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24.02.2021
Carla Bagnoli - Mario De Caro - Pietro Pietrini - Susanna Arcieri - Raffaele Bianchetti

Ancora su libero arbitrio, imputabilità e responsabilità penale – pt. 2

Un diritto penale incoerente?
Conversazione con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini

Nella lunga conversazione avuta con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini abbiamo discusso nuovamente di libero arbitrio, responsabilità morale, imputabilità e colpevolezza, allo scopo di individuare, con l’aiuto dei tre Autori, i principali apporti della filosofia e delle neuroscienze moderne su quelle che, a nostro avviso, rimangono oggi alcune delle maggiori contraddizioni del sistema di giustizia penale.

Che cosa significa affermare che “l’uomo è libero”?

 

Quali condizionamenti subisce l’individuo ogni volta che agisce e pensa, e in quale misura l’esistenza di essi è conciliabile con i concetti di “coscienza e volontà” che sono alla base dell’attribuzione della responsabilità penale?

 

Ha senso, dal punto di vista della filosofia morale e delle scienze cognitive, il ricorso alla “pena” così come la intendiamo oggi?

Fascicolo 2/2021

Prosegue la conversazione con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini: in questo secondo capitolo, gli autori si interrogano sulla tenuta dei principi posti a fondamento della responsabilità penale, analizzando i concetti di coscienza e volontà, imputabilità e colpevolezza alla luce delle recenti acquisizioni della filosofia e delle neuroscienze.

Guarda il video del secondo capitolo della conversazione con Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini, effettuata il 4 dicembre 2020

Guarda qui il primo capitolo della conversazione

Da quanto detto finora[1], pare che la libertà umana sia più limitata di quanto normalmente si creda. Se è così, ritenete che occorra ripensare l’impostazione attuale del diritto penale, e se sì in quale misura?

Termini come “imputabilità”, “colpevolezza”, così come la stessa idea di “pena”, sono concetti coerenti con la natura dell’uomo che la scienza moderna ci mostra?

 

Carla Bagnoli

Prima di tutto, sulla scorta delle riflessioni condivise dai due miei interlocutori, vorrei segnalare alcune differenze di pensiero. Credo che sia importante, una volta stabiliti i punti di convergenza generale, chiarire anche gli elementi di divergenza, proprio per favorire un dibattito ulteriore. Personalmente non credo, ad esempio, che la via tracciata da questa feconda interazione tra scienze naturali, neuroscienze, filosofia teoretica e pratica, filosofia della mente e del diritto, vada nella direzione del compatibilismo. Non penso nemmeno che sia opportuno o corretto affrontare la questione della responsabilità e dell’imputabilità a partire dalle due condizioni, quella epistemica e quella del controllo, che invece mi pare che né Il Prof. De Caro né il Prof. Pietrini mettano in discussione.

Infatti, riguardo a ciascuna di queste condizioni, ovvero sia l’idea che per essere responsabili occorra avere il controllo psicologico sul contenuto della rappresentazione dell’azione, la filosofia recente di impostazione neokantiana (ma non solo) ha fatto vedere che, se si intende prendere sul serio la questione della normatività, vi sono altre strade da battere, in particolare quelle che conducono a ripensare tanto l’importanza quanto il contenuto stesso della condizione di controllo psicologico.

Per esempio, Thomas Scanlon[2] nega che il controllo psicologico sia una condizione del giudizio di responsabilità morale e, seppure per vie diverse, anch’io sostenuto questa tesi nel mio libro sulla teoria della responsabilità[3]. Non si tratta di una posizione compatibilista in quanto si fonda proprio su un argomento che sposta l’attenzione dalla questione metafisica (del libero arbitrio) alla questione normativa della responsabilità reciproca ed è un invito a prendere sul serio la normatività generata dalle relazioni personali.

A questi rilievi si aggiunge anche una perplessità sulla condizione epistemica, che vincola il giudizio di responsabilità alla trasparenza epistemica. A mio avviso, accettare la condizione epistemica conduce sul sentiero imboccato da Nietzsche e seguito da Cacciari, ossia quello di suggerire che, in assenza di trasparenza epistemica, qualsiasi pratica basata sulla responsabilità e sull’imputabilità sia fondamentalmente immeritata e iniqua. È un’ipotesi che fa della normatività un mero strumento di potere e interpreta il diritto come una violenza sistematizzata, secondo il paradigma “sorvegliare e punire” piuttosto che uno strumento di regolamentazione inteso alla coordinazione e alla cooperazione. Rifiutare la condizione epistemica non ci impegna a negare che l’opacità della mente umana e delle pratiche sociali.

