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09.10.2019
Irene Gittardi

Intervista a Tiziana Siciliano

Colpa medica e responsabilità penale: tutte le criticità del sistema raccontate da Tiziana Siciliano, Procuratore Aggiunto della Procura di Milano

Fascicolo 10/2019

Abbiamo intervistato la dottoressa Tiziana Siciliano, coordinatrice del sesto dipartimento della Procura di Milano (Tutela della salute, dell’ambiente e del lavoro) cui compete la gestione dei procedimenti penali in materia di responsabilità colposa degli esercenti le professioni sanitarie.


 

Iniziamo a parlare di numeri. Quante denunce (o denunce-querele) vengono presentate in Procura a Milano ogni anno per fatti attinenti la responsabilità di esercenti le professioni sanitarie?

Nel 2018, guardando il dato complessivo per lesioni e omicidi, sono state depositate circa 250 denunce – quasi una denuncia al giorno.

In media, quanti procedimenti proseguono oltre la fase delle indagini preliminari?

In linea di massima, circa l’80% dei procedimenti iscritti si concludono con archiviazioni de plano.

Quanto incide, in questo quadro, la presentazione di un’eventuale opposizione alla richiesta di archiviazione, e dunque il ruolo dei Giudici per le Indagini Preliminari?

Si tratta certamente di un aspetto significativo. Il procedimento che porta a una richiesta di archiviazione per questo genere di reati, infatti, è faticoso e complesso: dopo aver svolto attività istruttoria, disposto e studiato una consulenza tecnica, la Procura – se si convince che il procedimento non debba proseguire oltre – spesso si impegna nella redazione di richieste di archiviazione ben strutturate, motivando ampiamente le ragioni della propria scelta. Si tratta di un’attività non da poco, anche perché la materia, ovviamente, impone al PM di mutuare e interiorizzare un linguaggio scientifico molto lontano dal mondo giuridico. A valle di questo lavoro, la proposizione di un’opposizione, e soprattutto l’eventuale disposizione da parte del Gip di indagini integrative o, in alcuni casi, dell’imputazione coatta, può comportare un certo senso di frustrazione.

Dei procedimenti che giungono a giudizio, quanti si concludono con sentenze di assoluzione?

La percentuale di assoluzioni è altissima, soprattutto per i procedimenti che vanno a giudizio in seguito a un provvedimento di imputazione coatta. I dati generali parlano di circa un 90% di assoluzioni.

Secondo lei, quali possono essere le principali cause di questa notevole sproporzione tra eventi infausti denunciati e condanne in sede penale?

Innanzitutto, la denuncia spesso è il frutto di un momento emotivamente instabile, quello del dolore e della rabbia dei congiunti della persona offesa – o della persona offesa stessa nel caso delle lesioni. Spesso, quindi, si tratta di un atto non ragionato, presentato, anche comprensibilmente, sull’onda dell’emozione.

A ciò si aggiunga che dal punto di vista degli utenti del servizio sanitario c’è un’aspettativa ormai irragionevole: si è diffusa l’idea di avere diritto a essere risarciti per il semplice fatto dell’evento infausto, perché questo, nella rappresentazione collettiva, poteva sempre essere evitato; di conseguenza, nel momento in cui invece si verifica, ci deve essere necessariamente un colpevole – quasi una sorta di “responsabilità aquiliana” trasportata nel penale.

Invece non è sempre così, ovviamente. Certo ci sono i casi di errori colpevoli del medico, ma – per quella che è la mia esperienza – sono certamente molto inferiori rispetto alla rappresentazione collettiva.

La percentuale di assoluzioni è altissima, soprattutto per i procedimenti che vanno a giudizio in seguito a un provvedimento di imputazione coatta. I dati generali parlano di circa un 90% di assoluzioni

Che ruolo assume, in questo fenomeno, la classe forense?

Dalla lettura del sistema emerge, secondo me, un aspetto patologico anche della professione forense. C’è una parte dell’avvocatura che, purtroppo, si presta a supportare le parti nel presentare denunce anche in casi in cui è da subito evidente l’assenza di qualunque forma di responsabilità penale del medico. Ormai, ma il fenomeno è noto, ci sono degli studi che si sono strutturati per affrontare queste tematiche, per così dire, “a tappeto”, come dimostrano le forme di pubblicità, anche abbastanza aggressiva, che informano i pazienti della possibilità di agire nei confronti dei medici e delle strutture ospedaliere per ottenere risarcimenti.

Moltissime denunce sono infatti puramente strumentali, avendo come unica finalità quella di fare pressione sul professionista – che naturalmente ha ogni interesse ad evitare la sottoposizione a un procedimento penale, con tutti i costi che questo comporta in termini economici, psicologici e professionali – con lo scopo di ottenere in via stragiudiziale un risarcimento.

