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09.08.2020
Paolo Santarcangeli

Crisis of language and crisis of speech

Issue 9/2020

We publish here, courtesy of the Publisher, the present article by Paolo Santarcangeli, originally published on the Review Indici comunità, 133, 1965, pp. 100 ff.

The document, considered of interest to DPU readers by reasons of the extreme topicality of its contents, was selected within the archival heritage concerning the history of the Olivetti Company (Archivio Storico Olivetti), collected, edited and enhanced by Associazione Archivio Storico Olivetti, which we thank for the precious collaboration.

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Da qualche tempo si sono moltiplicati in Italia i discorsi intesi a denunciare una «crisi della lingua». Si afferma da più parti che, così come si è venuta costituendo e consolidando nel nostri tempi, la lingua italiana avrebbe esaurito la sua piena capacità di espressione e non basterebbe più a capire l’area alla cui occupazione intende muovere la contemporanea espressione letteraria. Tale crisi della lingua si iscriverebbe poi, a sua volta, così come un cerchio minore si iscrive in uno maggiore, in una crisi più generale del linguaggio, comune a tutte le arti.

La constatazione di una tale crisi assume volentieri toni polemici di parte: così sentiamo parlare di «crisi dell’espressione derivata da privilegi di classe», o più semplicemente, di «incapacità di esprimere i moti dell’animo popolare», mentre da un’altra parte si denuncia, seppure in termini ancor meno precisi e con intenti confessatamente moralistici, un impoverimento dell’espressione letteraria in funzione di un generale decadimento del costume e dello stile; tralasciamo di citare altre formulazioni, sostanzialmente non dissimili.

Da qualche tempo si sono moltiplicati in Italia i discorsi intesi a denunciare una «crisi della lingua» […]. Tale crisi della lingua si iscriverebbe poi, a sua volta, così come un cerchio minore si iscrive in uno maggiore, in una crisi più generale del linguaggio, comune a tutte le arti

A titolo di sintomi – e insieme di risultanze – di una tale opinione, oggi assai diffusa, vorremmo indicare, in Italia, tre fenomeni: gli scritti della «scuola populista», apparsi inizialmente negli anni 1945-1955 e poi continuati con varie fortune; l’attrazione sempre più cosciente della poesia dialettale nell’ambito «legittimo» della lirica nazionale; e, finalmente, i tentativi di ampliare il dominio dell’espressione «culta» mediante esperimenti compositi molto dissimili fra di loro e tra i quali menzioniamo – indipendentemente dalla loro volontà intrinseca e solo per la vasta eco che hanno suscitato – le prose di C.E. Gadda e di P.P. Pasolini. Ma si potrebbe citare tutta una serie di scrittori che si dedicano a forzature linguistiche di vario genere, sempre con l’intento che dicevamo; e da più parti si consiglia un ampio inserimento nel linguaggio «poetico» di elementi gergali, tratti dall’uso dei vari mestieri e dalle varie tecniche più recenti.

Discutere della maggiore o minore fondatezza della denuncia di tale crisi sembra inutile. Non crediamo che si possano suscitare (quanto meno nell’ambito dell’espressione letteraria, che sola ci interessa ora) crisi fittizie o artificiali. Tuttavia vale la pena di tentare una sistemazione di questa «coscienza di crisi» nella temperie espressiva dei nostri anni, situarla in una retta prospettiva storica, e una prognosi sui modi e sulle possibilità della sua risoluzione. Daremo per nota ed esistente, quale categoria di maggiore rilievo, la crisi del linguaggio espressivo, in genere, sostanzialmente perdurante in tutte le arti; e parleremo in particolare della crisi della lingua.

