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02.05.2019
Susanna Arcieri - Giovanna Baer

Intervista a Laura Boella

A proposito di empatia, di neuroetica, e delle implicazioni dell’una e dell’altra per il diritto penale

Fascicolo 5/2019

Abbiamo chiesto alla Prof. Laura Boella, ordinaria di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Milano, alcuni chiarimenti sul significato della – spesso abusata – nozione di empatia, avviando così una profonda riflessione sui meccanismi cerebrali associati alla capacità empatica e al senso morale dell’uomo e formulando altresì alcune considerazioni (necessariamente provvisorie) in ordine ai principali impatti dell’indagine neuroetica sulla responsabilità penale, e in particolare sull’applicazione della pena[1].

Grazie alla scienza moderna, negli ultimi decenni abbiamo fatto enormi passi avanti nella conoscenza delle basi anatomico-funzionali dell’empatia. Cominciamo però col fare un passo indietro: cos’è l’empatia?

Non è possibile dare una risposta esaustiva in poche battute: per farlo, occorrerebbe dare conto dell’ampio dibattito sull’empatia oggi in corso nell’ambito della filosofia della mente e delle scienze cognitive – un dibattito particolarmente vivo nei paesi anglosassoni, la cui tradizione filosofica ha sempre mostrato un grande apertura nei confronti dei problemi della scienza, tra cui appunto quelli legati all’empatia.

Volendo schematizzare al massimo, esiste una prima concezione di empatia, la concezione corrente che io definisco mainstream, la quale si sviluppa a partire dal dato scientifico dell’esistenza di due diversi circuiti cerebrali coinvolti nell’esperienza empatica – un primo circuito di tipo percettivo-emotivo e un altro di tipo cognitivo –; questi circuiti possono lavorare insieme, ma possono anche attivarsi in maniera indipendente. La nozione mainstream di empatia ricomprende sia le attività legate al primo circuito, come la risonanza o condivisione affettiva (che peraltro – è significativo – nella lingua italiana si chiama simpatia, e non empatia), il trasferimento di sensazioni, di emozioni e di intenzioni di azione da un soggetto all’altro, sia le attività più prettamente cognitive che possono essere sintetizzare con l’immagine del “mi metto nei panni dell’altro”. Ossia mi immagino, mi rappresento, faccio congetture su ciò che l’altro pensa, sente e vuole e sulle ragioni del suo pensare, sentire e agire.

La nozione corrente di empatia comprende questi due momenti; tiene quindi insieme il cd. affective sharing o risonanza affettiva e, insieme, le attività di cd. mentalizing, che indicano il processo mentale attraverso cui immaginiamo, da un lato, come ci sentiremmo o penseremmo se fossimo al posto dell’altro e, dall’altro lato – e questo è un punto fondamentale –, come l’altro si sente al proprio posto.

Accanto a questa concezione corrente di empatia ce n’è una seconda, che è quella che io sostengo, e che ha come punto di riferimento la fenomenologia, una disciplina che peraltro oggi è stata ampiamente rilanciata all’interno del dibattito della filosofia della mente e delle scienze cognitive.

Non c’è empatia se non c’è distinzione tra l’Io e l’altro

La prospettiva fenomenologica dell’empatia che io condivido è completamente diversa da quella mainstream: l’empatia è l’esperienza diretta e immediata dell’esistenza di un altro, che agisce, pensa e sente in una prospettiva autonoma rispetto alla mia. In questa prospettiva, si pone l’accento non tanto sui due elementi della condivisione simpatetica da una parte e dell’attività cognitiva dall’altra, quanto su una forma di conoscenza tramite esperienza che rientra nelle attività potremmo dire “di base” della nostra coscienza: i fenomenologi infatti credono che la coscienza sia un’attività unitaria all’interno della quale ci sono percezione, emozione, riflessione, volontà.

Centrale, in questa seconda concezione, è il riconoscimento dell’altro nella sua alterità e nella sua differenza e presuppone, pertanto, la chiara distinzione tra l’Io e l’altro: non c’è empatia se non c’è distinzione tra l’Io e l’altro.

In questo senso, la prospettiva fenomenologica separa nettamente il contagio, o identificazione (il passaggio automatico e istantaneo di sentimenti tra un individuo e l’altro), e la simpatia (la partecipazione o la condivisione delle emozioni) dalla vera empatia, che è niente di più e niente di meno che riconoscimento dell’altro.

