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29.01.2020
Arielle Baskin-Sommers

Brain science should be making prisons better, not trying to prove innocence

Issue 1/2020

We publish here, courtesy of the Editor and the Author, our full translation of the article by Arielle Baskin-Sommers[1], Brain science should be making prisons better, not trying to prove innocence, published in The ConversationNovember 2, 2017.

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Ogni settimana, aspetto che le fredde barre d’acciaio si chiudano dietro di me, che venga chiamata la conta e che uomini che dovranno trascorrere anni – forse il resto della loro vita – all’interno di questa prigione vengano a parlare con me. Sono uno psicologo clinico che studia il comportamento antisociale cronico. Io e il mio staff abbiamo convertito un ufficio di un carcere dello stato del Connecticut in uno studio di ricerca, che ci consente di misurare le risposte neurali e comportamentali.

Di recente, Joe, un uomo che sta scontando la pena dell’ergastolo, è entrato nel nostro laboratorio carcerario. Prima ancora che potessi controllare il nostro modulo del consenso alla ricerca, egli disse: «tu lo sai che l’unica cosa che conta è il cervello». Joe chiese se eravamo in grado di fornire la prova del fatto che “qualcosa”, nel suo cervello, era responsabile del suo crimine. In caso contrario, non potremmo semplicemente “fare un’incursione” nel suo cervello per rimuovere quella “robaccia”, come accade in TV?

In quel momento, mi sono reso conto che, come molti altri detenuti e altrettante persone comuni, egli riponeva aspettative infondate nelle meraviglie della neuroscienza. Costoro credono che i ricercatori come me siano oggi capaci di tracciare così chiaramente le connessioni tra cervello e comportamento, da essere in grado di usare le nostre conoscenze per determinare la colpa o l’innocenza, pronunciare condanne penali o valutare in modo certo rischi e bisogni.

Queste aspettative rappresentano un peso enorme per una scienza che è ancora agli inizi. Ci sono molte preoccupazioni circa l’uso appropriato delle neuroscienze nel contesto della giustizia penale. Tuttavia, esiste un gran numero di scoperte neuroscientifiche ben fondate che potrebbero davvero fare la differenza nel nostro sistema di correzione in questo momento – a vantaggio sia di coloro che sono ristretti, sia di tutti gli altri.

Costoro credono che i ricercatori come me siano oggi capaci di tracciare così chiaramente le connessioni tra cervello e comportamento, da essere in grado di usare le nostre conoscenze per determinare la colpa o l’innocenza, pronunciare condanne penali o valutare in modo certo rischi e bisogni. Queste aspettative rappresentano un peso enorme per una scienza che è ancora agli inizi

Ciò che è ancora neuro-fantascienza

Nonostante quello che Hollywood dipinge in programmi TV come “Law & Order”, o in film come “Side Effects” e “Minority Report”, nella maggior parte dei casi non esistono discipline scientifiche in grado di offrire un buon intrattenimento.

Ad esempio, malgrado la richiesta di Joe, non possiamo semplicemente dare una sbirciata all’interno del cervello e vedere prove chiare di innocenza o di colpevolezza. Una scansione cerebrale non è in grado di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che alcune strutture o anomalie hanno influenzato lo stato mentale di un particolare individuo al momento della commissione di un crimine. L’attività elettrica del cervello misurata da un elettroencefalogramma non consente di distinguere tra condotta criminale e manifestazioni comuni di comportamento antisociale, come mentire o ingannare – comportamenti cioè qualitativamente differenti.

Allo stato attuale, non esiste alcuno strumento neuroscientifico capace di prevedere se un individuo porrà in essere una condotta criminale in futuro. Né la neuroscienza appare più adeguata a fornire elementi che conducano a sentenza più mite rispetto ad altri strumenti, più affidabili e meno costosi, come il riferimento a una storia personale di esposizione alla violenza.

L’attività elettrica del cervello misurata da un elettroencefalogramma non consente di distinguere tra condotta criminale e manifestazioni comuni di comportamento antisociale, come mentire o ingannare – comportamenti cioè qualitativamente differenti

Sfortunatamente, quando vengono portate dinanzi al giudice, le valutazioni neuroscientifiche possono influenzare le giurie indipendentemente dalla loro rilevanza. L’uso di queste tecniche per produrre prove specialistiche non porta i giudici più vicini alla verità o alla giustizia. Senza contare che la scansione cerebrale, che comporta una spesa di migliaia di dollari per ogni singolo esame, unita al ricorso alle valutazioni e alla testimonianza di un esperto, rappresenta uno strumento costoso fuori dalla portata di molti imputati. Invece di contribuire a fare chiarezza sulla responsabilità penale, la neuroscienza finisce dunque con l’aggravare ulteriormente la distanza tra ricchi e poveri, sulla base della pseudoscienza.

