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Fascicolo 5/2019

La prima cosa che le vorrei chiedere è in realtà una curiosità. È appena uscito il suo ultimo libro[1], scritto a quattro mani assieme a un filosofo, il professor Corrado Sinigaglia; è il secondo libro che scrivete insieme. Il quesito che allora sorge spontaneo – e che è particolarmente interessante per il nostro progetto DPU, che è fortemente transdisciplinare – è questo: perché un filosofo? Voglio dire, quale apporto le neuroscienze sono in grado di dare alla filosofia e, in parallelo, che cosa la neuroscienza può ricevere dalla filosofia, specie con riferimento al suo campo di ricerca?

Dunque, lei mi ha fatto due domande, in realtà. Cosa può dare il neuroscienziato al filosofo, ma anche l’opposto, che insegnamento può trarre il neuroscienziato dalla filosofia.

Ora, il punto di vista, non solo di Corrado Sinigaglia, ma anche di Giulio Giorello e in generale di tutta la scuola di Milano, è che ogni filosofo dovrebbe avere anche una competenza scientifica, che potrebbe essere di fisica, di matematica, di biologia, e così via. La filosofia infatti non è una disciplina astratta; essa, al contrario, si basa in gran parte su dati reali. Pertanto, soltanto se conosce bene – poniamo – la fisica, il filosofo potrà parlare con cognizione di causa della teoria della relatività.

Corrado Sinigaglia ha avuto un training in filosofia a Lovanio, dove ha potuto studiare gli archivi di Husserl, il padre della fenomenologia; quindi, in un certo senso, egli era già preparato ad affrontare problemi come quelli che abbiamo messo in luce con la scoperta dei neuroni specchio.

Non credo, però, che tutte le neuroscienze necessitino di un aiuto da parte dei filosofi, ma il tipo di ricerca che stiamo facendo noi è particolare, profondamente cognitiva: ha che fare con la comprensione l’uno dell’altro. Motivo per cui è importantissima la precisione dei termini e, in questo, la collaborazione con Corrado è stata utilissima.

Ad esempio – lo abbiamo scritto più volte, io e i miei colleghi –, se tu fai un determinato atto motorio, come quello di prendere in mano una bottiglia, io capisco – appunto – che stai afferrando la bottiglia. Per un filosofo, tuttavia, questo non è propriamente vero: filosoficamente parlando, infatti, “capire” presuppone che io sappia anche qual è la tua intenzione, quali sono i tuoi desideri. Tutta la filosofia analitica definisce il termine “comprensione” come qualcosa di molto più complesso del mero rendersi conto di che cosa un’altra persona sta materialmente facendo, come l’atto del prendere la bottiglia.

 

Insomma, si tratta di un problema linguistico.

Sì, ma è un problema importante.

Di recente, ho partecipato come relatore a un convegno, a Bosisio Parini, vicino a Milano; si parlava di empatia, e tra i relatori c’era anche un abate, che a un certo punto ha detto: «l’empatia non esiste».

Da un punto di vista filosofico, effettivamente, se con “empatia” si intende “io ho capito te”, l’affermazione dell’abate è corretta. Non esiste nulla del genere. Tutto quello che possiamo dire è, semmai, «capisco in che stato sei tu, in questo momento», ma cosa provi tu quando hai dolore, proprio non posso saperlo. Nessuno, all’infuori di te, può.

Nel mio ultimo libro, con Corrado approfondiamo anche questi aspetti: quando io dico «ho capito», occorre distinguere tra – per usare un termine inglese – il core, il nucleo centrale del capire («ho preso la bottiglia»), e tutto ciò che circonda quel nucleo. In altre parole, la ricerca sui neuroni specchio, e sull’empatia, non è in grado di dirmi se hai preso la bottiglia perché hai sete, o perché sei un alcolista, o perché tua moglie ti ha tradito.

Quando io dico «ho capito», occorre distinguere tra – per usare un termine inglese – il core, il nucleo centrale del capire («ho preso la bottiglia»), e tutto ciò che circonda quel nucleo

Il dialogo col filosofo è quindi molto importante per precisare i termini, così da non fare confusione. Perché, attenzione, la gente fa confusione. Questo vale per gli scienziati, ma soprattutto i “laici”: nel momento in cui si sentono affermazioni come: «abbiamo i “neuroni dell’empatia”», la reazione diffusa, tipicamente, suona più o meno così: «ah, bene, questo significa che siamo in grado di comprenderci l’un l’altro». È importante chiarire qual è la misura, e quindi il limite, di questa comprensione.

