilite l’anno successivo.

Nei paesi come l’Italia, in cui si riscontra una più alta disuguaglianza tra i redditi – ossia i ricchi guadagnano molto più dei poveri – i ricchi sono figli dei ricchi e i poveri sono figli dei poveri, in misura maggiore che altrove

A questa situazione già compromessa si sommano ora gli effetti delle chiusure legate alla pandemia e della zoppicante didattica a distanza, con una discontinuità nella frequenza le cui conseguenze impatteranno sicuramente su dispersione scolastica e preparazione complessiva nei nostri studenti. Ciò condurrà a un ulteriore inevitabile ampliamento della forbice tra “ricchi” – che hanno computer e tablet per ciascun figlio, case grandi per la concentrazione dei ragazzi, la possibilità di pagare loro delle ripetizioni per colmarne le lacune, e così via – e “poveri” – privi di tali strumenti e probabilmente afflitti dal ben più grave assillo di mettere insieme, in questa fase sventurata, il pranzo e la cena.

Questa crisi non potrà dunque che accentuare le disuguaglianze e, di conseguenza, quell’immobilismo che nuoce all’intera economia, poiché non consente di collocare i migliori nei posti in cui possono dare il maggior contributo alla società. Eppure per tanto tempo si è pensato che il capitalismo e il mercato fossero gli strumenti attraverso cui realizzare una mobilità sociale ed economica giusta ed efficiente. Ma evidentemente così non è, come dimostrano numerose stime sulla distribuzione globale della ricchezza[5]: cosa è andato storto?

Franzini ci spiega che «l’idea del mercato che non genera disuguaglianze è l’idea di un mercato con determinate caratteristiche: concorrenziale, in cui è facile entrare e nel quale è apprezzato il merito»; ma i mercati della “vita reale” non sono così perché, una volta acquisiti dei privilegi (in modo spesso non meritorio) questi tendono a durare in eterno, non rendendo più possibile la competizione.

«Si dà luogo alle rendite, che si creano in mercati non concorrenziali, in cui chi sta dentro prende qualcosa in più di quello che gli spetterebbe, tenendo fuori, attraverso dei blocchi, delle barriere all’entrata, i potenziali concorrenti, magari più meritevoli. Questo fenomeno è particolarmente evidente se si guarda alle piattaforme digitali, in cui la concorrenza è pressoché assente e il mercato dominato da pochi giganti».

L’idea del mercato che non genera disuguaglianze è l’idea di un mercato con determinate caratteristiche: concorrenziale, in cui è facile entrare e nel quale è apprezzato il merito; ma i mercati della “vita reale” non sono così perché, una volta acquisiti dei privilegi […] questi tendono a durare in eterno

Del tema si occupa anche l’economista Mariana Mazzucato nel suo libro “Il valore di tutto”, in cui spiega che le particolari dinamiche dell’innovazione – il potere dell’adozione anticipata di standard e degli effetti della rete tendenti al dominio del mercato – hanno profonde conseguenze per come viene distribuito e misurato il valore che si è creato.

Scrive Mazzucato:

«La prima più importante conseguenza è il monopolio. Storicamente, industrie naturalmente inclini a diventare monopoli, per esempio le ferrovie e l’acqua, sono state o nazionalizzate (in Europa) o fortemente regolate (negli Stati Uniti) per proteggere il pubblico dagli abusi del potere industriale. Ma le piattaforme online monopolistiche rimangono private e in larga parte non regolate malgrado tutti i problemi che sorgono: la privacy, il controllo dell’informazione, il puro potere commerciale sul mercato, per citarne alcuni. Nell’assenza di vigorose, transnazionali, forze di regolazione compensative, le aziende che stabiliscono per prime un controllo sul mercato possono raccogliere utili straordinari»[6].

Ciò è ancora più vero se si considerano le basse aliquote di tasse che le società tecnologiche pagano su questi proventi.

Spostiamo ora la nostra attenzione dalle rendite generate dai mercati non concorrenziali alle rendite finanziarie “classiche”. Una critica diffusa al capitalismo contemporaneo, diventata particolarmente intensa dopo la crisi del 2008, è legata al fatto che tale sistema ricompensa i “cacciatori di rendite” piuttosto che i veri creatori di ricchezza, tanto che la rendita appare come il modo principale (forse esclusivo) attraverso il quale l’1% più ricco della popolazione mondiale ha acquisito potere sul restante 99%.

Una critica diffusa al capitalismo contemporaneo, diventata particolarmente intensa dopo la crisi del 2008, è legata al fatto che tale sistema ricompensa i “cacciatori di rendite” piuttosto che i veri creatori di ricchezza

Come osserva Mazzucato:

«La quota di valore che va agli stipendiati è in continua diminuzione, come sono in diminuzione gli investimenti. Sono aspetti che vengono tagliati per aumentare a breve termine i margini e remunerare gli azionisti dell’impresa (dirigenti e proprietari). Tutto ciò sottrae valore invece di crearlo. Le aziende diventano così delle vacche da mungere»[7].