Esiste, poi, un’altra forma di strumentalità, che si verifica tipicamente nei casi in cui non ci sono elementi per sostenere responsabilità penale, mentre la pretesa potrebbe essere fatta valere in sede civile. In questa ipotesi, è circostanza nota che se viene presentata una denuncia – con esclusione dei casi palesemente privi di fondamento – la Procura dispone sempre l’esecuzione di una consulenza tecnica. Ecco, in questo modo, la parte denunciante entra nella disponibilità, a titolo assolutamente gratuito, di una consulenza richiesta dal PM, che quindi ha anche una sorta di imprimatur di terzietà, perfettamente idonea ad essere utilizzata in sede civile.

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Quali sono i principali effetti negativi di questa proliferazione di denunce?

In primo luogo, tutto ciò ha un importante costo sociale, rappresentato dal fenomeno della medicina difensiva, sul quale non vorrei dilungarmi perché si tratta di un fenomeno di cui molto si è detto e di cui è noto l’impatto sulle finanze pubbliche.

In secondo luogo, la deriva del sistema ha dato origine a un meccanismo preoccupante anche con riferimento al ruolo delle compagnie assicurative. Oggi le assicurazioni chiedono ai medici cifre insostenibili – soprattutto per gli specializzandi e i giovani medici – con premi che superano ampiamente l’ammontare degli stipendi percepiti. L’effetto che desta maggiore preoccupazione, a mio avviso, è che molti giovani decidono di abbandonare, o addirittura di non intraprendere le specialità considerate più a rischio, come la ginecologia e la cardiochirurgia, per timore di venire coinvolti in procedimenti penali e dei costi connessi agli obblighi assicurativi.

Oltre al numero considerevole di procedimenti, quali sono le difficoltà che incontra la Procura milanese nella gestione dei procedimenti per responsabilità medica?

Una delle principali difficoltà è rappresentata dall’esigenza di formare un gruppo di magistrati altamente specializzato, che possa approfondire una materia scientifica – la medicina – il cui sapere non rientra nel campo di competenze tradizionale del giurista.

Porto la mia esperienza personale. Nel periodo in cui io ho seguito il procedimento per i gravi fatti verificatisi presso la clinica Santa Rita, nel mio ufficio c’erano più libri di oncologia polmonare che non di diritto. Nel corso delle indagini ho esaminato – e con esaminato intendo dire che ho letto personalmente – circa 35.000 cartelle cliniche.

Una delle principali difficoltà è rappresentata dall’esigenza di formare un gruppo di magistrati altamente specializzato, che possa approfondire una materia scientifica – la medicina – il cui sapere non rientra nel campo di competenze tradizionale del giurista

Questo per dire che il vero problema è la necessità di affidarsi in materia talvolta acritica a un consulente. Il processo, a mio parere, dovrebbe essere permeato da una logica giuridica, in cui andrebbero inserite – dopo un’elaborazione critica e consapevole da parte della magistratura – le nozioni e il linguaggio scientifico. Si tratta, però, di un obiettivo molto difficile da raggiungere, perché per quanto un magistrato possa approfondire e cercare di governare le tematiche scientifiche che emergono, di volta in volta, nei casi che deve affrontare, non sarà mai in grado di compensare decenni di studio specialistico.

In questa prospettiva, qual è il ruolo dei consulenti tecnici? Che apporto sono in grado di dare?

Preliminarmente, rilevo l’esistenza di un serio problema di reperibilità dei medici legali – che devono necessariamente essere presenti tra i consulenti nominati dalla Procura. Pur essendo in molti, a Milano, non sono sufficienti a coprire tutte le aree della medicina legale – bisogna infatti considerare che in Italia non esiste una figura analoga al coroner di matrice anglosassone, completamente dedicato alle attività degli inquirenti.

Questa difficoltà si aggrava poi, soprattutto, con riferimento ai casi in cui la Procura ha bisogno del supporto di uno specialista, perché la Procura purtroppo ha serie difficoltà a retribuire in modo adeguato i propri consulenti.

I consulenti della Procura sono pagati un massimo di 8 euro ogni due ore (fino a un tetto massimo limitato di ore), quindi 4 euro all’ora. Lordi.

Una volta c’era quantomeno la possibilità, quando si nominava un collegio di professionisti, di aumentare il compenso del 40%. Ecco, ora la legge n. 24 del 2017 sembra aver fatto venire meno questa possibilità, quindi nel caso sia necessario nominare tre specialisti, come spesso avviene, il compenso è di circa 1,20 euro lordi all’ora. A ciò si aggiunga l’obbligo di fatturare entro cento giorni – altrimenti la richiesta di pagamento diventa inefficace – e i tempi medi per la liquidazione dei compensi pari a due o tre anni.

