Dopo aver rivolto le nostre domande sull’argomento al Prof. Arnaldo Benini[1], abbiamo voluto conoscere anche il punto di vista del Prof. Piergiorgio Strata, neuroscienziato italiano e professore emerito di Neurofisiologia presso l’Università degli Studi di Torino, nonché membro del Comitato Scientifico di DPU.
Nella sua lunga intervista, il Prof. Strata prende posizione, da una prospettiva neuroscientifica, su alcuni temi centrali del progetto di ricerca di DPU, dalla genetica del comportamento aggressivo[2], all’influenza esercitata dal contesto sulla condotta umana, alla relazione tra ragione ed emozione nell’ambito dei processi decisionali, al problema delle false memorie, per arrivare, infine, a discutere delle maggiori implicazioni delle acquisizioni neuroscientifiche per il diritto penale.
Buongiorno Professore; per prima cosa, ci spiega cosa si intende nel Suo campo di ricerca per “libero arbitrio”?
Molti esperimenti recenti hanno dimostrato che quando decidiamo liberamente di compiere un’azione, nel cervello, sia l’attività elettrica sia quella metabolica, insorgono molto tempo prima di quanto il soggetto rivela di aver preso la decisione del movimento. Quindi il primo stadio della decisione appartiene a un processo inconscio e successivamente diventiamo coscienti di quanto il cervello aveva deciso di fare. In altre parole, la coscienza del movimento che programmiamo segue l’insorgenza dell’attività programmatrice mettendo in crisi il concetto di mente capace di indurre un cambiamento nello stato della materia.
Vi è poi un’altra considerazione. Il nostro cervello è un ammasso di molecole incoscienti dalle quali emerge un’entità che chiamiamo mente. Il concetto di libero arbitrio pone il problema se la mente sia un qualcosa in grado di muovere gli atomi e le molecole a suo piacimento, pur nel rispetto delle leggi universali della fisica e della chimica, oppure se esistano modalità che esulano da queste leggi. L’ingente sforzo del vitalismo dei secoli scorsi ha cercato invano di scoprire nel mondo della vita qualcosa che uscisse dalle regole note della fisica. Oggi non ci resta che ammettere che le molecole del cervello si muovono secondo le leggi dell’universo e che la mente appartiene al mondo fisico.
La mente non può far muovere le molecole a suo piacimento e il libero arbitrio appare un’illusione
Sappiamo che il fenomeno mentale compare quando nel cervello si attiva in maniera sincrona un certo numero di neuroni. Questo suggerisce che la mente sia una proprietà emergente dall’attività dei circuiti cerebrali attivatisi in un determinato momento e come tale sia una proprietà della materia. Se il nostro cervello è un ammasso di materia fatta da atomi, come il resto dell’universo, resta difficile ammettere che i suoi atomi possano avere una benché minima libertà di spostarsi sotto l’azione di eventi che non fanno parte della natura. Pertanto, le nostre decisioni devono essere la conseguenza di una serie di reazioni fisico-chimiche agli stimoli esterni ed interni che arrivano al cervello, sulla base di proprietà genetiche e acquisite. In conclusione, la mente non può far muovere le molecole a suo piacimento e il libero arbitrio appare un’illusione.
Sappiamo che, negli ultimi decenni, le neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità crescente di prove, la visione classica di “libero arbitrio”, aprendo un dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la Sua posizione all’interno di questo dibattito?
La mia posizione è quella di considerare il fenomeno mentale come una proprietà della materia.
Secoli di discussioni per trovare nella materia vivente regole speciali che si applicano alle scienze della vita non hanno avuto successo. In passato, in mancanza di un metodo scientifico, i filosofi hanno proposto interpretazioni ed elaborato teorie e ipotesi interessanti. Oggi la neurofilosofia ci permette di elaborare idee basate su rigorosi dati scientifici a riguardo del funzionamento del cervello, un’area che ha prodotto straordinarie nuove conoscenze e che è tuttora in piena evoluzione. In realtà, già Lucrezio potrebbe essere definito un neurofilosofo vissuto in epoca pre-Cristo, quando, da acutissimo osservatore della natura scriveva: «è a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare». E ancora: «se ogni moto è sempre legato agli altri, e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato, così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla Terra per i viventi questo libero arbitrio?». Come si vede Lucrezio ha evitato di chiedere aiuto a un Dio superiore capace di spiegare tutto. Ritengo plausibile proporre che la mente sia un’entità cosmica ancora misteriosa che rientra nelle leggi generali dell’universo da mettere sullo stesso piano della forza di gravità. Siamo in attesa che la fisica, magari quella quantistica, ci aiuti.