A seguito di tali considerazioni, Mazzucato propone, per far sì che il valore creato dalle imprese arrivi a una fetta più ampia della società, di premiare il settore privato quando prende decisioni che puntano al lungo termine[8]: in quest’ottica, reinvestire gli utili nell’economia reale dovrebbe essere condizione per qualsiasi tipo di aiuto pubblico.

Cosa ne pensa Franzini? Quali azioni dovrebbe intraprendere la politica[9] per correggere le distorsioni del sistema economico che approfondiscono il malessere – non solo economico – della collettività?

Mazzucato propone, per far sì che il valore creato dalle imprese arrivi a una fetta più ampia della società, di premiare il settore privato quando prende decisioni che puntano al lungo termine: […] reinvestire gli utili nell’economia reale dovrebbe essere condizione per qualsiasi tipo di aiuto pubblico

«Il problema dei comportamenti che dovrebbero tenere le imprese private è un problema complesso e quello che dice la Mazzucato è fondato e si potrebbe articolare così: molto spesso diamo soldi pubblici alle imprese private per finanziare cose che esse avrebbero dovuto e potuto fare tranquillamente da sole».

Ad esempio, ci spiega Franzini, anche in questa fase di pandemia molti dei bonus dati alle imprese sono serviti per fare quello che avrebbero comunque fatto; dal punto di vista sociale si tratta dunque di uno spreco, poiché si sono usati i soldi pubblici in modo non favorevole alla riduzione delle disuguaglianze.

Ma il problema più grosso, di cui si dibatte anche a livello internazionale[10] è: come indurre le imprese che si muovono sul libero mercato a seguire di più l’interesse generale invece che l’interesse particolare? Come incentivarle a spostarsi dallo shareholders capitalism (il capitalismo degli azionisti) allo stakeholders capitalism (il capitalismo di tutte le parti interessate al funzionamento dell’impresa)?

«Non è facile, osserva Franzini, però si può fare con un intervento normativo sui sistemi di governance delle imprese, per renderle più all’altezza del compito che la storia ha affidato loro, ossia quello di essere attori a vantaggio del benessere sociale; purtroppo non è una cosa che avviene con molta frequenza, anche se ovviamente ci sono imprenditori illuminati che si preoccupano del benessere collettivo».

La concorrenza, del resto, dovrebbe servire proprio a questo.

Come incentivarle a spostarsi dallo shareholders capitalism (il capitalismo degli azionisti) allo stakeholders capitalism (il capitalismo di tutte le parti interessate al funzionamento dell’impresa)?

Quindi, partendo dalla proposta di Mazzucato, Franzini fa un passo ulteriore, suggerendo l’introduzione di vere e proprie penalizzazioni per le aziende che alimentano le disuguaglianze:

«Si potrebbe decidere, ad esempio, che una certa impresa non può aggiudicarsi un appalto pubblico se il suo manager guadagna migliaia di volte più del suo operaio (stabilendo un tetto di riferimento)».

Chiudiamo le nostre riflessioni chiedendo a Franzini un commento sulle differenti proposte di aumento della tassazione dei redditi e delle ricchezze più elevati: recentemente si è tornati a discutere di imposta patrimoniale e alcuni accademici torinesi hanno lanciato l’idea di una “paperoniale[11] che vada a colpire le ricchezze finanziare e non le proprietà (lasciando dunque fuori le case), con l’obiettivo di portare nelle casse dello Stato almeno 20 miliardi di euro da investire nella lotta alla povertà.

Non si può fare però riferimento a queste proposte senza pensare alla gravissima evasione fiscale, che rende molto difficile avere evidenza delle ricchezze dei singoli. Il risultato è che la pressione fiscale diventa sempre più forte sugli onesti, risparmiando chi non rispetta le regole.

 «In Italia abbiamo su questo fronte un problema grosso come una casa perché c’è di tutto: evasione fiscale[12], elusione, non progressività, tutte cose che rendono inefficiente e inefficace il sistema fiscale per correggere le disuguaglianze. Anzi, si rischia di crearne delle nuove».

A proposito di tolleranza dei comportamenti scorretti, le forme enormi di evasione fiscale che non sono soggette a sanzioni penali ovviamente incentivano i comportamenti scorretti. Non bisogna dimenticare che in altri Paesi, che consideriamo molto civili, l’evasione fiscale è un reato penale e lo è soprattutto in funzione di deterrente.

In Italia abbiamo su questo fronte un problema grosso come una casa perché c’è di tutto: evasione fiscale, elusione, non progressività, tutte cose che rendono inefficiente e inefficace il sistema fiscale per correggere le disuguaglianze. Anzi, si rischia di crearne delle nuove

A parte questo, conclude Franzini, «c’è un problema di ridisegno complessivo del sistema fiscale: ci sono ottime ragioni per tassare di più i patrimoni, ma ciò va fatto all’interno di un quadro complessivo, non con interventi isolati, spot, rispetto ai quali sono molto scettico». Quello che occorre è sedersi intorno a un tavolo e ragionare sulle migliori modalità di intervento, chiarendo però in via prioritaria quali sono gli scopi che si vogliono raggiungere: portare semplicemente più soldi alle casse dello Stato? Ridurre le disuguaglianze?

