Credits to Pixabay.com
22.01.2020
Redazione - Antonio Cerasa

Il lato oscuro dell’evoluzione. Intervista ad Antonio Cerasa

Fascicolo 1/2020

In un suo recente articolo, dal titolo “La malattia psichiatrica è il prezzo che dobbiamo pagare per la nostra evoluzione?”, pubblicato su Agi.com lo scorso 12 dicembre, ha descritto alcune ricerche recenti secondo le quali, nel corso dell’evoluzione della nostra specie, lo sviluppo del linguaggio avrebbe determinato cambiamenti strutturali del cervello i quali, a loro volta, avrebbero finito col favorire l’insorgenza di disturbi psichici, come la schizofrenia.

Può spiegarci meglio in che cosa consiste questo apparente legame tra evoluzione, linguaggio e disturbi mentali?

L’incredibile potenzialità della mente umana si è manifestata in infiniti modi e le opere realizzate nella nostra breve storia ne sono una prova evidente. La nostra evoluzione è stata straordinariamente repentina e travolgente e non è possibile riscontrarne tracce simili in altre specie animali.

L’eccezionale grandezza della specie umana, però, si manifesta sia nel bene che nel male. Pensiamo solo al manuale dei disturbi mentali, il famoso DSM (acronimo di Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders): oltre mille pagine per descrivere e definire le infinite sfumature con cui si manifestano i “difetti e le anomalie” del comportamento umano oggi conosciuti. Nessuna forma di vita sulla terra può vantare un elenco di “difetti” così lungo. Eppure, queste mille pagine non rappresentano che lo 0.00001% del potenziale complessivo della mente umana.

Una delle teorie più affascinanti riguardo l’evoluzione della nostra specie ipotizza che, centinaia di millenni fa, l’ambiente esterno avrebbe esercitato un’influenza talmente forte su alcuni gruppi di ominidi da indurre modifiche sostanziali sia alla forma sia alla struttura del loro cervello.

Una delle teorie più affascinanti riguardo l’evoluzione della nostra specie ipotizza che, centinaia di millenni fa, l’ambiente esterno avrebbe esercitato un’influenza talmente forte su alcuni gruppi di ominidi da indurre modifiche sostanziali sia alla forma sia alla struttura del loro cervello

Non stiamo parlando semplicemente della plasticità neurale, vale a dire quel fenomeno fisiologico che si mette in moto quando dobbiamo apprendere una nuova abilità (come avviene nel caso dei famosi expert brain[1], in cui la necessità di acquisire competenze iperspecialistiche – si pensi ai musicisti, agli scacchisti, ai matematici, agli chef – produce piccole, ma significative, modifiche nella forma di alcune aree del nostro cervello); quello che è avvenuto a cavallo tra l’Homo Erectus e l’Homo Sapiens, infatti, trascende i meccanismi fisiologici di plasticità dell’encefalo e riguarda lo sviluppo di un’abilità particolare: il linguaggio.

Attraverso l’uso di suoni, simboli e codici sempre più complessi, i nostri antenati si sono evoluti, prima, come animali bipedi e, poi, come “animali sociali”, permettendo la creazione di legami sempre più forti e duraturi tra gli individui, che si sono tradotti in un benessere maggiore e, quindi, anche in migliori prospettive di vita. Tutto questo, secondo la teoria in esame, sarebbe avvenuto grazie proprio all’evoluzione delle capacità linguistiche, che hanno spinto il nostro cervello a deformare la propria struttura portante. In qualche centinaio di migliaia di anni, siamo infatti diventati esseri bi-emisferici, con la conseguenza che la funzione cognitiva (il linguaggio) non veniva più gestita, come in passato, da entrambi gli emisferi del cervello. Al contrario, i compiti vennero divisi: un emisfero si specializzò in una funzione – appunto, quella (cognitiva) verbale – mentre l’altro era impegnato a gestire altre attività – come ad esempio quelle (emotive) non verbali –[2].

Questa “rivoluzione bi-emisferica” legata il linguaggio è stata peraltro preceduta da un altro cambiamento epocale nella nostra evoluzione, che potremmo definire “preferenza manuale”[3]. Favorito dal bi-pedismo, l’uomo primitivo ha cioè cominciato a sviluppare una diversa forza ed abilità nelle mano destra e in quella sinistra, così avviando un processo di specializzazione emisferica anche per quanto riguarda il controllo, tramite le mani, degli attrezzi utili alla sopravvivenza.