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L’empatia è una qualità naturale dell’uomo?

Oggi le neuroscienze ci dicono che esistono meccanismi cerebrali associati alla capacità empatica; in questo senso possiamo affermare che l’empatia è una capacità naturale. È stato accertato che alcune zone del nostro cervello si attivano in maniera automatica e involontaria a fronte dell’esperienza empatica. Non si tratta peraltro di una scoperta recente; già Darwin ne aveva parlato ampiamente studiando l’evoluzione della specie.

D’altra parte l’empatia, nella sua complessità esperienziale, non può essere ridotta a una scarica di neuroni; occorre infatti anche un’attività (almeno parzialmente) cognitiva, da parte del soggetto.

 

L’empatia può essere appresa? È possibile imparare a essere empatici?

Quello dell’educazione all’empatia è oggi un altro grande tema di ricerca.

Soprattutto in America sono state avanzate proposte e condotti esperimenti, anche molto diversi tra loro: ad esempio, il filosofo britannico Roman Krznaric, a settembre di due anni fa, ha ideato l’Empathy Museum.

Si tratta di un negozio di scarpe, in cui sono esposte calzature appartenenti a persone diverse, uomini, donne e bambini, si qualsiasi estrazione sociale e culturale. I “commessi” del negozio invitano gli “acquirenti” a indossare le scarpe di un’altra persona e camminare per un miglio. L’idea è quella di tradurre in azione il noto detto mettersi nei panni dell’altro (che in inglese si dice, appunto, in his shoes).

Oggi esistono anche le macchine dell’empatia, dispositivi dotati di Oculus rift che consentono di immergersi virtualmente nelle esperienze dell’altro.

Inoltre stati fatti alcuni esperimenti sull’empatia, ad esempio nelle facoltà di medicina: penso all’insegnamento delle Medical Humanities per educare all’empatia i futuri medici attraverso la lettura di testi narrativi (scritti di medici o degli stessi pazienti, che raccontano la propria malattia).

Nel complesso, questi studi non hanno dato risultati soddisfacenti.

Cito un altro esempio: nelle strategie di politica internazionale di peace keeping sono stati creati dei gruppi di persone (composti ad esempio da israeliani e palestinesi, o dai sopravvissuti alle guerre balcaniche) per sviluppare l’empatia tra nemici. Questi tentativi sono in gran parte falliti perché un conto è il contesto sperimentale, un ambiente protetto e appositamente costruito per incoraggiare il confronto faccia a faccia e il dialogo tra persone, e un conto è la vita reale nella comunità di appartenenza, dove la violenza tra vicini è all’ordine del giorno: il più delle volte, i (pochi) risultati ottenuti durante l’esperimento si perdono del tutto al termine di esso, quando i parteciparti fanno ritorno alla vita normale.

 

Ritiene che l’attuale paradigma punitivo, e in particolare il sistema carcerario, debbano essere ripensati?

Non credo ci sia bisogno di scomodare le neuroscienze e l’empatia per affermare che il carcere produce più danni che benefici. Al più, difende la comunità.  Ma in generale è evidente che il carcere proprio non funziona: non trovo che sia necessario andare a guardare come funziona il nostro cervello per convincersene.

Sappiamo che il carcere così com’è nega l’empatia. Tra i detenuti, tra detenuti e personale carcerario, tra gli avvocati, tra i giudici: nel carcere nascono e si sviluppano relazioni imposte, non pensate, non scelte. È un contesto in cui la gestione delle relazioni ­– ad esempio tra avvocati di parti avverse, tra giudici e giurati – proprio non esiste come problema, non è avvertito come tale, il diritto non se ne è mai occupato. Questo è vero specialmente nella tradizione dei paesi continentali di civil law. Essere in relazione non è un fatto innato, non è automatico, occorre lavorare sulle relazioni.

Non credo ci sia bisogno di scomodare le neuroscienze e l’empatia per affermare che il carcere produce più danni che benefici

D’altra parte, quello tra l’empatia e il diritto è un rapporto delicato.

Porre una maggiore attenzione sulle emozioni e sulle nostre risonanze affettive, in un contesto come quello giuridico non può tradursi in un ragionamento del tipo «siamo tutti sulla stessa barca».