C’è un problema di ridisegno complessivo del sistema fiscale […]. Quello che occorre è sedersi intorno a un tavolo e ragionare sulle migliori modalità di intervento, chiarendo però in via prioritaria quali sono gli scopi che si vogliono raggiungere: portare semplicemente più soldi alle casse dello Stato? Ridurre le disuguaglianze?

Se l’intervento sul sistema fiscale sarà strutturale e parte di un disegno più ampio, se sarà il frutto di una visione chiara della società che vogliano realizzare e lasciare ai nostri figli, allora aumenteranno anche le probabilità di avere un supporto democratico all’iniziativa. Qualcuno dovrà pagare di più, ma molti dovranno pagare di meno.

 

 

(Fine)

_______

[1] E. Padoan, G. Marcolongo, Soldi sporchi. Intervista a Giovanna Marcolongo – pt. 1, in questa rivista, 9 dicembre 2020.

[2] Si veda la prima parte dell’intervista a Maurizio Franzini, pubblicata in questa rivista, 23 marzo 2021.

[3] M. Franzini, Disuguaglianze inaccettabili. L’immobilità economica in Italia, Laterza, 2013. Tema poi ripreso nei successivi lavori.

[4] Cfr. G. De Feo, Quanto spende l’Italia per l’istruzione?, in You Trend, 19 maggio 2020.

[5] Tra le tante disponibili, si rimanda alla stima di Oxfam, secondo la quale nel 2015 la ricchezza complessiva dei 62 individui più ricchi del mondo era quasi equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale – 3,5 miliardi di persone (Cfr. Oxfam, An Economy for the 99%, Oxfam Briefing Paper, gennaio 2017).

[6] M. Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, 2018, p. 237.

[7] Idem, pp. 196 e ss. Che così continua: «Se i margini sono alti ma gli investimenti sono bassi, cosa ne hanno fatto le società dei loro profitti? Seguire i soldi ci conduce direttamente agli azionisti: le società hanno in gran parte distribuito gli utili agli azionisti sotto forma di dividendi e di riacquisto di azioni proprie (la percentuale dei flussi di cassa pagati agli azionisti, che era di circa il 10-20% negli anni ’70, negli ultimi 30 anni è rimasta sopra il 30%, anche se precipitò durante il boom tecnologico degli anni ’90, quando le società stavano investendo)». A seguito di queste riflessioni, Mazzucato conclude dicendo che «la finanziarizzazione del settore produttivo estrae valore: si tratta obiettivamente di una rendita».

[8] «Ad esempio quando fanno la difficile scelta di aumentare la formazione dei lavoratori, introdurre nuove e rischiose tecnologie, fare investimenti in ricerca e sviluppo che possono portare, con un po’ di fortuna, a nuove tecnologie, ma più probabilmente a niente». M. Mazzuccato, Il valore di tutto, cit., p. 203.

[9] AGIRE, Un Manifesto contro le disuguaglianze, Laterza, 2018.

[10] Si vedano, ad esempio, il dibattito e le proposte nate nel World Economic Forum (WEF) di Davos 2020, così sintetizzate da Klaus Schwab, economista tedesco fondatore dell’evento: «Dovremmo cogliere questo momento per assicurarci che il modello dominante rimanga quello dello stakeholder capitalism. Per questa ragione, il WEF sta rilasciando un nuovo “Davos Manifesto,” che dichiara che le aziende dovrebbero pagare le giuste tasse, dimostrare zero tolleranza alla corruzione, sostenere i diritti umani lungo le proprie filiere e promuovere una parità di condizioni concorrenziali, specialmente nell’ambito dell’economia delle piattaforme» (K. Schwab, Why we need the ‘Davos Manifesto’ for a better kind of capitalism, in World Economic Forum, 1 dicembre 2019).

[11] Per la versione completa si veda il sito paperoniale.it gestito dal Centro Studi Argo di Torino. L’idea prevede un contributo di solidarietà con aliquote progressive, mai superiori all’1 per cento, calcolate sulla ricchezza finanziaria.

[12] L’Italia è il Paese europeo con l’evasione fiscale più alta. Secondo le stime della Relazione sui reati finanziari, l’evasione e l’elusione fiscale, approvata dal Parlamento europeo il 26 marzo 2019 nel nostro Paese ogni anno i mancati pagamenti dovuti al fisco ammontano a 190,9 miliardi di euro, sugli 825 miliardi dell’intera Europa. Siamo primi anche per evasione fiscale pro capite, con una media di 3.156 euro all’anno a persona.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

La Rivista non impone costi di elaborazione né di pubblicazione