Ora, il punto di partenza della teoria della base evoluzionistica dei disturbi psichiatrici è proprio questo: essa afferma infatti che, durante la nostra evoluzione, il carico cognitivo legato alla divisione bi-emisferica delle funzioni linguistiche può aver portato con sé degli “errori” (riscontrabili nello 0.3/1% della popolazione)[4], che noi chiamiamo: allucinazioni, pensieri deliranti, “voci nella testa”; ma che, dal punto di vista biologico, sono semplicemente disfunzioni di alcuni “hub” (o centri di attività) cerebrali.

Il punto di partenza della teoria della base evoluzionistica dei disturbi psichiatrici è proprio questo: […] durante la nostra evoluzione, il carico cognitivo legato alla divisione bi-emisferica delle funzioni linguistiche può aver portato con sé degli “errori” (riscontrabili nello 0.3/1% della popolazione), che noi chiamiamo: allucinazioni, pensieri deliranti, “voci nella testa”; ma che, dal punto di vista biologico, sono semplicemente disfunzioni di alcuni “hub” (o centri di attività) cerebrali

Secondo la presente teoria, l’essere umano ha dovuto continuamente combattere con un ambiente esterno che richiedeva nuovi “upgrade” per migliorare l’adattamento grazie all’uso di simboli e codici sempre più complessi; nel corso dell’evoluzione, il risultato di questi sforzi continui è stato, oltre al progressivo sviluppo della nostra specie, anche la comparsa di alcuni sintomi che oggi vengono inclusi come manifestazione della schizofrenia.

Non a caso la schizofrenia si accompagna di frequente a danni del corpo calloso, cioè della struttura che regola il flusso delle informazioni che passano da un emisfero (dominante) all’altro (non-dominante), e viene considerata dagli evoluzionisti una sorta di “effetto collaterale” della nostra evoluzione.

Si tratta di una teoria interessante, specie se si considera che, oggi più che mai, ci troviamo in una condizione di profondo stress ambientale (dovuto, in particolare, all’uso massivo dei prodotti tecnologici, come i telefonini, come strumenti di comunicazione che hanno preso il posto del linguaggio verbale).

Non a caso la schizofrenia, che si accompagna di frequente a danni del corpo calloso […] e viene considerata dagli evoluzionisti una sorta di “effetto collaterale” della nostra evoluzione

Ma tutto questo è, appunto, solo una teoria, rimasta per decenni di interesse più per storici e paleontologi che per le neuroscienze. Il recente lavoro di Martijn van den Heuve[5], ricercatore presso lo University Medical Center Utrecht, ha dato, però, nuovo vigore a questo modello, ponendo in evidenza alcuni dati fondamentali.

In primo luogo, van den Heuvel e colleghi hanno sottolineato che i nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé, che condividono con noi oltre il 99% del proprio DNA, hanno invece “solo” il 60% della connettività cerebrale (le “autostrade” che collegano le varie zone del cervello) identico a quello della specie umana[6].

Questo dato confermerebbe, ancora una volta, la circostanza che l’essere umano è un “animale sociale”, perché consente di affermare che, a parità di DNA, il nostro sviluppo cerebrale è profondamente legato, molto più di quando non accada agli scimpanzé, alla stimolazione ambientale, che ci permette di sviluppare continuamente nuove stazioni e centraline (“hub”) neurali e, soprattutto, di tramandare queste ultime – attraverso meccanismi epigenetici – alle generazioni successive, così favorendo il progressivo sviluppo della specie.

In secondo luogo, lo studio ha rilevato che le regioni di connettività cerebrale specifiche della nostra specie (diverse, cioè, da quelle che abbiamo in comune con lo scimpanzé), che sono essenzialmente le aree del cervello che controllano i processi linguistici, sono quelle che più di frequente risultano danneggiate nel cervello degli individui schizofrenici[7].