Io, come donna e come madre, posso capire che la donna imputata di omicidio nei confronti del figlio neonato probabilmente era depressa, ma da un giudice si pretende un altro tipo di valutazione.

Applicare concetti come risonanza emotiva o comunanza di affetti alla decisione giudiziale non ci porta da nessuna parte. O meglio, ci porta a trasformare il giudice in qualcuno che non è più un giudice.

Capire non equivale ad assolvere. Riporre una fiducia eccessiva nell’empatia intesa come comunanza di istinti e di meccanismi neurali, nella vita reale non porta da nessuna parte.

Questo non solo perché la vita reale è estremamente complicata, ma anche perché partecipare delle emozioni degli altri è faticoso, ha un costo. Confrontarsi realmente con il mondo dell’altro non è affatto facile. Negli altri non troviamo solo somiglianze; a volte troviamo cose che non riusciamo a capire, che ci rendono il confronto inaccettabile. È un processo straordinariamente faticoso.

A questo proposito, sono interessanti alcuni esperimenti condotti su pazienti psicopatici. Grazie a questi studi, si è scoperto che gli psicopatici non sono affatto privi di empatia: non mancano cioè della ability di capire le emozioni altrui. Ciò che nello psicopatico fa difetto è piuttosto la propensity, l’attenzione e la motivazione a scegliere il costo dell’esplorazione del mondo dell’altro. Lo psicopatico non è disposto a impiegare le sue energie per incontrare realmente l’altro.

 

Parliamo di neuroetica. Quali sono i problemi legati a un’etica delle neuroscienze?

La neuroetica è esplosa intorno al 2000 in coincidenza con l’incremento degli studi sul cervello grazie alle tecniche di visualizzazione cerebrale. La neuroetica nasce come campo intermedio tra l’etica e la ricerca sperimentale sul cervello.

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Non si tratta però solo di etica della neuroscienza, ossia la disciplina – contigua alla bioetica, con la quale infatti condivide i principali problemi – che si occupa dell’eticità della ricerca scientifica. La neuroetica è anche neuroscienza dell’etica, nel senso che studia e indaga i funzionamenti cerebrali associati a stati o a comportamenti moralmente critici.

Si è così aperto un campo di etica sperimentale nel quale, ad esempio, sono state approfondite le conoscenze dei funzionamenti cerebrali corrispondenti all’istinto, naturalmente presente nell’uomo, che ci impedisce di provocare ad altri un danno fisico. Ancora, nell’ambito della neuroetica sono state studiate le basi biologiche del cd. common sense o moral sense, inteso come istinto morale spontaneo di cui già parlavano i filosofi morali inglesi e scozzesi del ‘700.

Un altro tema ampiamente studiato dalle neuroscienze dell’etica, forse il più influente per quanto riguarda il diritto, è quello del libero arbitrio e della responsabilità.

Le neuroscienze ci dicono che nessuno di noi – neanche le persone sane – ha il controllo al cento per cento

Nel mio articolo Empatia in tribunale: il difficile percorso dell’empatia, pubblicato in un libro a cura di Ombretta di Giovine[2], passavo in rassegna alcuni studi interessanti – ad esempio un articolo dal titolo Lost in translation[3] – che riportano di casi giudiziari,  soprattutto americani, in cui i difensori degli imputati, il più delle volte individui con diagnosi di psicopatia o disturbo borderline, chiedevano al giudice di eseguire la risonanza magnetica sui propri assistiti per dimostrare che «è stato il loro cervello» a spingerli a commettere il fatto di reato.

Sono noti gli esperimenti sul libero arbitrio che possono far supporre che una determinata area cerebrale attivi qualche millisecondo prima della consapevolezza, da parte dell’agente, dell’azione. Questo dato permette di affrontare la questione dell’elemento soggettivo del reato, la cd. mens rea, in maniera più fine rispetto all’impostazione tradizionale, secondo cui o un soggetto è incapace di intendere e di volere – e quindi finisce in una struttura per pazienti psichiatrici – oppure è capace.

Non abbiamo, per il momento, strumenti che ci permettono di coprire quell’area che sta nel mezzo, che separa piena capacità e totale incapacità, e che nondimeno è un’area estremamente ampia. Basti pensare al caso del drogato: una persona tossicodipendente ha una quota di capacità che le consente di decidere autonomamente e la cui estensione varia in relazione a un’altra quota, in relazione a cui la persona è incapace e non ha libero arbitrio[4].