Parliamo dei possibili approcci di fondo al tema del libero arbitrio: quello scientifico, a partire da osservazione e studio del funzionamento dei circuiti cerebrali, e quello metafisico-filosofico. Quali sono le principali caratteristiche, e differenze, dei due modelli? E quali sono le Sue considerazioni in proposito?
Nella filosofia classica il libero arbitrio è la convinzione che il comportamento umano sia una scelta personale non determinata da forze fisiche, ma da fenomeni metafisici dovuti al destino o creati da un Dio. Il controllo appartiene al singolo individuo. Questo modello domina ancora e ha alla sua base l’idea di un Io cosciente in grado di agire scegliendo in ogni momento tra un certo numero di circuiti neuronali, concetto che domina ancora nei tribunali. Credo che questo modello metafisico non sia più attuale.
Il modello alternativo è quello del funzionamento di un sistema complesso nel quale valgono le regole del determinismo in forma probabilistica guidato dall’esperienza. Nei sistemi complessi, anche partendo da condizioni iniziali uguali, entra in gioco la stocastica che può portare a conclusioni molto diverse tra loro. Questo significa che quando la sequenza dei processi di un sistema è molto elevata, non è possibile prevedere con esattezza il risultato finale. Il fatto che non vi siano due individui con le stesse impronte digitali o lo stesso DNA insegna.
Il fluire dei nostri pensieri ha come substrato l’attività di gruppi di neuroni e in ogni istante vi è un modulo che domina sugli altri. Quindi il cervello (non la mente), con un suo libero arbitrio sceglie il modulo che al momento è dominante. Questo modello ricorda il sistema delle elezioni primarie di un partito il quale decide quale persona designare in base al maggior numero di voti ottenuti.
Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale? Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Le strategie che guidano il nostro comportamento morale sono state discusse da lunga data soprattutto a livello filosofico. Secondo David Hume le emozioni guidano le nostre regole morali. La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse. D’altro canto Immanuel Kant sosteneva che le regole morali debbono essere guidate dalla razionalità e che il sentimento della compassione è bello, ma irrilevante per una vita virtuosa. Di fatto, emozioni e razionalità intervengono frequentemente insieme, magari con pesi diversi, nel prendere le nostre decisioni.
Le moderne neuroscienze sono entrate a tutto campo nell’approfondire le basi neurali che entrano in gioco nei processi decisionali. Sottoponendo a persone dilemmi morali e osservando i cambiamenti dell’attività metabolica del cervello si sono identificate due principali aree nella corteccia della parte anteriore degli emisferi cerebrali: un’area della razionalità e un’altra delle emozioni.
Anche lo studio di pazienti con lesioni cerebrali è stato illuminante. Phineas Gage è diventato un paziente che appartiene alla storia della medicina. In un incidente di lavoro nel 1848 subì una lesione dell’area ventrale della corteccia prefrontale. Dopo l’incidente conservò la memoria e la capacità di ragionamenti logici, ma divenne iroso, asociale e privo di freni inibitori oltre ad avere difficoltà a prendere decisioni.
Recentemente Antonio Damasio ha esaminato alcuni pazienti con una simile lesione confermando questi risultati. Le scelte morali dei pazienti non erano conformi a quanto essi dichiaravano sul piano teorico. Dunque, la mancanza di emozioni rende difficile valutare il valore di una scelta.
In pazienti nei quali si ha una lesione della parte dorsale della corteccia prefrontale si ha perdita della capacità del ragionamento logico, della razionalità e del controllo di se stessi.
In conclusione, emozioni e razionalità viaggiano insieme collaborando fra loro. La rottura di questi sistemi porta a comportamenti che minano la protezione e la sicurezza sociale.
Violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche del comportamento aggressivo?
L’aggressività è uno degli elementi importanti nell’evoluzione di tutto il mondo animale, moscerino compreso. Si tratta di un fenomeno fisiologico necessario per difendere se stessi e la prole, per aggredire un altro animale e procurarsi il cibo necessario per la sopravvivenza.
