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Fascicolo 6/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, il presente contributo di Vittorio Foa, pubblicato ne Il Ponte – Rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei, anno V, n. 3, marzo 1949, pp. 299 ss.

I. L’attesa carceraria.

Dopo qualche anno di carcere la personalità del recluso subisce alcuni mutamenti rilevanti. (Non conosco la psicologia né la filosofia e chiedo scusa se la mia terminologia sarà rozza ed impropria. Cerco di esporre le cose come me le ricordo).

Il recluso si accorge della disgregazione che lo colpisce e cerca di resistere. Spesso è una lotta penosa. Ricordo l’impressione che mi fece, allora, il libro di un poeta indiano che diceva: la belva in gabbia non è una belva. L’uomo in cella, dopo un certo tempo, non è un uomo. Resta il ricordo, sempre più schematico, di quando si era uomini, resta (per un certo tempo) la speranza che si tratti di alterazioni provvisorie che saranno subitamente colmate dalla riconquistata libertà. E si lotta, spesso colla massima energia, per impedire una rottura nella continuità della propria persona: si ricorre al pensiero riflesso, agli affetti familiari, alle nostalgie di persone e di sensazioni ed anche, pericolosamente, alle immaginazioni del futuro (in gergo carcerario: castelli). Le lettere di Gramsci rivelano, ad un lettore esperto, in trasparenza questa lotta per la continuità nei suoi aspetti più crudi. Vi sono anche delle delicate poesie del Settembrini che piangono l’intelligenza perduta. Il punto decisivo per i legislatori penali dovrebbe essere questo: che ad un certo momento quella speranza di salvezza viene meno, per le ragioni che esporrò.

L’aspetto principale dell’alterazione psicologica del recluso riguarda, secondo me, la sua sensazione del tempo, sensazione che condiziona tutte le altre sensazioni ed ha conseguenze serie, che investono a fondo l’intero sistema punitivo. A partire dal quarto o dal quinto anno di reclusione (ne ho constatato in me stesso l’inizio verso la fine del terzo anno), coll’attutirsi dei ricordi di azione e col meccanizzarsi di ogni movimento, il tempo si vuota e si fa geometrico e spaziale. Si ripensa il passato o ci si rappresenta il futuro come in una esteriore contemplazione priva di legami colla volontà ormai assente. La stessa lettura, anche se intensa, finisce col fornire una serie di schemi allineati ed inerti, soprattutto quando non è concesso di scrivere e di raccogliersi quindi, se non altro, nella volontà di scrivere: in carcere non ci si fa una cultura. Il tempo non si misura perciò più dal suo contenuto di azioni: le sue unità diventano dei recipienti, geometricamente delimitati, che si tratta di riempire con unità di tempo geometricamente minori

L’uomo in cella, dopo un certo tempo, non è un uomo. Resta il ricordo, sempre più schematico, di quando si era uomini

Alcune conseguenze di questa deformazione del tempo sono note: i giorni in carcere passano molto lentamente, i mesi e gli anni passano velocissimi. Altre conseguenze sono meno note, ma basta interrogare dei reclusi (durante al reclusione) per rendersene conto.

L’attesa carceraria, ossia il peso del tempo che resta da trascorrere per la fine della pena, varia (per ogni unità di tempo da scontare ancora) in funzione della durata della pena già scontata. Un anno di pena prospettiva è molto più lungo, nella previsione, se si tratta del decimo anno di pena anziché, poniamo, del quarto. Le ragioni sono evidenti. Quanto più lunga e la pena già scontata, tanto più acuto l’atteggiamento contemplativo cui ho accennato prima, tanto più spazializzato il tempo e tanto più difficile quindi da riempire nei suoi componenti astratti. È il paradosso eleatico che esce dai testi filosofici per farsi momento di esperienza (e di sofferenza) vitale. Ricordo alcuni fatti significativi del mio periodo romano di semisegregazione. Sono sdraiato sulla branda, i muscoli rilassati, il respiro rattenuto, immobile. So che fra qualche minuto dovrà accadere un evento piacevolmente atteso, mi porteranno la minestra calda, oppure i giornali illustrati. Solo pochi minuti avanzano, sento già il rumore degli sportelli aperti e chiusi nel braccio. Ma mi pare impossibile che tale momento possa arrivare. Penso con spavento all’infinità di atti che devo compiere per perfezionare l’evento atteso. Debbo muovere una gamba, poi l’altra, poi alzare il busto, levarmi dalla branda, disporre una quantità di preparativi, lo spazio di un anno non mi sembra abbastanza lungo per la quantità di atti da compiere.