Le neuroscienze ci dicono che nessuno di noi – neanche le persone sane – ha il controllo al cento per cento. La psichiatria ci dice che abbiamo desideri irrefrenabili (nei confronti del cibo, ad esempio) al manifestarsi dei quali la persone, ben lungi dall’essere pazza, semplicemente non può trattenersi dal soddisfare il desiderio.

Insomma, la riflessione sulla mens rea può diventare sicuramente molto più fine, proprio grazie alle nostre conoscenze sul cervello.

Per il diritto, il problema vero si manifesta nel terreno della pena.

Come dobbiamo trattare tutti i criminali che si collocano in quella zona grigia tra capacità e incapacità? Abbiamo, a livello istituzionale, strutture che non siano semplicemente la clinica psichiatrica e che però, non siano nemmeno Bollate?

Ad oggi, non abbiamo niente; e credo che le cose debbano cambiare.

 

Nel suo libro Neuroetica. La morale prima della morale (Cortina, 2007) menziona appunto l’esistenza di una morale prima della morale che «inizia a manifestarsi nella vita organica». Cosa significa?

Esiste una morale incarnata: le nostre scelte morali hanno un fondamento nel nostro corpo

Mi riferisco a un particolare aspetto della neuroetica sperimentale che guarda ai funzionamenti del nostro cervello. La mia idea è che questo genere di conoscenze non debba essere considerato in maniera neutra: il fatto di sapere che esistono determinati meccanismi cerebrali – ad esempio, che alcune aree del cervello si attivano quando assistiamo a comportamenti ritenuti non etici, come un gesto aggressivo o violento – ci aiuta a capire come le nostre scelte etiche (rispettare un obbligo, obbedire o trasgredire a una norma) non siano, come spesso ci viene raccontato, il mero frutto della nostra volontà, che controlla gli istinti e filtra le emozioni.

Esiste una morale incarnata: le nostre scelte morali hanno un fondamento nel nostro corpo, laddove il corpo comprende anche le emozioni e la vita emotiva. Le emozioni, infatti, non sono solo qualcosa che ci obnubila la mente, sono una forma di ragion pratica (lo ha detto bene Damasio, diverse volte e in diversi modi).

Le emozioni non sono raptus, ma è vero anche che ci dicono cosa fare. Non sempre ci dicono la cosa giusta, anzi spesso ci dicono quella sbagliata.  Dobbiamo ricordarci che le emozioni non sono, per definizione, buone: di fronte a un ferito, l’emozione può suggerirci di fuggire perché abbiamo paura per noi stessi.

Il fatto che le emozioni non necessariamente siano buone rende, a mio parere, la morale incarnata più concreta e più sincera. Essa non è automatismo puro. È questo che intendo quando parlo della morale prima della morale: il fatto di sapere che ho delle risposte istintive, spontanee, che non passano per le aree cognitive. Questo dovrebbe rendermi più vigile e portarmi a lavorare sulle mie emozioni, consapevole del fatto che non sempre mi indicano la strada giusta.

 

Quale influenza esercita sui nostri sentimenti morali l’ambiente in cui viviamo?

Le nostre relazioni sono inevitabilmente condizionate dal contesto culturale, sociale, storico in cui si sviluppano, dalla scena della quale siamo attori. Interagiamo con gli innumerevoli fattori del contesto in cui viviamo e su essi prendiamo posizione, facciamo delle scelte.

Le nostre relazioni sono inevitabilmente condizionate dalla scena della quale siamo attori

Se esistono contesti facilitanti, che favoriscono l’esercizio dell’empatia? Il tema non è banale. Alcuni contesti, come quello familiare o di amicizia, possono apparire facilitanti, ma sono anche i contesti in cui si manifestano con maggiore frequenza alcuni tipi di contrasto – penso alle varie forme di manipolazione o di affermazione del proprio potere sull’altro –.

L’idea mainstream di empatia è tendenzialmente buonista; porta a pensare che l’empatia ci renda altruisti, comprensivi, solidali. Non è così. Vorremmo che lo fosse, ma non è così.