 

Quindi, se capisco bene, l’empatia ha a che fare più con il riconoscimento, che con la comprensione, dell’altro.

Esattamente. Per un verso, è giusto parlare di “empatia”, perché quegli stessi neuroni – appunto, i neuroni specchio – si attivano sia quando sono io stesso a compiere un atto, sia quando osservo lo stesso atto compiuto da un’altra persona. Per altro verso, però, è scorretto parlare di completa “comprensione” dell’altro, perché è pur sempre il mio neurone a parlare.

Quel che in ogni caso resta vero, e che lo studio dei neuroni specchio ha dimostrato, è che io e l’altro siamo nello stesso stato. Negare questo è molto pericoloso.

Porto spesso questo esempio, per spiegare il concetto: perché una persona come Adolf Eichmann, che non era una persona cattiva, ha organizzato il trasporto degli ebrei? Semplicemente, perché non li considerava esseri umani. Il punto di vista di Eichmann era, molto banalmente: «se mi dicono di trasportare legna, o bestiame, io lo faccio; perché non dovrei trasportare anche questi esseri, che sembrano quasi uomini ma di fatto non lo sono?».

Per tornare alla domanda iniziale, direi allora che, da una parte, una conoscenza scientifica è molto importante per il filosofo, se vuole filosofare; dall’altra parte, per noi scienziati – almeno per quelli di noi che si interessano del campo cognitivo –, la filosofia è fondamentale per consentirci di precisare i nostri termini e i nostri concetti e, quindi, in definitiva, per farci chiarezza tra noi. In questo modo, naturalmente, è possibile anche far capire al pubblico di cosa parliamo.

Il problema terminologico e linguistico è spesso sottovalutato, ma è estremamente importante. Un uso scorretto del linguaggio infatti può dare origine a equivoci tremendi.

Da una parte, una conoscenza scientifica è molto importante per il filosofo, se vuole filosofare; dall’altra parte, per noi scienziati – almeno per quelli di noi che si interessano del campo cognitivo –, la filosofia è fondamentale per consentirci di precisare i nostri termini e i nostri concetti

Riprendendo l’esempio di Eichmann, che cosa possono dirci i risultati delle sue scoperte e delle sue riflessioni sui neuroni specchio e sull’empatia in ordine ai processi psicologici di deumanizzazione e disimpegno morale, che si rivelano spesso una delle cause dei mali più atroci che l’uomo infligge a un altro uomo?

Si tratta di una domanda difficile, perché le cause del crimine possono essere molto diverse. Ad esempio, proprio parlando di neuroscienziati, Adrian Raine fa una distinzione tra assassini “impulsivi” – nel suo libro[2], cita l’esempio di un criminale originario dell’Oregon, la cui risonanza magnetica ha mostrato la presenza di anomalie nel lobo frontale – e assassini “a sangue freddo”, nei quali sono stati evidenziati deficit nel funzionamento dell’amigdala tali per cui questi individui non sono in grado di comprendere il concetto stesso di punizione, e quindi di rendersi del fatto che, ponendo in essere determinati comportamenti, saranno puniti.

L’idea della punizione, quindi, può rappresentare un freno al compimento di atti violenti per alcune persone, ma non per altre.

Per tornare ad Eichmann, peraltro, abbiamo a che fare con un’ipotesi ancora diversa: ci troviamo infatti nel terreno dei cd. “pseudo-delitti”.

Certo, forse qualcuno, nella Germania nazista, era realmente un mostro che si divertiva a torturare gli ebrei prigionieri nei campi di concentramento, ma la gran parte della popolazione tedesca dell’epoca non era costituita da delinquenti sadici. Si trattava, in massima parte, di pura e semplice obbedienza all’autorità. Eichmann, secondo quello che è stato riferito dagli psicologi e dagli psichiatri che lo hanno visitato, era una persona non solo normale, ma – potremmo dire – “buona”, secondo i nostri canoni tradizionali: amava gli animali, amava la natura, era un padre affettuoso. Non c’era nessun elemento, nei giudizi clinici dei psichiatri che lo hanno esaminato, che consentissero di concludere che quell’uomo era un mostro. Semplicemente, obbediva agli ordini.