Pur ribadendo il mio scetticismo riguardo all’impiego delle neuroscienze nei processi giudiziari, esistono nondimeno numerosi contesti in cui i risultati di esse potrebbero essere utilmente utilizzati per aiutare i sistemi correttivi a sviluppare politiche e pratiche basate su evidenze scientifiche.

L’isolamento penitenziario fa più male che bene

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Pensiamo, per esempio, al ricorso all’isolamento all’interno delle carceri come forma di punizione in caso di violazioni disciplinari. Nel 2015, il Bureau of Justice ha riferito che quasi il 20 per cento dei detenuti presenti nei penitenziari federali e statali e il 18 percento di quelli delle prigioni locali hanno trascorso del tempo in regime di isolamento.

La ricerca dimostra sistematicamente che il tempo trascorso in condizioni di isolamento aumenta il rischio di stati traumatici persistenti e di angoscia. L’isolamento può condurre ad allucinazioni, fantasie e paranoia; può accrescere l’ansia, la depressione e l’apatia, inoltre può essere causa di difficoltà di pensare, di concentrarsi, di ricordare, di prestare attenzione e di controllare gli impulsi. Le persone sottoposte a regime di isolamento hanno maggiori probabilità di incorrere in pratiche di auto-mutilazione e di manifestare rabbia cronica, risentimento e irritabilità. Il termine “sindrome da isolamento” è stato coniato anche per descrivere gli effetti gravi e duraturi della solitudine forzata.

Nel 2015, il Bureau of Justice ha riferito che quasi il 20 per cento dei detenuti presenti nei penitenziari federali e statali e il 18 percento di quelli delle prigioni locali hanno trascorso del tempo in regime di isolamento

A un primo sguardo, può sembrare che eliminare l’isolamento, per sostituirlo con altre forme di punizione, sia solo un modo per migliorare lo stile di vita dei carcerati, il che è un tema molto sentito dal pubblico e suscettibile di sfruttamento da parte dei politici. Tuttavia, costringere i detenuti a rimanere isolati per 23 ore al giorno comporta gravi pericoli anche per il personale penitenziario, che è costretto a rapportarsi e a interagire con soggetti che, in quel momento, sono più propensi ad agire in modo sconsiderato, meno inclini a rispettare le regole, e che hanno una percezione distorta dell’ambiente circostante.

Il ricorso all’isolamento, a ben vedere, acuisce la gravità i problemi che si propone di affrontare. E quando vengono reinseriti all’interno della comunità, i detenuti portano con sé tutte le conseguenze negative di questo trattamento.

Vivere nel contesto carcerario

Un approccio basato sulle neuroscienze suggerisce inoltre una serie di migliorie da apportare alle sovraffollate carceri americane di oggi.

Il Prison Ecology Project indaga i rapporti esistenti tra incarcerazione di massa e degrado ambientale. Esso riferisce che almeno il 25 per cento delle carceri dello stato della California sono state poste sotto accusa per gravi problemi di inquinamento delle acque. In Colorado, 13 istituti penitenziari sono situati in aree contaminate che violano gli standard stabiliti dall’Agenzia per la Protezione Ambientale [EPA, n.d.t.]. Violazioni della normativa ambientale commesse all’interno di carceri sovraffollate sono altresì note in molti altri stati.

Il sovraffollamento contribuisce a determinare un deficit nei meccanismi neurali necessari alla gestione dello stress. L’inquinamento acustico produce livelli elevati di ormoni dello stress e comporta l’aumento dei rischi cardiovascolari. La contaminazione ambientale, come un sistema fognario e di smaltimento dei rifiuti inadeguato, la scarsa qualità dell’acqua e la presenza di amianto e piombo nell’ambiente è causa di deficit e malfunzionamenti a livello cerebrale e comportamentale.

Questi fattori impattano negativamente sulle aree del cervello deputate alla sfera delle emozioni, della cognizione e della gestione del comportamento e peggiorano le tendenze comportamentali già problematiche.