Discutere della maggiore o minore fondatezza della denuncia di tale crisi sembra inutile. Non crediamo che si possano suscitare […] crisi fittizie o artificiali. Tuttavia vale la pena di tentare una sistemazione di questa «coscienza di crisi» nella temperie espressiva dei nostri anni, situarla in una retta prospettiva storica, e una prognosi sui modi e sulle possibilità della sua risoluzione

Stabiliamo anzitutto – a costo di affermare cose sin troppo ovvie – che ogni epoca di ricerca, di rinnovamento, di transizione, di inquietudine è contrassegnata da una crisi di linguaggio; e, quindi, nel campo delle lettere, da una crisi della lingua. Con un tale sentimento esordisce addirittura la nostra letteratura nazionale; ma, grazie ai nostri grandi scrittori del Duecento, assai presto si videro fissare i canoni dello stile in paradigmi che imposero un grande rispetto. Questo fatto contribuì però a soffocare in fasce tutte quelle espressioni locali e, insomma, dialettali di cui pare che stiamo subendo oggi la rivendicazione tardiva. Negli altri paesi europei, come si sa, l’unificazione e canonizzazione linguistica si imposero solo molto più tardi: l’Italia, estremamente spezzettata nella sua fisionomia politica, fu linguisticamente unita sin dai primordi (anche se poi ci sarebbe molto da dire sulla profondità di tale unione): così come leggiamo, ad esempio, nelle ultime opere del Migliorini oppure nel recente, interessante saggio di De Mauro sulla Storia linguistica dell’Italia Unita.

Ma nonostante questa precoce fissazione e quindi rigidezza, la lingua si salvò dall’impoverimento e attrasse nella sua orbita, in ogni epoca di crisi del linguaggio (a dispetto dei linguisti, i quali furono da noi, sino a tempi assai recenti, dei conservatori ferocissimi) espressioni, locuzioni, parole sempre nuove: anche se poi l’arricchimento finale fu meno cospicuo che altrove. Una coscienza di crisi del linguaggio e della lingua si fece ancora sentire particolarmente nell’epoca del Barocco e dei Marinisti e dei Secentisti in genere e diventò forse ancora più violenta al culmine del nostro Romanticismo. Fra il linguaggio (e la lingua) di un Parini o di un Monti, ancora radicati sul ceppo del classicismo, e quello di un Foscolo o di un Leopardi c’è molta diversità; e con il Manzoni lirico sorge in Italia un fenomeno che ci pare tipicamente nostrano: il fatto che i poeti – e sappiamo che essi sogliono essere gli antesignani di ogni rinnovamento espressivo – si costruiscono un linguaggio affatto fittizio, avente solo una tenue parentela con il «vero» linguaggio parlato. Il fenomeno – mutatis mutandis – si protrae sino al Carducci e al D’Annunzio (il Pascoli costituisce, per la sua lirica «intimistica», un caso a sé, come vedremo fra poco). È ma esistita In Italia una lingua come quella usata dai poeti ora citati? Si trattava ancora di un modo di espressione eminentemente «culto», desunto dalle fonti più diverse; modo volontario e anche velleitario, sotteso di intendimenti politici e storici, interamente avulso da una certa realtà viva del popolo, così come esso parlava e pensava e sentiva; linguaggio libresco, ma pur tuttavia intellegibile per i suoi destinatari. Un’analoga osservazione non potrebbe essere applicata che in assai minore misura ai poeti dell’Ottocento francese, tedesco e inglese.

Il disagio di questa frattura eccessiva fra la vita quotidiana della lingua e l’espressione poetica fu sentito dal Pascoli delle Myricae (ma non dall’autore delle poesie grandiloquenti che veleggiava per magni Oceani ora con la nave del Carducci e ora con la sontuosa galea del D’Annunzio); è quindi esatto reperire in lui il primo, seppure forse semicosciente albeggiare di una espressione intesa a rompere i ponti con la tradizione che, pur fra tanti scossoni, continuava dal Trecento; fu sentito dai Crepuscolari, sebbene in tono minore e umile e casalingo; fu sentito appieno dai rinnovatori posteriori dell’espressione (anche se poi l’Ungaretti poteva, per molti aspetti, rifarsi idealmente al Leopardi; anche se, sotto un certo profilo, non sarebbe errato ravvisare nel Saba un continuatore dei Crepuscolari; seppure più pulito, più puro, più solidamente ispirato). Ecco dunque che, come sempre, la rivoluzione si placa in evoluzione.