Questo ci conduce ad affermare che dovrebbe essere la società e mettere in atto strumenti atti a prevenire aberrazioni come quelle commesse prima e durante la seconda guerra mondiale. Stiamo quindi parlando di un’opera culturale. Come, poi, quest’opera debba o possa essere realizzata in concreto, è un’ottima domanda, e di certo non ho una risposta.

Dovrebbe essere la società e mettere in atto strumenti atti a prevenire aberrazioni come quelle commesse prima e durante la seconda guerra mondiale.

Mi pare però, in ogni caso, che una situazione come quella dell’assassino dell’Oregon sia estremamente diversa dai delitti che può compiere un Eichmann nell’organizzare lo sterminio degli ebrei.

 

Certo, si tratta di situazioni differenti sotto molti profili – il contesto in cui i fatto si collocano, le cause e i motivi che spingono all’azione –; non troppo diversi, però, sono i risultati di tutti quei comportamenti…

È vero. Anche se, a ben vedere, i risultati delle azioni di Eichmann, ai suoi stessi occhi, non erano la morte di un essere umano. Erano la morte di… qualcos’altro. Qualcosa di molto simile a un uomo, ma che umano non era.

 

Sembra proprio che il contesto, sociale e culturale, in cui l’individuo è inserito, possa fare la differenza in ordine alla percezione che quest’ultimo ha della propria condotta. Del resto, si tratta di un meccanismo che è stato chiaramente messo in luce dalla psicologia sociale: basti pensare al “Stanford Prison Experiment” di Philip Zimbardo[3]. Nel momento in cui i volontari che vestivano i panni delle guardie vennero istruiti a non guardare ai prigionieri come a veri e propri esseri umani, ecco che ognuno di loro si dimostrò capace di una violenza spaventosa, che mai avrebbe esercitato nella propria vita normale e quotidiana.

Un discorso simile vale anche per gli agenti delle forze dell’ordine. Senza dubbio si tratta, nella quasi totalità dei casi, di bravissime persone, ma nel momento in cui devono disperdere i dimostranti non possono permettersi di sentire pietà per il primo che cade, fermarsi e assisterlo.

Tutti noi, quindi, abbiamo dei meccanismi che potremmo definire “di blocco”, che sono nient’altro che meccanismi di difesa, i quali hanno giocato un ruolo fondamentale nell’evoluzione della nostra specie, assicurandoci la sopravvivenza. Se una tribù nemica ti attacca, cosa fai? Devi, per forza di cose, reagire con la violenza.

I neuroni specchio hanno un grande compito, a mio avviso, in questo: il loro funzionamento ci permette di capire l’azione dell’altro nel momento in cui assistiamo al suo compimento. Se non fossimo in grado di fare questo, sarebbe impossibile qualunque forma di relazione. Detto questo, però, è poi la cultura a insegnarci – quantomeno, dovrebbe insegnarci – che, se vediamo una persona che sta male, dobbiamo curarla e non aggredirla.

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La cultura, quindi, può intervenire sull’effetto prodotto dal sistema mirror?

La cultura può certamente aumentare l’effetto naturalmente prodotto dai neuroni specchio. Per un verso, infatti, la cura del prossimo è un intinto connaturato alla specie umana: siamo dotati, per fortuna, di un “sistema” tale per cui – quasi tutti noi – siamo portati a riconoscere che “tu ed io siamo la stessa cosa”.

Se non fosse così, la mamma non rimarrebbe sveglia tutta la notte quando il neonato piange, e allora la specie umana semplicemente non esisterebbe: la cura di bambino è un grosso impegno, specie in confronto con quello richiesto nel resto del mondo animale. Abbiamo bisogno dei nostri genitori fino a vent’anni! Non possiamo certo dire: «il bambino è nato, e da questo momento in poi può cavarsela da solo».

 

Come fanno le vipere.

Come fanno le vipere, esattamente, l’esempio funziona bene. Insomma, per concludere su questo argomento, sono convinto che la cultura debba trasmettere un messaggio di fondo secondo cui avere compassione dagli altri è vantaggioso, tanto per l’individuo quanto per la società.