Al contrario, ci consente di apprezzare la capacità di deliberare in modo razionale, nonostante le condizioni di opacità sopra menzionate. L’argomento è analogo alla capacità di deliberare razionalmente in condizioni di incertezza: l’opacità e l’incertezza non rendono la deliberazione possibile, anzi la rendono necessaria, dal punto di vista pratico.

Oltre alle questioni legate alle neuroscienze, ci sono poi quelle legate alla stessa teoria del ragionamento. Ad esempio, un’agenda di ricerca epistemologica a mio parere interessantissima e non ancora ben sviluppata è quella che riguarda l’opacità degli algoritmi, che vengono oggi utilizzati – o, quantomeno, sembrerebbero in fase di prima utilizzazione – anche in ambito penale. La circostanza che gli algoritmi abbiano una capacità intrinseca che “non va d’accordo” con le pratiche di trasparenza della giustificazione ordinaria crea un livello di complessità difficilmente aggirabile.

Perché, dunque, tenere ferme queste due condizioni – la condizione epistemica e quella del controllo –, che sono messe in crisi da più parti, e non prendere invece sul serio l’idea che si sia parlando di una pratica normativa? Laddove scegliessimo questa seconda strada, noteremmo immediatamente il fatto che le comunità umane sono prima di tutto comunità governate da norme. È vero che i contenuti delle norme cambiano, ma il fatto che le comunità umane siano regolate da norme è di per sé una circostanza che non è mai cambiata. Ciò induce a ritenere che quella normativa sia una struttura costitutiva della comunità umana stessa.

Le comunità umane sono prima di tutto comunità governate da norme. È vero che i contenuti delle norme cambiano, ma il fatto che le comunità umane siano regolate da norme è di per sé una circostanza che non è mai cambiata. Ciò induce a ritenere che quella normativa sia una struttura costitutiva della comunità umana stessa

Carla Bagnoli

Ecco allora che, a partire da questo dato, su cui si può trovare una convergenza, risulta chiaro come la sfida della filosofia (e non solo) sia prima di tutto quella di capire quali sono i modelli che consentono di comprendere il funzionamento di quella che il Prof. De Caro ha definito la “interazione tra livelli differenti della mente”, del corpo e delle emozioni per esempio.

Affermare l’esistenza di norme costitutive non equivale a dire che vi siano delle norme assolute, che si tramandano dall’età della pietra ai giorni nostri; significa, piuttosto, sostenere che esiste una struttura normativa di qualche tipo, che deve essere indagata, e, forse, il ruolo della responsabilità è proprio quella di regolare rapporti normativi all’interno di una comunità governata da regole.

I possibili modelli sono molti e diversi. Personalmente, propendo per il modello deliberativo fondato sull’eguaglianza e sul rispetto reciproco, che mi sembra garantire l’equità all’interno di una democrazia pluralista e liberale; nondimeno, la storia della filosofia ce ne ha indicati altri, come ad esempio il modello hobbesiano. Guardando alla storia della filosofia, possiamo analizzare e confrontare vari modelli per valutarne i vantaggi comparativi rispetto al problema generale, che è quello di consentire coordinamento e della cooperazione in modo equo.

 

Mario De Caro

Mi trovo abbastanza d’accordo con il pensiero della Prof.ssa Bagnoli, più di quanto lei pensi, credo. Tuttavia, c’è un’obiezione che a mio parere merita di essere considerata.

Partirei da un esempio: pensiamo alle classiche slot machine che a tutti noi è capitato di vedere all’interno dei bar. Quando una persona inizia a giocare, a premere i pulsanti della macchina, è convinta di governare il gioco. Quasi subito però si accorge che il sistema, in realtà, procede da solo: insomma, noi inizialmente crediamo di avere il controllo sul funzionamento del gioco ma in verità non facciamo accadere assolutamente nulla.