Anche in reclusorio osservavo qualcosa di analogo nei liberandi per fine pena. Quando li interrogavo: come la va? rispondevano: mamma mia, il tempo non passa più. L’ultimo mese era il più difficile, non passava mai, ogni giorno ancora da scontare appariva come una somma di sempre più numerosi attimi temporali da riempire. Ho interrogato molta gente, per tutti era la stessa storia, quando erano vecchi reclusi. Ho tentato di costruire la funzione dell’attesa carceraria, in base alle indicazioni fornitemi. Graficamente essa ha in parte la forma di una iperbole equilatera, asintotica rispetto all’asse della pena. Ciò significa che dopo un certo numero di anni nella coscienza del recluso la pena non può finire. Ogni pena è a vita. Nella Metamorfosi di Kafka il giovane Gregorio rinuncia a sperare quando vede ormai di non poter più alzarsi sulle gambe posteriori, e ricade pesantemente appiattito al suolo, da quell’insetto nel quale è trasformato: egli sa allora di aver perduto la dimensione umana e dispera e muore. Per il recluso dopo qualche anno si verifica la stessa perdita della dimensione reale del tempo, e il nuovo tempo che domina il suo destino appare impossibile da riempire ed inesauribile. Ogni condannato diventa perciò un ergastolano.

Per il recluso dopo qualche anno si verifica la stessa perdita della dimensione reale del tempo, e il nuovo tempo che domina il suo destino appare impossibile da riempire ed inesauribile. Ogni condannato diventa perciò un ergastolano

Questo aspetto dell’esperienza carceraria, pur non avendo valore assoluto, ha tuttavia una portata abbastanza generale da richiedere l’attenzione del legislatore penale. Penso che a nessuno verrà in mente di opporre che dopo tutto le pene temporanee finiscono e che i reclusi dimenticano, una volta liberati, le precedenti sensazioni. È vero che al recluso liberato restano poche tracce di ricordo del tempo vuoto della galera. Questo però si sa dopo. A noi interessa quel che la pena è, per il condannato, nel corso della sua esecuzione. Ora mi pare che difficilmente si possa giustificare, da qualsiasi punto di vista, il fatto di alterare cosi profondamente in esseri umani le loro sensazioni e di portarli alla disperazione, anche alla muta disperazione che non trova sfogo in grida e proteste. La validità dell’attuale sistema punitivo viene posta in forse nelle sue fondamenta perché riesce difficile concepire la possibilità di emenda del reo quando la sua libertà di volere è totalmente schiacciata da un tempo esterno e fatalmente tiranno.

È vero che al recluso liberato restano poche tracce di ricordo del tempo vuoto della galera. Questo però si sa dopo. A noi interessa quel che la pena è, per il condannato, nel corso della sua esecuzione […]. La validità dell’attuale sistema punitivo viene posta in forse nelle sue fondamenta perché riesce difficile concepire la possibilità di emenda del reo quando la sua libertà di volere è totalmente schiacciata da un tempo esterno e fatalmente tiranno

La coscienza dei tempi è forse immatura per una riforma nel senso di una abolizione totale delle pene detentive, ed anche per l’introduzione dell’autocondanna, che legherebbe il tempo alla volontà del condannato. Ma si rifletta che le privazioni materiali del carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l’organismo umano si adatta con facilità, ma che il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo. Nessuna pena detentiva dovrebbe perciò superare i tre, e al massimo i cinque anni.

Queste considerazioni valgono per i delinquenti comuni. Non valgono per i politici. La reclusione non serve per i delitti politici. II recluso politico diventa, per forza di cose, sempre più acerbo avversario dello Stato che lo perseguita. L’unica pena giustificabile in materia politica è quella di morte. Anche l’ergastolo è sconsigliabile perché difficilmente la classe dominante potrebbe, in certi momenti, esimersi da ostentazioni di clemenza con indulti ed amnistie e si ricadrebbe perciò nel caso delle pene temporanee che non fanno che rendere più irriducibili gli avversari.