Ma quel disagio fu ugualmente sentito, in altri campi di espressione e con un vivace ampliamento del «senso di crisi», anche sotto i suoi aspetti sociali ed etici, dal miglior Verga e dal Pirandello (soprattutto delle novelle): i quali ne trassero le debite conseguenze e furono – a tacere delle loro altre virtù – diversamente «dialettali». (Ci si consenta di esprimerci per parole-chiave, onde non allungare indebitamente questo discorso).

Quanto accade oggi ci pare quindi chiaramente come la continuazione degli accadimenti ora accennati. Ma non è una ragione per sottovalutarne l’importanza e l’urgenza: giustizia vuole che si prenda atto della «insoddisfazione della lingua» che oggi si fa viva, con toni e accenti diversi, e che se ne esamini la fondatezza.

Giustizia vuole che si prenda atto della «insoddisfazione della lingua» che oggi si fa viva, con toni e accenti diversi, e che se ne esamini la fondatezza

Vorremmo cominciare con un piccolo rilievo diagnostico non privo di ironia. Sembrano esenti da questo ùzzolo gli scrittori toscani – specificamente e volutamente tali – nonché, per altro verso, gli scrittori delle «periferiche», che debbono conquistarsi la lingua e lo stile attraverso un paziente lavoro di apprendistato, di scavo: in primo luogo, gli scrittori e poeti ticinesi e giuliani; fors’anche, seppure con toni diversi, i siciliani; in misura minore, i piemontesi (non ci consta, ad esempio, – salvo rettifiche dì cui saremmo grati – che un Pavese o un Fenoglio avessero sofferto di tali imbarazzi).

Il perché viene da sé: i toscani hanno una padronanza piena dello strumento e, con la massima familiarità e spontaneità, ne traggono i suoni che vogliono; ai «periferici», la pervicace e caparbia scoperta di nuovi accenti, il continuo ritrovamento di più ampi mezzi espressivi offre un incentivo sempre nuovo. Restano gli altri.

Non si potrebbe tuttavia affermare che la «coscienza di crisi» si esaurisca qui; è sintomo di crisi di contenuti, così come lo è, più ristrettamente, di contenenti, di problemi di formazione sintattica. Sarebbe troppo semplicistico negare che il «corpus» linguistico, così come noi lo possediamo oggi, sia il deposito di una tradizione eminentemente «borghese» (e come potrebbe essere diversamente?); ed è pure vero che la nostra poesia, la nostra narrativa non parlano al «popolo». Ma cos’è, oggi, codesto «popolo»? Sino a quale punto si può ancora parlare di «espressioni tipiche di classi», specie da Roma in su? (discorrere di ciò anche in relazione agli analfabeti del Sud non avrebbe evidentemente alcun senso: il «problema di base» è diverso e più grave). In che cosa differisce oggi l’«intelligenza», l’apertura mentale di un operaio dalla « cultura » di un borghese di Milano?

Sarebbe troppo semplicistico negare che il «corpus» linguistico, così come noi lo possediamo oggi, sia il deposito di una tradizione eminentemente «borghese» (e come potrebbe essere diversamente?); ed è pure vero che la nostra poesia, la nostra narrativa non parlano al «popolo». Ma cos’è, oggi, codesto «popolo»? […] In che cosa differisce oggi l’«intelligenza», l’apertura mentale di un operaio dalla « cultura » di un borghese di Milano?

Essi sono oggi abbastanza similmente intelligenti e colti oppure ignoranti e ottusi, aperti o chiusi alla vita dello spirito. Se le trasformazioni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi hanno un significato, quanto all’aspetto che ora ci interessa, è questo: che vi è un livellamento generale e che, almeno per ora (da noi come altrove, se questo può servire da consolazione), esso appare piuttosto basso. Parlare di una cultura di classi ha oggi meno senso di quanto ne aveva una decina di anni fa e speriamo che ne abbia sempre meno nel futuro; ciò che la critica marxista rilevava a tale proposito era abbastanza fondato ieri; oggi non lo è più tanto; è presumibile che domani lo sarà ancora meno.