Nel mondo animale è spesso usata per la conquista della femmina. Esiste anche un’aggressività fine a se stessa come succede negli stadi o nelle guerriglie devastanti di un pre o un post-partita.
L’aggressività è tipicamente, ma non esclusivamente, maschile. Comportamento sessuale e aggressività sono legati da strutture localizzate nell’ipotalamo. Qui la stimolazione di un gruppo di neuroni induce nei topi maschi un comportamento aggressivo oppure un comportamento di accoppiamento sessuale se nella gabbia entra una femmina.
L’aggressività è uno dei fenomeni comportamentali più complessi in quanto controllata da un’enorme serie di fattori che interagiscono fra loro e ciò che sappiamo è soltanto la punta di un iceberg. Vediamo qualche esempio.
Uno dei principali attori dell’aggressività è il testosterone. Tuttavia il solo aumento di questo ormone non è predittivo di aggressività perché la sua attività dipende dall’interazione con numerosi altri fattori. Ad esempio, l’aggressività è alta se si ha un elevato tasso di testosterone e un basso tasso di ormoni dello stress come il cortisolo. Coloro che hanno un basso livello di testosterone e un alto tasso di cortisolo sono di solito più paurosi ed evitano conflitti.
Un altro esempio è l’ormone vasopressina che aumenta l’aggressività anche se non varia il tasso di testosterone. Ancora la serotonina: a bassi livelli induce aggressività impulsiva mentre ad alti livelli l’aggressività è pianificata con cura. Tuttavia, questi comportamenti a loro volta devono fare i conti con lo stato emotivo e con i fattori che lo controllano.
Se mai riuscissimo a conoscere tutti questi dettagli probabilmente avremo attenuanti per tutti gli imputati e allora dovremo rivedere le regole del gioco.
Se mai riuscissimo a conoscere tutti questi dettagli probabilmente avremo attenuanti per tutti gli imputati e allora dovremo rivedere le regole del gioco
Parliamo ora delle differenze individuali nel controllo degli impulsi
Abbiamo detto che l’aggressività entro certi limiti è fisiologica ed essenziale per la sopravvivenza. Oltre certi limiti essa va punita nell’interesse della società. I numerosi fattori che sono alla base dell’aggressività sono in gran parte determinati dai geni che abbiamo ereditato, peraltro senza il nostro consenso, ma anche dalle modificazioni genetiche indotte da fattori ambientali (epigenetica).
Numerose ricerche hanno dimostrato una correlazione fra indole aggressiva e configurazione di alcuni geni. Particolarmente studiato il gene (MAOA) che regola il funzionamento della dopamina e della serotonina. Una variante di questo gene, che riduce la sua funzione, comporta una maggiore produzione di dopamina che facilita l’aggressività. Alcol e droga possono aggravare la situazione. Anche l’essere stati abusati in età minorile può contribuire a rafforzare l’indole aggressiva.
Recentemente, in una persona omicida, i Professori Pietro Pietrini e Giuseppe Sartori hanno documentato cinque alterazioni a livello di quattro geni coinvolti nell’aggressività, assieme ad anomalie cerebrali. L’omicida ha avuto una riduzione della pena.
Il tema è certamente nuovo e promettente, ma sotto certi aspetti anche inquietante. Il fatto che nei soggetti asociali vi siano alterazioni dei circuiti che sono alla base della moralità pone alla neuroetica un ampio spazio di discussione. Si noti che un’anomalia genetica o una disfunzione cerebrale possono essere presi in considerazione per determinare il grado di responsabilità in tribunale. Tuttavia, queste anomalie non sono sempre predittive di un comportamento abnorme. Non tutti coloro che hanno anomalie delle aree prefrontali commettono crimini.
Il fatto che nei soggetti asociali vi siano alterazioni dei circuiti che sono alla base della moralità pone alla neuroetica un ampio spazio di discussione
La memoria del testimone: in particolare, il problema dell’attendibilità della testimonianza e dei relativi metodi di verifica. Può condividere con noi qualche caso di studio o relativo a processi cui ha preso parte?
Ho sempre coltivato lo studio della memoria organizzando convegni anche internazionali e divulgando l’argomento delle false memorie[3] sui media. Era l’epoca in cui negli Stati Uniti nel grande pubblico era sorto un “movimento della memoria recuperata”. Si trattava di aiutare persone che avevano subito abusi, spesso di tipo sessuale, che avrebbero rimosso dalla memoria le violenze subite e quindi di aiutarle a recuperare la memoria di quei tragici momenti. Si affermava, tramite la psicoanalisi, di recuperare fedelmente memorie di eventi completamente rimossi.