Il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo

II. Le mura del carcere.

Quando ero giovane credevo che le mura del carcere servissero a preservare la vita civile dal contatto materiale impuro dei delinquenti. Anche negli anni di Regina Coeli pensavo talvolta ala posizione di quella carcere nel cuore della città maestosa ed amavo, in qualche momento di malinconia e di gradevole compassione nei miei stessi confronti, di immaginare che qualche persona amica, od anche qualche estraneo di buon cuore, passando nei pressi della Lungara, rivolgesse un pensiero di solidarietà verso le sconosciute sofferenze dell’interno. Ho poi capito che erano tutte illusioni. La architettura delle carceri, con quell’accavallarsi di muraglie lisce e respingenti, non serve solo a segregare i delinquenti dal mondo esterno, ma è fatta in modo da scoraggiare qualsiasi interessamento morale del pubblico a quel che succede dentro, è fatta in modo da placare nel disinteressamento totale le coscienze eventualmente turbate. Dopo la mia liberazione sono passato molte volte sotto le mura di una prigione e non mi sono mai sognato di rivolgere un pensiero ai reclusi, né mai ho tentato (pur avendone la possibilità e fors’anche il dovere morale) di visitare qualche stabilimento. Le carceri costituiscono un mondo a parte. Viviamo in letizia ed infischiamoci di quel che succede là dentro.

Ora tutto questo non succede senza qualche seria ragione. Intanto, vi è un mondo che difende la sua esistenza, i suoi piccoli miserabili privilegi di comando, con molto accanimento, e non vuole essere disturbato. È il mondo della custodia, dei direttori funzionari e guardie degli stabilimenti. Dico subito che è gente come tutti gli altri. Vi ho incontrato dei sadici manigoldi e degli uomini angelici, dei santi in uniforme. Ma la necessaria struttura gerarchica congiunta alla specifica funzione crea una condizione particolare di arbitrio sistematico. II detenuto e passivamente in preda alla custodia. La direzione e la custodia devono mostrare ai detenuti un volto rigido e severo. Manca ogni comunicatività umana, eccetto che per i pochi favoriti. L’arbitrio della custodia ha come necessario corrispettivo la frode dei detenuti, la piccola chicane regolamentare, il loro menefreghismo e lo sforzo assiduo di fregare il prossimo. Ma il recluso si arrangia nelle piccole cose, nelle cose che non toccano il principio di autorità. Di fronte alle sopraffazioni ed agli arbitrii fondamentali egli non può reagire senza gravi conseguenze per sé. Se resiste è perduto. Tanto più, quanto più e privo di aderenze ed amicizie influenti. Cioè nella generalità dei casi. Credo che, quale che siano le loro buone intenzioni, siano pochissimi i direttori capaci di rinunciare al comodo velo di intimidazione nei confronti dei reclusi. II vecchio Doni, direttore di Civitavecchia, dava udienza ai reclusi con un grosso cane ringhioso a lato per difesa personale e durante tutta l’udienza i reclusi dovevano stare appoggiati al muro colle braccia allargate e le palme in fuori. In genere le direzioni considerano come un insopportabile affronto personale che si discuta del loro comportamento dal punto di vista legale e regolamentare. Durante la guerra era direttore a Civitavecchia il dott. Carretta, che lasciò poi discreto ricordo di sé a Regina Coeli durante l’occupazione tedesca e fu compianto per l’orrendo linciaggio fattone dopo la liberazione in occasione del processo Caruso. A Civitavecchia il direttore Carretta era una gelida canaglia. Alla fine del mio ottavo anno di pena (ero ormai un vecchio galeotto scaltrito ed esperto di regolamenti e di umori di custodia) gli scrissi una lettera correttissima elencandogli i vari tipi di violazioni regolamentari che stavano alla base delle numerosissime punizioni colle quali egli cercava di liquidare le ultime resistenze dei corpi indeboliti dei detenuti politici; lo pregavo cordialmente ed umanamente di rivedere il suo comportamento e comunque di darmi udienza nell’interesse comune. Mi chiamò, si disse ingiuriato, mi diede un mese eli isolamento ed otto giorni eli pancaccio a pane ed acqua. Ed egli sapeva che ero un intellettuale con una discreta cerchia di relazioni che potevano diventare importanti nel mutamento di regime che già si affacciava all’orizzonte. Un povero contadino sarebbe stato certamente vituperato e percosso. Il puntiglio arbitrario di autorità si estendeva in tutti i settori ed in tutti i servizi, purtroppo anche nel servizio sanitario. Rinuncio a portare esempi. Le vicende di umiliazioni, di ingiustizie, di sopraffazioni della piccola gente, che ha la disgrazia di non avere amici, costituiscono una storia oscura che non verrà mai alla luce. II detenuto non può riacquistare fiducia nell’umanità e nella legge, nelle carceri di oggi. Vedevo questo negli ultimi anni della mia pena, e mi proponevo con alcuni amici di dedicare la mia futura attività di uomo libero nelle carceri, di diventare direttore di stabilimento e di provare se è veramente impossibile di affermare la legge positiva e la legge morale nei rapporti con gli uomini deboli che sono caduti. I bei propositi sono rimasti tali. Che io sappia nessuno di noi si è votato a questo lavoro. II carcere respinge da sé gli uomini liberi. Oggi appartengo io pure al gran mondo degli indifferenti. Direttori e guardie, state tranquilli che nessuno vi darà fastidio. Il regolamento c’è, le leggi ci sono ed anche i giudici di sorveglianza. La società spende per il sistema penitenziario il minimo indispensabile per mettersi al sicuro e per pacificare la propria coscienza, non un soldo di più. Ma anche i giudici volenterosi, cosa possono fare? Quanti sono i reclusi che hanno il coraggio di dire la verità al giudice di sorveglianza? Il giudice scrive il rapporto e se ne va, il rapporto viaggia, ma la custodia resta.