A queste condizioni un medico, spesso un professore titolare di una cattedra all’Università, non solo dovrebbe lavorare alla consulenza, ma dovrebbe anche essere a disposizione della Procura e poi del Tribunale per l’attività d’udienza.

Tale situazione – mi pare evidente – non aiuta la Procura a trovare consulenti validi e a istruire al meglio i processi.

Come si inserisce, in questo quadro, la riforma apportata dalla legge Gelli-Bianco?

La legge n. 24 del 2017 era animata da buone intenzioni, ma di buone intenzioni sono pavimentate le strade per l’inferno …

Scopo della riforma era, innanzitutto, sulla scia del decreto Balduzzi, dare ordine alla materia, limitando gli spazi interpretativi e stabilendo il limite oggettivo dato dalle linee guida, e non da tutte, ma solo dalle linee guida emanate dalle società scientifiche accreditate dal Ministero della Salute e pubblicate sul relativo sito. Purtroppo però, come noto, a due anni dalla riforma, di linee guida ne sono state pubblicate tre.

La situazione, quindi, è la stessa di prima, forse addirittura con maggiori incertezze in termini di condotta esigibile, aggravate dall’assenza di uniformità che si riscontra nella giurisprudenza di legittimità. Persino le Sezioni Unite, che erano state chiamate a risolvere lo stato di grave incertezza creatosi a meno di un anno dalla riforma, con la sentenza Mariotti[1], se possibile hanno complicato il quadro.

Al di là dell’attuazione sinora data alla legge Gelli-Bianco, ritiene che ancorare al rispetto delle linee guida l’esclusione della punibilità sia, ad ogni modo, su un piano più generale, una scelta opportuna?

Ho affrontato il tema delle linee guida, nella mia esperienza personale, durante i due procedimenti per la casa di cura Santa Rita, perché introdotto in chiave difensiva dalle difese degli imputati.  In quell’occasione, ho intuito per la prima volta che le linee guida sono un campo scivolosissimo: sotto la stessa etichetta si trovano studi che hanno un rigore e una valenza scientifica molto diversi tra loro; è successo, infatti, che venissero allegate a supporto delle tesi difensive linee guida che portavano come sostegno scientifico delle tesi che prospettavano lo studio di un singolo caso.

In secondo luogo, e questa è una mia riflessione personale, credo che questa estrema valorizzazione delle linee guida possa rischiare, in qualche modo, di bloccare l’evoluzione della medicina, che ha invece un importante connotato di sperimentazione. Chiudere la medicina dentro un recinto di accettabilità di condotta rigidamente codificata, perché se si esce dal recinto c’è il rischio della responsabilità penale, penso possa costituire un grosso limite.

Le linee guida sono un campo scivolosissimo: sotto la stessa etichetta si trovano studi che hanno un rigore e una valenza scientifica molto diversi tra loro; è successo, infatti, che venissero allegate a supporto delle tesi difensive linee guida che portavano come sostegno scientifico delle tesi che prospettavano lo studio di un singolo caso

Escludendo i casi che vengono archiviati de plano e le denunce chiaramente pretestuose, del contenzioso penale che residua qual è la percentuale di casi di gross negligence?

Esistono ovviamente gli errori marchiani, ma sono una percentuale molto bassa dei casi che arrivano in Procura.

Peraltro – e questo mi pare un dato molto significativo –, i procedimenti in cui la colpa del sanitario è più grave e immediatamente evidente nella maggior parte dei casi non arrivano neanche a giudizio, perché, laddove risulti evidente la probabilità di una condanna, l’azienda ospedaliera interviene e la vicenda si conclude con un accordo transattivo, anche con risarcimenti molto significativi, e la rimessione della querela.

Paradossalmente, quindi, per i casi più gravi il procedimento penale si arresta ancor prima di giungere a giudizio, mentre le vicende in cui la responsabilità del sanitario è più sfumata sono destinate a proseguire.

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Provando a pensare in maniera costruttiva, cosa potrebbe essere fatto per ovviare alle criticità dell’attuale sistema?

L’unica soluzione, a mio parere, è l’abrogazione della responsabilità penale per i fatti colposi degli esercenti le professioni sanitarie. Io credo fermamente che la previsione di sanzioni penali, in questo specifico settore, non costituisca un efficace deterrente, ma che anzi comporti più disagi che non reali vantaggi.

D’altra parte, esistono Paesi in cui la responsabilità penale per la colpa dell’esercente la professione sanitaria è limitata ai casi in cui la colpa è estremamente grave, quasi ai confini con il dolo, quindi non è un modello impossibile, ma una semplice scelta di politica legislativa. Andrebbero, piuttosto ampliati e resi più efficaci i procedimenti risarcitori.

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[1] Cass. pen., Sez. Un., 22 febbraio 2018 (ud. 21 dicembre 2017), n. 8770.

 

 

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