Questo è un classico caso di mente epifenomenica: ci sembra che la mente causi qualcosa, quando in realtà non causa un bel niente. D’altra parte, dalle ricerche della psicologia cognitiva e soprattutto della psicologia sociale oggi sappiamo che questo fenomeno è molto più diffuso di quanto ci piacerebbe credere, che cioè molte delle nostre scelte funzionano esattamente in questo modo.

Pensiamo alle classiche slot machine che a tutti noi è capitato di vedere all’interno dei bar. Quando una persona inizia a giocare, a premere i pulsanti della macchina, è convinta di governare il gioco […]. Questo è un classico caso di mente epifenomenica: ci sembra che la mente causi qualcosa, quando in realtà non causa un bel niente

Mario De Caro

Molto spesso, infatti, siamo del tutto ignari delle vere motivazioni per cui facciamo una scelta, e ciò nonostante siamo convinti – per via di alcuni stati, credenze o desideri particolari che ci caratterizzano – di avere il controllo su quello che accade. Non è così: esiste una sorta di “opacità della mente”, secondo un modello – di nuovo – che appare profondamente anticartesiano.

Tutto ciò però non significa, come alcuni credono – penso ad esempio a Wegner[4], o a Johansson[5] – che, dal momento che le vere ragioni del nostro agire ci sono opache, noi non possiamo in alcun modo e in alcun caso controllare i nostri comportamenti. Al contrario, infatti, sono le situazioni nei quali effettivamente deliberiamo e ponderiamo le ragioni di una determinata scelta, sulla quale dunque siamo in grado di esercitare un reale controllo.

Pensiamo ad esempio alle numerose situazioni in cui agiamo in un modo che definiremmo “libero” pur non essendo pienamente consapevoli, nel momento dell’azione, delle ragioni che ci spingono a compiere quell’azione. Si tratta di una sorta di comportamento automatico, le cui cause profonde vanno cercate nella nostra storia personale, nel nostro carattere e nei condizionamenti che abbiamo subito durante la vita, e in cui nondimeno decidiamo, a tutti gli effetti, di porre in essere un certo comportamento.

Tutto ciò però non significa […] che, dal momento che le vere ragioni del nostro agire ci sono opache, noi non possiamo in alcun modo e in alcun caso controllare i nostri comportamenti […]. Pensiamo ad esempio alle numerose situazioni in cui agiamo in un modo che definiremmo “libero” pur non essendo pienamente consapevoli, nel momento dell’azione, delle ragioni che ci spingono a compiere quell’azione

Mario De Caro

Il fatto che non ci siano note le ragioni di una determinata scelta, infatti, non consente necessariamente di affermare che di essa non siamo responsabili perché, ad esempio, non siamo responsabili del carattere che ci ha portati ad agire in quel modo. Il carattere, infatti, è qualcosa che ci siamo costruiti nel tempo e che continuiamo a costruire ogni volta che vediamo qualcuno a cui cade il portafogli dalla tasca e decidiamo di prenderlo invece di restituirlo. Noi possiamo essere ignari del motivo per il quale agiamo ma, in determinati casi, quando ciò che facciamo rispecchia l’Io che ci siamo costruiti, allora di quel comportamento siamo senz’altro responsabili.

Occorre poi mettere in relazione queste scelte, delle quali dunque siamo a tutti gli effetti padroni, con le varie norme, sia morali sia giuridiche. Torniamo quindi al discorso che ha fatto Carla poc’anzi, e che è un discorso fondamentale: a un certo punto, la nostra conoscenza delle norme – di come cioè ci dovremmo comportare –, deve figurare nelle nostre decisioni e diventa parte della nostra storia personale.

D’altra parte, un errore che a mio avviso commette il prof. Cacciari[6] – e con lui moltissimi altri – è quello di ritenere che esista un solo quadro causale, ossia quello della scienza. Questo è l’errore capitale, perché ragionare in questo modo porta alla conclusione che il corpo obbedisca ai (soli) nessi causali studiati dalla scienza e che, quindi, non vi sia alcuno spazio per la normatività. E però non è così: abbiamo molteplici ragioni per aderire, al contrario, a forme di pluralismo causale, in cui esistono anche forme di causalità intenzionale: in questo senso, il metro di giudizio della moralità non contempla solo le cause efficienti, ma anche le tradizionali cause finali di Aristotele, ossia i valori che con le nostre azioni intendiamo realizzare.