Frederick Crews nel suo libro The Memory Wars: Freud’s Legacy in Dispute scriveva che la pseudoscienza della memoria recuperata si fondava sull’estasiante pseudoscienza della psicoanalisi. Elizabeth Loftus, sulla base di una vasta serie di studi sperimentali raccolti in molti processi e documentati da oltre 200 pubblicazioni, aveva difeso con successo persone accusate di abusi che avevano coinvolto oltre ventimila persone e dimostrò che i ricordi ricostruiti si sono spesso dimostrati falsi di fronte al rigore delle prove.
Forse per questo motivo fui invitato a scrivere un parere pro-veritate sull’affidabilità della memoria della teste Maria Chiara Lipari nel processo per l’omicidio di Marta Russo. Dai verbali risultava che la teste aveva dichiarato di essersi sottoposta a psicoanalisi per un periodo di quattro anni e mezzo seguiti da una terapia d’appoggio e le sue dichiarazioni usarono un linguaggio fortemente improntato a questa cultura della memoria nascosta e alla necessità di ricostruzioni a posteriori.
I ricordi di fatti appena accaduti sono di regola affidabili. Sorgono invece seri problemi quando l’individuo all’inizio non ricorda nulla o vagamente qualcosa e il ricordo è frutto d’immaginazione, e quando l’individuo risente di suggerimenti esterni. Nel caso della teste, si trattava di una memoria ricostruita nel tempo sotto interrogatori censurabili e scientificamente non accettabili per scoprire la verità.
Si è utilizzata una memoria che è stata ricostruita con interrogatori che la scienza non ammette se si vuole ottenere la verità
Devo anche ricordare quanto si è visto nel famoso video-shock che ha ripreso l’interrogatorio di Gabriella Alletto, durante il quale la teste parlando con un cugino, Ispettore di Polizia, venne invitata ad essere sleale. L’episodio provocò una censura anche dell’allora Primo Ministro Prodi. Recentemente discussi questo argomento in un convegno in un’aula del Senato, presieduto da Giovanni Maria Flick, ex-giudice costituzionale e all’epoca Ministro della Giustizia nel governo Prodi, al quale chiesi se istigare alla falsa testimonianza da parte di un servitore dello Stato fosse ancora un reato. L’intervento si trova sul mio sito web piergiorgiostrata.net[4].
Accettai anche l’invito per esprimere un parere su un altro testimone oculare, Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage di Erba, divenuto il “supertestimone” che accusò Olindo Romano della strage.
Non intendo entrare nei contenuti del processo, ma soltanto segnalare come anche questa volta si è utilizzata una memoria che è stata ricostruita con interrogatori che la scienza non ammette se si vuole ottenere la verità. Nel verbale del primo interrogatorio avvenuto quattro giorni dopo la strage, si legge che il testimone Frigerio riferì: «quell’uomo ha estratto un coltello e mi ha tagliato la gola. Posso descrivere l’uomo come segue: corporatura robusta, tanti capelli corti neri, carnagione olivastra, occhi scuri, senza baffi, era vestito di scuro, ma non so precisare il colore». Inoltre, l’inquirente aggiunge: «si dà atto che il Frigerio ha altresì dichiarato che l’appartamento dei Castagna era frequentato da extracomunitari di etnia araba». Queste caratteristiche somatiche non corrispondono a Olindo che il teste ammetteva di conoscere bene, né vi sono sospetti che egli fosse un extracomunitario. Il suo ricordo è cambiato nel tempo sotto l’azione di interrogatori, nei quali si suggeriscono le risposte, si instillano dubbi e si pongono esercizi di immaginazione. Se un testimone nell’immediatezza del fatto fa affermazioni e cambia idea dopo sollecitazioni sotto interrogatori, queste testimonianze, basate su memorie ricostruite gradualmente nel tempo, rappresentano manipolazioni della mente e non possono assumere valore di prova per emettere la sentenza di condanna.
Il Generale dell’Arma dei Carabinieri Luciano Garofano scrive in un suo libro: probabilmente la sua testimonianza fu la più convincente e indubbiamente giocò un ruolo chiave nell’ottenere un verdetto di colpevolezza. Probabilmente fu proprio grazie alla sua testimonianza che la Cassazione confermò le sentenze. Che questa testimonianza fosse la prova regina dimostra il fossato che in questi casi ha separato la scienza dai tribunali.