Il sovraffollamento contribuisce a determinare un deficit nei meccanismi neurali necessari alla gestione dello stress. L’inquinamento acustico produce livelli elevati di ormoni dello stress e comporta l’aumento dei rischi cardiovascolari. La contaminazione ambientale, come un sistema fognario e di smaltimento dei rifiuti inadeguato, la scarsa qualità dell’acqua e la presenza di amianto e piombo nell’ambiente è causa di deficit e malfunzionamenti a livello cerebrale e comportamentale

È importante sottolineare che tali effetti non sono percepiti solo dai detenuti. Il personale penitenziario presta servizio per molte ore nello stesso ambiente. Gli ufficiali di polizia penitenziaria presentano tassi più elevati di mortalità, di disturbi da stress, di divorzio, di abuso di sostanze e di suicidio, rispetto a molte altre categorie professionali. Come i detenuti, anch’essi subiscono gli effetti venefici prodotti da un ambiente tossico, su più livelli. Le loro famiglie e le loro comunità percepiscono i predetti effetti, quando queste persone tonano a casa portando con sé il peso delle conseguenze fisiche e mentali di tali drammatiche condizioni.

I passi della neuroscienza verso la salute mentale

Ogni singolo giorno, fino a un quinto dei detenuti americani adulti soffre di gravi malattie mentali. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di disturbi della personalità, dell’umore, traumatici e psicotici; anche i disordini connessi all’uso di sostanze sono molto diffusi. Queste patologie sono spesso sono correlati a comportamenti impulsivi e violenti.

Le neuroscienze possono contribuire a superare l’attuale tendenza a fare ricorso a “un unico approccio valido per tutto” per trattare le varie tipologie di disturbi della personalità e da uso di sostanze che colpiscono così tanti individui all’interno del carcere.

Questi disturbi presentano molteplici sottotipi, ognuno con un diverso meccanismo sottostante e che necessitano di trattamenti specifici. Un trattamento indifferenziato, sia di tipo psicoterapeutico, sia di tipo farmacologico, rischia in effetti di aggravare i sintomi e aumentare i rischi di recidiva.

Le neuroscienze possono contribuire a superare l’attuale tendenza a fare ricorso a “un unico approccio valido per tutto” per trattare le varie tipologie di disturbi della personalità e da uso di sostanze che colpiscono così tanti individui all’interno del carcere

La mia ricerca rappresenta un esempio positivo di come la neuroscienza è in grado di aiutare i professionisti a indirizzare la terapia trattamentale verso determinate carenze di capacità, specifiche per le diverse categorie di soggetti responsabili di reato.

Abbiamo scoperto che sei settimane di addestramento cognitivo realizzato tramite computer, finalizzato a migliorare le condizioni dei detenuti affetti da specifiche carenze cognitivo-affettive – come il prestare attenzione a diversi frammenti di informazione provenienti dall’ambiente, o nell’evitare di reagire in modo eccessivo agli stimoli emotivi – hanno determinato significativi cambiamenti a livello neurale e comportamentali. Adeguando le forme del trattamento alle disfunzioni cognitivo-affettive sottostanti, siamo riusciti a intervenire sui deficit neurali e comportamentali di alcuni dei criminali più difficili da trattare.

Allo stesso modo, sono state raccolte evidenze circa il fatto che, con riguardo a determinate categorie di rei, le terapie incentrate sull’empatia in tipi sono in grado di provocare cambiamenti duraturi nel comportamento, anche negli individui considerati più refrattari.

Adeguando le forme del trattamento alle disfunzioni cognitivo-affettive sottostanti, siamo riusciti a intervenire sui deficit neurali e comportamentali di alcuni dei criminali più difficili da trattare

Un approccio terapeutico maggiormente personalizzato risulta estremamente conveniente, sia in termini di impiego delle risorse sia per quanto riguarda i suoi effetti sulla recidiva. Purtroppo, al momento non è questa la norma nella maggior parte dei programmi di salute mentale presenti nelle carceri, né, peraltro, in quelli adottati nelle strutture sanitarie esterne al sistema carcerario.

L’impiego dei solidi fondamenti neuroscientifici di cui disponiamo

Per il momento, quindi, mi dispiace Joe, ma non possiamo fare nulla per “dimostrare” la tua assenza di dolo e non penso che “faremo incursione” nel tuo cervello tanto presto.

Nondimeno, la neuroscienza può migliorare l’attuale panorama della giustizia penale, che è afflitta da discriminazioni razziali, etniche ed economiche. Gli approcci fondati su prove neuroscientifiche solide ed empiricamente supportate possono produrre effetti vantaggiosi per il personale penitenziario, per i detenuti e per la società in generale. Un miglioramento delle condizioni, per tutti coloro che lavorano e vivono all’interno del carcere, comporterà anche una maggiore sicurezza pubblica quando i detenuti verranno reinseriti all’interno della società.

 


[1] Assistant Professor of Psychology, Yale University.

 

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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