In tale quadro, che è il quadro che ha delineato Carla Bagnoli, si colloca l’idea che noi, con riferimento a determinate azioni in particolari momenti, siamo a tutti gli effetti responsabili, anche giuridicamente.

Un errore […] è quello di ritenere che esista un solo quadro causale, ossia quello della scienza. Questo è l’errore capitale, perché ragionare in questo modo porta alla conclusione che il corpo obbedisca ai (soli) nessi causali studiati dalla scienza e che, quindi, non vi sia alcuno spazio per la normatività

Mario De Caro

Pietro Pietrini

In questa lunga discussione abbiamo toccato vari aspetti. Il fatto che alcune scelte siano consapevoli, ossia che talvolta i nostri comportamenti siano messi in atto consapevolmente, non implica che quei comportamenti siano necessariamente il frutto di una ponderazione razionale, perché le nostre scelte derivano sempre da impulsi, da istinti che vengono poi filtrati e modulati dalla ragione.

In tempi diversi da quello che stiamo vivendo oggi, magari avremmo svolto questa piacevole conversazione dal vivo, con un coffee break e un buffet. Ecco, quando ci troviamo davanti al tavolo del buffet, riccamente imbandito, fortemente attratti da tutte quelle leccornie, potremmo dire a noi stessi: «No, ieri ho mangiato tanti di quei dolci; è meglio che oggi non lo faccia». Questo è uno dei modi che abbiamo per controllare un impulso, quello di prendere un dolce. Esercitiamo queste forme di controllo costantemente, ma non siamo in grado di farlo quando, ad esempio, siamo colpiti da patologie cerebrali che impattano su alcune aree del cervello, in particolare i lobi frontali: in quei casi, infatti, il comportamento diventa totalmente impulsivo, istintivo, quasi un comportamento animale.

Ma anche in assenza di patologie, tutti noi, in quanto essere umani, siamo molto più condizionabili ed emotivi di quanto ci piaccia pensare.

Esistono diversi esperimenti interessanti su questo, tra cui uno, molto noto, che riguarda proprio i giudici[7]. Siamo portati a pensare che i giudici, proprio per il mestiere che svolgono, compiano valutazioni assolutamente razionali e che le loro decisioni, anche per quanto riguarda l’applicazione di una pena, siano sempre il frutto di un’accurata analisi assolutamente scevra di qualsivoglia aspetto diverso dal contenuto delle disposizioni di legge.

Anche in assenza di patologie, tutti noi, in quanto essere umani, siamo molto più condizionabili ed emotivi di quanto ci piaccia pensare

Pietro Pietrini

In uno studio israeliano di una decina di anni fa, i ricercatori hanno preso in considerazione oltre mille sentenze, aventi a oggetto la scelta se applicare o meno una misura alternativa al carcere. L’analisi delle pronunce ha mostrato che, a parità di condizioni (ad esempio, gravità del reato commesso, entità della pena inflitta, anni già scontati in carcere e così via) le probabilità, per il condannato, di ottenere una decisione favorevole (ossia di vedersi concessa la misura alternativa) variavano in maniera inversamente proporzionale alla distanza che separava il momento della decisione del caso da quello dalla colazione, o dalla pausa caffè o dal pranzo.

Perché? L’ipotesi formulata dagli autori dello studio, e supportata da dati neuroscientifici, è che con il passare del tempo aumenta la stanchezza mentale – il termine tecnico è ego depletion –: diventa cioè via via sempre più complicato, per i giudici, prendere una decisione che vada oltre lo status quo, perché ciò implica la necessità di fare un’analisi accurata e precisa del singolo caso, ed è un’attività che richiede in certo livello di energia. In caso di stanchezza, allora, la tendenza dei giudici è quella di mantenere lo status quo, che nel caso specifico oggetto dello studio era la conferma della detenzione in carcere.