Cosa accade alla memoria quando siamo sotto stress? Cosa sono i deficit di memoria e cosa si intende con “sovraccarico di lavoro”?
Il nostro organismo vive in uno stato di equilibrio nel quale i vari parametri funzionali si mantengono a valori ottimali. Si chiama agente stressante ciò che induce una variazione di questi parametri. Esiste uno stress buono che ci aiuta a superare stati di emergenza. Fuggire di fronte ad un pericolo oppure correre per catturare una preda sono esempi di stress buono che serve a mobilizzare riserve di energia che neppure con il più grande sforzo della volontà riusciremmo a liberare.
Una risposta adeguata contro lo stress è fondamentale per la sopravvivenza e sarà anche utile nel indurre cambiamenti a lungo termine nel cervello che conducono alla formazione di memorie durature dell’esperienza. Questi ricordi sono un meccanismo di adattamento essenziale che ci consente di affrontare nuove richieste simili.
Un livello di stress moderato ha un forte effetto positivo sulla memoria e sulla cognizione, in quanto un evento singolare o moderatamente stressante può essere ricordato per tutta la vita.
Se lo stress dura a lungo – stress cronico – si possono avere effetti opposti con perdita di memoria assieme ad altre patologie come i disturbi d’ansia, la depressione e i disturbi post-traumatici. Nello stress vengono liberati vari ormoni tra i quali il cortisolo che in caso di azione prolungata può portare a degenerazione di vari centri nervosi tra i quali quelli coinvolti nella memoria e in particolare nell’ippocampo. Qui nel corso della vita vi è una continua produzione di nuovi neuroni che risente negativamente dell’azione prolungata di un eccesso di cortisolo. Questo può succedere anche nel caso di lavori stressanti di lungo periodo.
In prospettiva, quali sono a Suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena?
Questo è un punto centrale, complesso e in piena evoluzione. Dobbiamo partire da alcuni fatti forniti dalle neuroscienze.
Chiunque presenti un comportamento lesivo nei confronti di altre persone o di beni altrui è da considerare un deviante e secondo il modello deterministico al quale abbiamo accennato, la devianza deve avere in qualche parte dell’organismo un agente responsabile anche se con le tecnologie al momento disponibili non è possibile l’identificazione.
In ogni caso deve valere il principio che per nessun motivo è lecito provocare un danno diretto o indiretto ad altri membri della società e che nell’attribuzione della pena deve prevalere un modello utilitaristico. Questo vale anche se l’individuo non ha la colpa di essere nato, non ha scelto i suoi geni e neppure l’ambiente in cui è maturato. Quindi in teoria dovrebbe essere esente da sanzioni.
Secondo il modello deterministico, la devianza deve avere in qualche parte dell’organismo un agente responsabile anche se con le tecnologie al momento disponibili non è possibile l’identificazione […] se l’individuo non ha la colpa di essere nato, non ha scelto i suoi geni e neppure l’ambiente in cui è maturato. Quindi in teoria dovrebbe essere esente da sanzioni
Qui si confrontano la responsabilità dell’individuo che ha offeso e la tutela della collettività e dei beni. Risulta chiaro che l’esenzione totale porterebbe a gravi danni in ambito sociale. La punizione del colpevole è l’unico mezzo per prevenire, nei limiti del possibile, comportamenti lesivi. La pena dovrebbe avere un effetto educativo e riabilitante, indurre i cittadini al rispetto dell’ordine e soddisfare l’esigenza di giustizia della società. Giudicare una persona, alla luce delle nuove scoperte neuroscientifiche, è un’operazione alquanto complessa. La compassione deve essere bilanciata da strumenti deterrenti che da un lato proteggano la collettività, dall’altro modifichino, dove possibile, i circuiti cerebrali del colpevole e di chi attraverso i media viene a conoscenza dei verdetti penali.
Queste sono le considerazioni che le neuroscienze offrono agli amministratori della giustizia. Credo che sia utile intensificare il dialogo tra tutti gli addetti alla giustizia e il mondo accademico. Il problema è che mentre le acquisizioni scientifiche creano di continuo modelli interpretativi nuovi e spesso pieni di dubbi e discussioni anche fra gli addetti ai lavori, nei tribunali le decisioni, talvolta difficili e controverse, non possono attendere.