Le regioni di connettività cerebrale specifiche della nostra specie […], che sono essenzialmente le aree del cervello che controllano i processi linguistici, sono quelle che più di frequente risultano danneggiate nel cervello degli individui schizofrenici

D’altra parte, il fatto che la nostra evoluzione dipenda in gran parte dall’espansione delle capacità linguistiche, sarebbe coerente con i risultati di un’altra ricerca indipendente, realizzata qualche anno fa dalla famosa neuroarcheologa Suzana Herculano-Houzel[8]. La ricercatrice brasiliana si è presa la briga di contare il numero dei neuroni della corteccia frontale nell’essere umano, per poi confrontare il dato con quello riguardante altri primati, facendo una scoperta incredibile.

Quello che la ricercatrice ha riscontrato è che il numero di neuroni della corteccia frontale rappresenta “solo” l’8% del numero totale dei neuroni presenti nell’intero cervello e questa proporzione vale sia per l’essere umano sia per gli altri primati. Il che porterebbe a ritenere che lenostre capacità mentali e la nostra potenza di calcolo (che trovano i propri correlati neurali proprio nella corteccia frontale) non dipendono dal numero di neuroni, che infatti è relativamente esiguo, ma dall’architettura generale in cui i neuroni sono inseriti, vale a dire il connettoma cerebrale (che, come detto, regola tra l’altro i processi linguistici).

 

Si tratta, ad oggi, di un discorso limitato alla schizofrenia, oppure abbiamo a disposizione evidenze anche riguardo ad altre patologie?

Il motivo per cui il risultato della ricerca ha superato i severi criteri di selezione di una rivista scientifica come Brain, nasce proprio dal fatto che il confronto tra la connettività globale degli scimpanzé e quella degli umani non è stata estesa solo alla schizofrenia, ma anche ad altre malattie psichiatriche (es. disturbi ossessivo-compulsivi o depressione maggiore), e neurologiche (Alzheimer).

I risultati, d’altra parte, sono stati chiarissimi: la nostra mappa neuroevolutiva ricalca solo quella (disfunzionale) dei pazienti affetti da schizofrenia.

La nostra mappa neuroevolutiva ricalca solo quella (disfunzionale) dei pazienti affetti da schizofrenia

Di recente, Diritto Penale e Uomo ha avuto occasione di intervistare Maryanne Wolf, nota neuroscienziata americana esperta dei processi di lettura. Nel corso della chiacchierata, la Prof. Wolf ci ha spiegato come la pratica della lettura, di per sé innaturale, abbia determinato nel tempo importanti modifiche nell’assetto cerebrale dell’essere umano, andando a incidere, tra gli altri, proprio sul sistema del linguaggio. Si tratta, ovviamente, di modifiche lette in chiave positiva, grazie alle quali la nostra specie ha potuto sviluppare ragionamenti via via più complessi e sofisticati e affinare i propri processi cognitivi.

Sembra però di capire che non sempre l’evoluzione è sinonimo di progresso e che, al contrario, lo sviluppo culturale e sociale può talvolta essere causa di disturbi psichici, anche di natura organica.

Quali sono, a suo avviso, le principali implicazioni di tutto ciò?

Così come l’evoluzione del linguaggio ha accompagnato l’evoluzione della nostra specie “portandosi dietro” malattie che hanno come “core” sintomatico proprio le disfunzioni del linguaggio e dei pensieri (come la schizofrenia), è ragionevole ritenere che anche l’evoluzione delle capacità di lettura si “porti dietro” alcune anomalie di percorso.

La dislessia ne è un esempio. Si tratta di un disturbo dell’apprendimento causato da differenze nella maturazione di aree del cervello che si occupano dell’elaborazione delle informazioni linguistiche, quali: la coordinazione e manipolazione delle parole necessarie per la lettura, la scrittura e l’ortografia. Ovviamente si tratta solo di un’ipotesi, di cui non abbiamo ancora prove empiriche.

 

In particolare, quali insegnamenti dovremmo trarre da queste scoperte, in termini di orientamento delle politiche sociali del prossimo futuro?

Così come la dislessia, se precocemente diagnostica, può essere trattata attraverso un potenziamento delle capacità linguistiche utile a rafforzare le funzioni carenti, migliorando la comprensione e la pronuncia dei fonemi e delle parole, allo stesso modo le presenti ricerche neuroscientifiche ci suggeriscono che, anche nel caso della schizofrenia, una diagnosi precoce ci permetterebbe di ipotizzare, nel futuro, trattamenti specifici per recuperare la fluidità dei pensieri, con l’unico strumento al momento conosciuto che può agire direttamente sul sintomo: la terapia della parola. Anche conosciuta con il nome di psicoterapia.