La architettura delle carceri, con quell’accavallarsi di muraglie lisce e respingenti, non serve solo a segregare i delinquenti dal mondo esterno, ma è fatta in modo da scoraggiare qualsiasi interessamento morale del pubblico a quel che succede dentro, è fatta in modo da placare nel disinteressamento totale le coscienze eventualmente turbate

In queste condizioni non si può dare alla pena una durata incerta, in relazione al comportamento del reo. Una selezione non può essere operata che sulla base dei giudizi della custodia, e quelle che sono qualità positive per la custodia sono necessariamente i peggiori difetti di carattere ai fini di una vita libera. La custodia difende il suo piccolo potere senza controllo, segue le vie di minor resistenza, favorisce fatalmente il servilismo, la menzogna, la delazione, la mancanza di carattere, disprezza ed osteggia fatalmente le qualità virili della vita libera. La pena, poiché ha da esserci, sia certa, con esclusione non solo di ogni amnistia ed indulto, ma anche dei benefici condizionali che dipendono da valutazioni soggettive.

Ma per aprire le carceri al controllo della pubblica opinione, per rompere la piccola tirannica sovranità della amministrazione, per far sentire ai reclusi che essi non sono abbandonati; che esiste un mondo di relazioni umane e di regole che li sostiene e li appoggia, non basta una riforma dell’edilizia carceraria né una polemica cogli arbitrii della custodia. Chi ha fatto le carceri a quel modo, chi ha delegato alla custodia quei poteri? Nessuno si chiede conto di ciò perché esiste fra noi una omertà assoluta nel voler mentire, agli occhi stessi della nostra coscienza, le colpe che abbiamo verso i fratelli più deboli. Ci danno fastidio perché sono lo specchio vivente della nostra mancanza di solidarietà umana, perché ci ammoniscono fastidiosamente della nostra stessa fragilità. E allora li chiudiamo dentro quattro mura, li affidiamo a degli specialisti di repressioni, per non vederli, per non sentire i loro lagni, per vivere in pace. E ipocritamente aggiungiamo che vogliamo che essi migliorino. Come se l’uomo, solo, fosse capace di bene.

Ci danno fastidio perché sono lo specchio vivente della nostra mancanza di solidarietà umana, perché ci ammoniscono fastidiosamente della nostra stessa fragilità. E allora li chiudiamo dentro quattro mura, li affidiamo a degli specialisti di repressioni, per non vederli, per non sentire i loro lagni, per vivere in pace. E ipocritamente aggiungiamo che vogliamo che essi migliorino

Ma l’uomo lasciato solo ha ancora la libertà di giudicare chi l’ha abbandonato. E spesso, agli occhi del recluso, le muraglie del carcere sembrano dilatarsi a dismisura ed avvolgere e chiudere in una segregazione morale volontaria il cosiddetto mondo degli uomini liberi, degli uomini che presumono di giudicare del loro prossimo e che sono subito costretti a chiudere disgustati gli occhi sul frutto delle loro malefatte, che chiamano giudizi.

Vittorio Foa

 

 

Vittorio Foa è nato a Torino. Arrestato a 24 anni il 15 maggio 1935, deferito al Tribunale Speciale sotto l’imputazione di cospirazione politica mediante associazione e apologia di reato (artt. 303 e 305 in relazione agli artt. 283, 284, 285 C. Pen.). Condannato il 27 febbraio 1936 a quindici anni di reclusione. Viene liberato il 23 agosto 1943. La sua attività clandestina si svolse nel movimento G. L. e nel Partito d’Azione.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

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