Sono convinto che la cultura debba trasmettere un messaggio di fondo secondo cui avere compassione dagli altri è vantaggioso, tanto per l’individuo quanto per la società

L’influenza della cultura però, lo abbiamo visto parlando delle forze dell’ordine, può essere anche di segno opposto.

Naturalmente, dobbiamo essere dotati – e in effetti lo siamo – anche di meccanismi che in qualche modo frenano il funzionamento dei neuroni specchio. Ci sono alcune professioni in cui è necessario poter bloccare, almeno temporaneamente, questa nostra necessità biologica, per ragioni di sopravvivenza. Si tratta di un tema che personalmente non ho mai studiato; posso però ipotizzare che siano le funzioni cognitive superiori, e quindi i processi razionali e consapevoli, a permetterci di intervenire e modulare l’intensità degli effetti prodotti dai neuroni specchio.

 

Siamo in grado, quindi, almeno in una certa misura, di imparare a modulare le nostre capacità empatiche?

Io credo proprio di sì. Credo che noi, fin da bambini, impariamo a fare esattamente questo: il bambino è per sua natura profondamente egoista («mio! Mio!»), e gli viene subito insegnato a trattenere il suo egoismo, e alla fine capisce che è effettivamente vantaggioso, anche per se stesso, trattenersi. Ripeto, però, che si tratta di un tema che non ho mai studiato, e che tuttavia sarebbe indubbiamente interessante approfondire, sotto il profilo neuroscientifico.

 

A questo proposito, si sente spesso dire che una delle caratteristiche degli individui affetti da psicopatia è rappresentata dall’assenza di empatia. Si tratta di un’affermazione corretta?

Assolutamente no, è falsa; talvolta è vero l’opposto.

O meglio, dipende: alcuni individui psicopatici sono spiccatamente asociali, non hanno alcuna relazione con gli altri e tendono a considerare i le persone come qualcosa di molto simile agli oggetti inanimati; si tratta però di casi limite.

 

E per quanto riguarda i cd. “psicopatici di successo” – ossia quella particolare categoria di individui che, nonostante la loro patologia, mostrano di essere perfettamente in grado di inserirsi nei diversi contesti (sociale, familiare, lavorativo) in cui vivono –? 

Penso che stiamo parlando in questo caso di individui con personalità narcisista.

Il narcisista è la tipica persona perennemente infelice perché ritiene che gli altri non abbiano mai sufficiente comprensione di lei e che, in parallelo, non mostra alcuna compassione o sensibilità nei confronti del prossimo. Da un punto di vista neuroscientifico, però, è scorretto parlare di carenza di empatia in relazione alla psicopatia. Certo, ogni persona è diversa, ma l’empatia è qualcosa di cui tutti – tranne forse pochi casi eccezionali – siamo dotati.

Quello che può fare la differenza, semmai, è come ciascuno di noi decide di sfruttare questa capacità. In questo periodo, sono state fatte diverse ricerche sul rapporto mamma-bambino e i risultati sembrano suggerire che, se i genitori trascurano i propri figli, questi, una volta divenuti adulti e a loro volta genitori, tenderanno a replicare il trattamento subito, trascurando così i propri bambini.

Addirittura, sembrerebbe esistere una sorta di “trasmissione” – entriamo qui nel campo della scienza nota come epigenetica – di questi comportamenti. Si è discusso, ad esempio, di alcuni casi di figli di genitori tossicodipendenti, che hanno finito col trattar male i propri figli una volta diventati adulti. È come se restasse una sorta di “imprinting”, verrebbe da dire.

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Tornano in mente, a questo proposito, gli studi del Prof. Adrian Raine[4], che lei ha citato prima, secondo cui noi tutti saremmo il risultato, per il 50%, del nostro DNA, e, per l’altro 50%, del contesto nel quale siamo vissuti.

Sì. E questo, in effetti, pone problemi giuridici immensi. Cosa fare con una persona che, a causa (ad esempio) di una lesione cerebrale, non è suscettibile di frenare i suoi istinti, neppure a fronte di un condizionamento esterno in tal senso?

Infatti, a ben vedere, dovrebbe essere proprio questo il senso ultimo della punizione dei criminali: consentirne la riabilitazione, attraverso gli opportuni condizionamenti.

Ma è davvero questo che accade? Quali forme di riabilitazione vengono praticate nei confronti di un assassino?