Nel 2016, sulla rivista Nature, David Neuberger, Presidente della Suprema Corte del Regno Unito a Londra, invitava a ridurre le spesso inutili dispute scientifiche fra esperti nei tribunali. Sarebbe utile che gli scienziati scrivessero delle linee guida su alcuni argomenti basilari sui quali vi è consenso, magari in collaborazione con magistrati.
In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale?
È fondamentale che gli operatori della Giustizia a tutti livelli e gli scienziati organizzino dibattiti e rendano di tali dibattiti compartecipi anche il grande pubblico
I casi che ho citato a proposito delle false memorie non sono indicativi della realtà italiana. La tendenza ad aiutare il testimone a ricordare quanto è accaduto è prassi diffusa e la tendenza a “estorcere” qualcosa si verifica anche in altri paesi. Per questo non mancano articoli anche su prestigiose riviste scientifiche che invitano alla prudenza se si vuole ricercare la verità e non indurre false memorie. Lacy e Stark, sulla rivista Nature Reviews Neuroscience, nel 2013 scrivevano che la memoria è imperfetta e non possiamo assumere che questo sia ben percepito dal pubblico e nelle aule dei tribunali.
La cultura scientifica, sia genetica sia cognitivista, vanta nel nostro Paese scienziati di grande rilievo che hanno svolto perizie altamente sofisticate e d’avanguardia, perizie che sono state oggetto di discussioni a livello internazionale. Quando si lavora alla frontiera qualunque conclusione va incontro a sani dibattiti. Per questo motivo è fondamentale che gli operatori della Giustizia a tutti livelli e gli scienziati organizzino dibattiti e rendano di tali dibattiti compartecipi anche il grande pubblico.
La società americana di neuroscienze ogni anno organizza un convegno scientifico al quale partecipano circa 30.000 scienziati provenienti da tutto il mondo.
Da qualche anno, nell’intento di favorire i contatti fra scienza e società, è in programma una conferenza il cui relatore è un illustre personaggio, non scienziato, che tratta tematiche di interesse generale. Nel 2015 a tenere una di queste letture è stato invitato il giudice distrettuale di New York, Jed Rakoff. Il giudice ha sottolineato che i magistrati spesso sono perplessi e perfino scettici in quanto non sanno nulla di neuroscienze. Preparate con l’aiuto di un grande neuroscienziato, Michael Gazzaniga, egli ha posto sul tappeto varie tematiche che gli uomini di legge ritengono siano importanti per il loro mestiere di giudici. Le undici tematiche sono state distribuite a centinaia di giudici federali. Le risposte furono interessanti.
Oltre al fascino degli argomenti si è rilevato che troppo spesso in passato i giudici hanno accettato le consulenze degli studiosi, ma in molti casi non portarono a contributi significativi. Si citano ad esempio le proposte di Lombroso, l’eugenetica con la sterilizzazione, la lobotomia frontale eseguita in 70.000 pazienti tra il 1940 e il 1960, l’entusiasmo dei magistrati per le proposte della psicoanalisi freudiana nel giudicare lo stato mentale di un individuo o la pseudoscienza della memoria recuperata che ha provocato una strage di imputati, spesso padri accusati dalle figlie di stupro.
A queste perplessità si aggiungono giudizi molto positivi per altre scoperte come l’introduzione della prova del DNA. In conclusione, i magistrati sono stati “scottati” in passato, ma sono molto ottimisti e oggi hanno fiducia nelle conquiste scientifiche. Credo che anche in Italia si debbano intensificare i rapporti fra scienza e legge.
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[1] Cfr. S. Arcieri, G. Baer, Intervista ad Arnaldo Benini, in questa rivista, 2 aprile 2019. Per ulteriori riflessioni sui temi oggetto della presente intervista, v. anche P. Strata, Neuroscienza e diritto: un colloquio necessario, in id., 2 aprile 2019.
[2] Sul medesimo tema, si veda anche T.A. Dragani, La costituzione genetica può condizionare il comportamento aggressivo, in questa rivista, 17 aprile 2019.
[3] Sul tema si veda, in particolare, P. Strata, Le false memorie, in questa rivista, 10 aprile 2019.
[4] In particolare, l’intervento del Prof. Strata al convegno in parola è accessibile a questo link.