Prenderne atto e guardare con più attenzione ai limiti e alle difficoltà connesse all’empatia ci aiuta a capire meglio la cura, l’investimento di energie e i costi che è necessario affrontare per stare in relazione. E questo non significa distruggere l’idea dell’altruismo o della solidarietà; non si tratta di una visione sacrificale, ma di una visione realistica delle relazioni umane.

 

Il fatto che alcune persone, come ad esempio gli psicopatici, siano incapaci di sviluppare l’empatia, o comunque incontrino grandi difficoltà nel farlo, le rende meno rimproverabili per le loro azioni?

Come ha scritto ironicamente Stephen Morse nell’articolo che ho citato prima, actions speak louder than images[5].

Grazie alle tecniche di oggi, siamo in grado di visualizzare il funzionamento del cervello di uno psicopatico, possiamo renderci conto dell’esistenza di particolari difficoltà a collegare aree cognitive e aree emotive. Ma le azioni sono azioni.

Tutti noi viviamo momenti di conflitto interpersonale e sperimentiamo fantasie nelle quali aggrediamo o addirittura uccidiamo l’altro. C’è però un momento in cui la fantasia si ferma. Se invece non si ferma, e anzi si traduce in azione, allora c’è un salto, ed è lì che deve intervenire il diritto.

C’è poi un altro problema che nasce dall’applicazione delle neuroscienze al diritto. Ho menzionato una serie di esperimenti volti a indagare, in vario modo e con diversi scopi, il funzionamento del cervello. Il problema di tutti questi esperimenti è che si focalizzano sulla creazione di categorie.

Ad esempio, una categoria attorno alla quale è stata prodotta una densa letterature è quella degli adolescenti. C’è una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2005 che ha dichiarato incostituzionale la pena di morte per i minori di 18 anni a partire dal dato scientifico per cui il cervello del minore non è ancora completamente sviluppato e quindi le aree del controllo dell’aggressività non funzionano perfettamente.

Altri stereotipi classici sono il pedofilo, lo psicopatico, oggi anche il terrorista kamikaze. Si tratta di categorie probabilmente utili, che funzionano molto bene in criminologia, ad esempio. Se applicate all’empatia, però, non funzionano altrettanto bene.  L’empatia semplicemente non c’è se non c’è una relazione diretta con una singola persona. Il riconoscimento dell’altro non esiste con lo psicopatico come figura astratta.

Il giudice, così come il criminologo che viene chiamato nel processo, deve guardare non allo stereotipo dell’adolescente, ma a quel particolare adolescente imputato di quello specifico fatto di reato.

Se parliamo di empatia parliamo di singole persone, e dunque davanti alla norma giuridica l’empatia si ferma. Perché abbia senso parlare di certezza del diritto, la norma deve applicarsi a tutti e a tutte

Questa differenza è fondamentale: ben vengano l’aggiornamento scientifico e l’affinamento delle categorie giuridiche, come la mens rea, ma se parliamo di empatia parliamo di singole persone, e dunque davanti alla norma giuridica l’empatia si ferma. Perché abbia senso parlare di certezza del diritto, la norma deve applicarsi a tutti e a tutte; dev’essere generale e universale, per quanto elastica. Per questo io credo che in campo penale e giuridico l’empatia si fermi, ed è necessario e auspicabile che continui a farlo.

[1] I temi oggetto della presente intervista sono affrontati più diffusamente in L. Boella, Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina, 2018, alla cui lettura si rinvia.

[2] O. Di Giovine, Diritto penale e neuroetica: atti del convegno, 21-22 maggio 2012, Cedam, 2013.

[3] S.J. Morse, Lost in Translation?: An Essay on Law and Neuroscience, in Faculty Scholarship, 368, 99, 2010, pp. 529 ss.

[4] I numerosi problemi etici posti per il diritto penale dal fenomeno della tossicodipendenza sono stati ampiamente discussi, tra gli altri, dal neuroscienziato David Eagleman e dal suo team di ricercatori del Center for Science and Law. Si rinvia, a tal proposito, a P.A. Ormachea et al., The role of neuroscience in drug policy: promises and prospects, in Minnesota Journal of Law, Science & Technology, 11(1), 2010, pp. 7 ss., e ripubblicato altresì in questa rivista, con nota di Redazione, L’impiego delle tecniche neuroscientifiche per la comprensione e il contrasto del fenomeno della tossicodipendenza, in ivi, 2 aprile 2019.

[5] S.J. Morse, Lost in Translation, cit., p. 539.

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