Il punto allora diventa: perché una persona viene messa in carcere? Per punizione, affinché non possa nuocere, o perché si intende riabilitarla? La giustificazione della pena, a mio avviso, dovrebbe essere la seguente: è necessario allontanare il criminale violento dalla società e collocarlo in un contesto isolato perché, in questo ambiente isolato, possa essere riabilitato, e quindi ritornare a essere un “agente sociale”. Si riesce realmente a fare questo?

 

Verrebbe da dire che no, non ci stiamo riuscendo. E viene anche in mente, al contempo, quello che l’antropologo francese Didier Fassin, tra gli altri, spiega molto bene nel suo ultimo libro[5]: è estremamente difficile per noi liberarci delle istanze puramente retributive nei confronti degli autori di reato. Istanze che sono istintive e, forse, almeno in parte ineliminabili.

Questo è un tema interessantissimo, come anche quello dei rapporti tra sistema giuridico e capacità di intendere e di volere. Lavorare su questi argomenti significa, di fatto, lavorare sulla vita. Chi è in grado di dire, infatti, cosa vuol dire capace di intendere e di volere?

Dovrebbe essere proprio questo il senso ultimo della punizione dei criminali: consentirne la riabilitazione, attraverso gli opportuni condizionamenti.  Ma è davvero questo che accade? Quali forme di riabilitazione vengono praticate nei confronti di un assassino? Il punto allora diventa: perché una persona viene messa in carcere? Per punizione, affinché non possa nuocere, o perché si intende riabilitarla?

Questo ci conduce direttamente a parlare di libero arbitrio.

Beh, credo si possa dire che il libero arbitrio assoluto non esiste. Esiste però la responsabilità; non possiamo fare a meno di considerare le persone responsabili delle loro azioni.

Durante la crescita, l’essere umano apprende una serie di regole: se poi queste regole vengono violate – e possiamo farlo per innumerevoli motivi –, questa è una scelta. Come esseri umani, abbiamo la possibilità di scegliere. Non si tratta di un libero arbitrio assoluto, certo; siamo condizionati dalla nostra educazione, dal contesto sociale. Scegliamo, questo sì, se fare A o fare B, ma la nostra scelta è sempre più o meno condizionata.

Pertanto, a voler andare a fondo nella questione, nessuno di noi è davvero “libero”, siamo tutti influenzati da qualcosa o da qualcuno.

 

A fronte di un condizionamento fortissimo, per tornare ancora all’esempio di Eichmann, che probabilmente era del tutto convinto di essere innocente…

Lui si sentiva innocente, assolutamente.

 

Eichmann aveva effettivamente modo di comportarsi diversamente da come fece? 

Io penso di no. Penso che la sua personalità era, potremmo dire, “predisposta” all’osservanza delle leggi, all’obbedienza agli ordini, a essere sempre il primo della classe. A questo, probabilmente, si aggiungeva un sentimento nazionalistico – non voleva che il suo Paese perdesse la guerra –; considerando tutte queste componenti, non so se Eichmann potesse agire in modo diverso da come agì.

 

Cambiando argomento, quanto conta secondo Lei – in un’ottica di giustizia in senso lato – la capacità del giudice di empatizzare con il reo? È un bene o un male? Dovremmo lavorare per favorire questa capacità, o al contrario per ridurla? 

Se – come sarebbe corretto – con il termine empatia intendiamo la capacità di capire in che stato è la persona che mi trovo di fronte, allora l’empatia del giudice nei confronti del reo è certamente importante. Se, viceversa, consideriamo l’empatia come una sorta di sinonimo di “essere buoni”, il discorso è diverso.

Esistono senza dubbio professioni nelle quali la capacità di empatizzare è estremamente importante; è il caso del medico, del medico psichiatra in particolare. Con riguardo al giudice non saprei dire; l’esempio più vicino che mi viene in mente è quello del poliziotto. Il Commissario Maigret, il protagonista dei romanzi e dei racconti di Simenon, è colui che riesce a capire la causa del delitto proprio grazie alla sua capacità di empatizzare con le persone coinvolte, entrando nel loro ambiente sociale e riuscendo a comprendere come l’autore del reato è stato educato e quali situazioni ha vissuto.