Questo e altri esperimenti simili indicano che le nostre scelte sono soggette a molti fattori intrinseci ed estrinseci. Tra questi ci sono anche i valori morali, che necessariamente non sono mai assoluti. Al contrario, essi sono sempre condizionati dalla cultura e dall’ambiente in cui viviamo, i quali esercitano entrambi un’influenza notevole su ogni cosa che pensiamo o facciamo, oltre che su ciò che siamo e che diventiamo. Studi recenti indicano che anche le scelte morali sono modulate da fattori genetici. Varianti di geni che hanno a che fare con il sistema dopaminergico, ad esempio, sembrano favorire scelte utilitaristiche[8]. Non vanno dimenticati, inoltre, gli effetti che l’ambiente esercita sull’espressione dei geni, vale a dire sulla loro attività funzionale. Il genoma che abbiamo al momento della nascita rimane tale per sempre, ma poi, nel corso della vita, l’espressione dei singoli geni viene modulata da fattori ambientali. Questo ci fa riflettere su quanto il rapporto tra ciò che siamo e ciò che diventiamo sia profondamente influenzato dal dialogo con l’ambiente, il che, certo, non fa che ampliare ulteriormente il perimetro della nostra riflessione.

C’è poi la questione della pena. La pena, a mio avviso, non può avere una funzione solo punitiva: del resto, neppure i sistemi retributivistici prevedono questo, dal momento che nessuno pone in dubbio il fatto che la pena debba avere anche uno scopo rieducativo e riabilitativo.

Questo dato, peraltro, pone importanti questioni se pensiamo a come è cambiato il diritto penale, e come tutt’oggi sta cambiando, con riguardo ad alcune categorie di individui. Pensiamo ad esempio ai tossicodipendenti: dal punto di vista dello psichiatra sono persone malate; per il diritto, almeno fino a non molto tempo fa, e anche tutt’ora in alcune circostanze, sono delinquenti. Quindi qual è la pena giusta per un tossicodipendente? Qual è la pena che contente la riabilitazione di un tossicodipendente?

Queste sono le domande attorno alle quali il dialogo tra scienza e diritto dovrebbe approfondirsi, per cercare insieme nuove soluzioni, diverse da quelle che sono al momento adottate dai due ordinamenti.

 

 

(continua…)

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[1] Si veda la prima parte della conversazione con C. Bagnoli, M. De Caro e P. Pietrini, sul tema «Il diritto penale è l’inferno». Spunti a partire dall’intervista di DPU con Massimo Cacciari, in questa rivista, 3 febbraio 2021.

[2] T.M. Scanlon, Moral dimensions: permissibility, meaning, blame, Belknap Press of Harvard University Press, 2008. Cf. anche T.M. Scanlon, Punishment and the rule of law, in H.H. Koh, R. Slye (eds.), Deliberative democracy and human rights, Yale University Press, 1999, pp. 257–271.

[3] V. C. Bagnoli, Teoria della responsabilità, Il Mulino, 2019, del quale l’Autrice ha discusso anche nel corso dell’intervista con DPU, Natura e funzioni della responsabilità, pubblicata il 13 novembre 2019.

[4] D. Wegner, The Illusion of Conscious Will, The MIT Press, 2002 (le cui riflessioni sono riprese anche da S. Arcieri, Inganni mentali e causalità apparente. La teoria di Daniel Wegner, in questa rivista, 15 luglio 2020). Si veda anche M. De Caro, M. Marraffa, Mente e morale. Una piccola introduzione, Luiss University Press, 2016, cap. 1.

[5] P. Johansson, Choice Blindness: The Incongruence of Intention, Action and Introspection, Lund University, 2006.

[6] Il riferimento è a quanto dichiarato dal Prof. Cacciari nell’intervista Alla radice dell’imputabilità e della colpevolezza penali. Conversazione con Massimo Cacciari – pt. 1, in questa rivista, 16 dicembre 2020.

[7] S. Danziger, J. Levav, L. Avnaim-Pesso, Extraneous factors in judicial decisions, in PNAS, vol. 108, n. 17, 2011, p. 6889, oggetto di commento da parte di S. Arcieri, La giustizia è ciò che il giudice ha mangiato a colazione?, in questa rivista, Fascicolo 4/2019, pp. 265 ss.

[8] S. Pellegrini, S. Palumbo, C. Iofrida, E. Melissari, G. Rota, V. Mariotti, T. Anastasio, A. Manfrinati, R. Rumiati, L. Lotto, M. Sarlo, P. Pietrini, Genetically-Driven Enhancement of Dopaminergic Transmission Affects Moral Acceptability in Females but Not in Males: A Pilot Study, in Front Behav Neurosci,. 11, 156, 2017.

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