Le presenti ricerche neuroscientifiche ci suggeriscono che […], nel caso della schizofrenia, una diagnosi precoce ci permetterebbe di ipotizzare, nel futuro, trattamenti specifici per recuperare la fluidità dei pensieri, con l’unico strumento al momento conosciuto che può agire direttamente sul sintomo: la terapia della parola. Anche conosciuta con il nome di psicoterapia

Ritiene possibile, sulla base delle informazioni oggi a disposizione, ipotizzare nuove forme di intervento preventivo, ovvero finalizzato alla diagnosi precoce della schizofrenia e di eventuali altri disturbi mentali?

Considerata la complessità dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base della schizofrenia, l’unico modo per arrivare ad avere biomarcatori sensibili per la malattia, indispensabili per poter effettuare una diagnosi precoce, sarà quando le enormi quantità di dati sul connettoma umano oggi disponibili saranno tradotte in metriche e indici più chiaramente leggibili in sede di pratica clinica. La rivoluzione avverrà, cioè, quando finalmente gli algoritmi di intelligenza artificiale saranno immessi nella pratica clinica per aiutare il medico nel complesso processo diagnostico e prognostico di malattie multifattoriali estremamente complesse, come nel caso della schizofrenia.

 

Al contrario, quali sono – se ne esistono –, i maggiori limiti degli studi in oggetto?

Ho avuto anche io la fortuna di pubblicare qualche lavoro scientifico su un giornale selettivo e prestigioso come Brain; solitamente, è difficile trovare grandi limiti negli articoli pubblicati su questa rivista.

D’altra parte, come spesso accade nell’ambito della ricerca neuroscientifica, un grande limite è rappresentato dalla numerosità del campione. Infatti, anche se il lavoro di Martijn van den Heuvel vanta centinaia di casi, gli studi sulla genetica ci hanno insegnato che la grande variabilità con cui si esprime la biologia umana necessita di campioni sempre più grandi per poter essere sicuri che quello che abbiamo trovato sia riproducibile anche in altri contesti.

La rivoluzione avverrà […] quando finalmente gli algoritmi di intelligenza artificiale saranno immessi nella pratica clinica per aiutare il medico nel complesso processo diagnostico e prognostico di malattie multifattoriali estremamente complesse, come nel caso della schizofrenia

 

[1] Per un approfondimento sul tema, si consenta il rinvio a una precedente pubblicazione su questa rivista (A. Cerasa, La plasticità della mente come mezzo di cambiamento interiore, 2 aprile 2019). Con riferimento specifico ai cd. “expert brain”, letteralmente “cervelli esperti”, cfr. anche Id., Expert brain. Come la passione del lavoro modella il nostro cervello, FrancoAngeli, 2017.

[2] Dal punto di vista anatomico, queste nuove abilità si sono mantenute fino ai giorni nostri grazie al corpo calloso, che è la struttura che lega i due emisferi tra di loro e dal quale passano la maggior parte delle fibre che connettono un emisfero all’altro.

[3] J. Steele, Palaeoanthropology: stone legacy of skilled hands, in Nature, 399, 999, pp. 24-25; Id., Handedness in past human populations: skeletal mark, in Laterality, 5(3), 2000, pp. 193 ss.

[4] E.L. Messias, C.Y. Chen, W.W. Eaton, Epidemiology of schizophrenia: review of findings and myths, in Psychiatr Clin North Am., 30(3), 2007, pp. 323 ss.

[5] M.P. van den Heuvel et al., Evolutionary modifications in human brain connectivity associated with schizophrenia, in Brain, Volume 142, Issue 12, December 2019, pp. 3991 ss.

[6] Idem, p. 3993.

[7] Idem, p. 3998.

[8] M. Gabi, K.  Neves, C. Masseron, P.F. Ribeiro, L. Ventura-Antunes, L. Torres, B. Mota, J.H. Kaas, S. Herculano-Houzel, No relative expansion of the number of prefrontal neurons in primate and human evolution, in Proc Natl Acad Sci USA, 113(34), 2016, pp. 9617 ss.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

La Rivista non impone costi di elaborazione né di pubblicazione