Maigret va far visita ai protagonisti dei suoi casi, si reca nelle loro case e nei loro villaggi, parla con loro, ragiona con loro. È un personaggio molto diverso da Sherlock Holmes, che guarda le cause, gli effetti, dà la caccia agli indizi e risolve i casi grazie alla pura logica. Maigret non arriva alla soluzione attraverso la logica, ci arriva cercando di capire le persone, più che i fatti.

Ecco che, in questo senso, forse un magistrato dovrebbe essere in grado di capire qual è il sistema sociale in cui l’imputato vive, quali sono i suoi rapporti con la vittima, come è stato educato, in modo da assicurare che la pena sia, in qualche misura, proporzionata alla misura del condizionamento subito dal singolo autore di reato.

Forse un magistrato dovrebbe essere in grado di capire qual è il sistema sociale in cui l’imputato vive, quali sono i suoi rapporti con la vittima, come è stato educato, in modo da assicurare che la pena sia, in qualche misura, proporzionata alla misura del condizionamento subito dal singolo autore di reato

In questo periodo, assistiamo a una vera e propria esplosione di studi sull’intelligenza artificiale, che viene applicata, potremmo dire, quasi a tutto. Soprattutto in America – ma studi analoghi iniziano a fare la loro comparsa anche in Italia – si comincia a discutere talvolta di veri e propri “giudici-robot”. 

Sì. E a me sembra una follia.

 

Vero. D’altra parte, però, nel campo della psicologia è nota da tempo l’esistenza di una serie di pregiudizi – i cd. bias cognitivi – dai quali il giudice penale, come ogni altro essere umano, non è immune. Così, proprio a causa dell’influenza dei bias, le sentenze penali finiscono a volte con l’essere condizionate da fattori del tutto estranei alla decisione, come le caratteristiche personali (razziali, ad esempio) del singolo imputato. Questo problema, nel caso della sostituzione della macchina all’uomo, sarebbe risolto.

Qui però ci riavviciniamo all’argomento di cui abbiamo discusso prima, ossia il rapporto tra giudice ed empatia.

Mi spiego con un esempio: laddove si trovi di fronte un imputato che è figlio di genitori tossicodipendenti, che ha subito abusi durante l’infanzia e che vive in un contesto economico e sociale disagiato, il giudice, se è un buon giudice, deve essere capace di capire – attraverso l’empatia – tutto questo, e di tenerne conto nel momento in cui stabilisce la pena da applicare. La pena, in questo caso, dovrà dunque essere, in qualche misura, “compassionevole”.

Un robot non fa nulla di tutto ciò, non può farlo.

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Un tema molto studiato è quello del rapporto tra neuroni specchio e cd. “violenza imitativa”. Secondo alcuni studi, tendiamo a simulare le azioni osservate, e se assistiamo ad atti di violenza tenderemo a replicare con più facilità condotte violente.

Nel momento in cui assisto a una scena di violenza, però, vedo – questo è certo – un individuo che commette violenza, ma vedo anche una persona che la subisce.

Perché dovrei immedesimarmi nel carnefice e non invece nella vittima?

 

Bene, le chiedo allora: se mi trovo ad assistere ad una esecuzione, come agisce il mio sistema mirror? Con chi dei due soggetti entro in empatia, con il boia e il condannato?

Empatizzeremmo con il giustiziato, più che con il boia, direi. E credo che la ragione di questa propensione dipenda in larga misura da come è fatta la nostra civiltà. La pena di morte, nella nostra società, è stata abolita da tempo, siamo stati educati in modo da provare compassione per una persona che viene condannata a morte.

 

Quindi potrebbe essere, ancora una volta, la nostra cultura a fare la differenza, portandoci più vicino alla condizione della vittima, che non a quella del carnefice?

Direi di sì. Del resto, durante la rivoluzione francese le piazze erano gremite di persone che si recavano lì appositamente per assistere alle esecuzioni capitali; evidentemente lo consideravano uno spettacolo meraviglioso, che dava piacere. Altrimenti come si spiegherebbe questo comportamento? L’influenza culturale, anche sotto questo profilo, è certamente fondamentale.

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[1] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Raffello Cortina, 2019.

[2] A. Raine, L’anatomia della violenza, Mondadori Università, 2016.

[3] P.G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, 2008.

[4] A. Raine, L’anatomia della violenza, cit.

[5] D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, 2018.

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