Se vi è dunque oggi una «crisi della lingua» di fronte al complesso dei contenuti a cui si vorrebbe dare espressione, pensiamo che la sua motivazione non si iscriva a debito di un divorzio tra cultura e popolo, genericamente, ma piuttosto a carico di una «frattura» specifica tra la nostra letteratura «qualificata» (che, dopo tutto, conserva un livello abbastanza elevato) e la «massa dei consumatori», che a tale livello non può accedere. Di questo fenomeno di frattura si parlò molto, negli anni dal ’45 al ’55: ma neanche esso è nuovo come si vorrebbe far credere. Una «letteratura di consumo» è esistita in tutti i tempi e la pseudo-diffusione dell’istruzione ufficiale serve poco, come sappiamo, a migliorare lo stato culturale. In questa dimensione, vale sul serio solo l’istruzione che ognuno si fa da sé.

Una «letteratura di consumo» è esistita in tutti i tempi e la pseudo-diffusione dell’istruzione ufficiale serve poco, come sappiamo, a migliorare lo stato culturale. In questa dimensione, vale sul serio solo l’istruzione che ognuno si fa da sé

 

A questa verità non deve perciò essere opposta la conclusione polemica – quale lo stato di educazione della gente per ora non giustifica – che «tutti» dovrebbero essere, «illico et immediate», destinatari della cultura nella sua espressione più elevata; e che, se non lo sono, la colpa ne va data agli scrittori, ai poeti, i quali non saprebbero trovare, per un loro ritirarsi in non si sa quali torri eburnee, un «vero contatto» con il pubblico.

Qualche cosa di vero in questo rimprovero forse c’è; che buona parte dei nostri letterati abbiano una certa tendenza di scrivere «en artiste» è vero ed è vero che pochi dei nostri scrittori si inseriscono con piena forza e intelligenza nella passione dei veri problemi della nostra esistenza, attuale, e «italiana»: ma, insomma, il livellamento deve farsi verso l’alto e non verso il basso; e il resto non è che demagogia.

Qualche cosa di vero in questo rimprovero forse c’è; che buona parte dei nostri letterati abbiano una certa tendenza di scrivere «en artiste» è vero ed è vero che pochi dei nostri scrittori si inseriscono con piena forza e intelligenza nella passione dei veri problemi della nostra esistenza, attuale, e «italiana»

Ma con ciò la problematica non è ancora esaurita: rimane il fatto che, da parte dei letterati, si continua a lamentare una «carenza della lingua». Ebbene, sì: la nostra lingua è consumata; lo è come Io sono le lingue di tutte le nazioni «letterate». La lingua appare spesso consumata, specie nei suoi usi civili più comuni. Le parole perdono rapidamente il loro conio. Eppure, le capacità di ripresa sono immanenti e pronte. Sorgono in tutti i paesi, solitamente quando ve n’è più bisogno, poeti e scrittori innovatori i quali possiedono anche il «genio della lingua»: prendono in mano le vecchie parole consunte, ed esse ne escono belle e fresche e lucenti, come se fossero venute nuove nuove dalle dita del Creatore.

Ebbene, sì: la nostra lingua è consumata; lo è come Io sono le lingue di tutte le nazioni «letterate». La lingua appare spesso consumata, specie nei suoi usi civili più comuni. Le parole perdono rapidamente il loro conio. Eppure, le capacità di ripresa sono immanenti e pronte

E poi, gli scrittori attenti usavano una volta tenere il dizionario sul tavolo. Quanti lo fanno oggi? Si è certi di avere scavato sino in fondo? Quanta parte della lamentata carenza va addebitata alla pigrizia o a una – chiediamo venia – ignoranza di fondo? La lingua si evolve giorno per giorno: volerla spingere al di là dei suoi limiti naturali di sviluppo è ingannevole, poiché conviene attenersi ai risultati di un’attività «collettiva»; e poi, i tempi dell’esperimento per l’esperimento sono durati anche troppo. La lingua si piega sempre ai nuovi contenuti. si flette agli imperativi dell’espressione adeguata: la sua freschezza si rifà sotto l’amorevole attenzione dei creatori autentici. È giusto che il creatore non sia mai soddisfatto: ma la crisi della parola – ora più acuta, ora meno –dura in sostanza da quando essa è nata.

Gli scrittori attenti usavano una volta tenere il dizionario sul tavolo. Quanti lo fanno oggi? Si è certi di avere scavato sino in fondo? Quanta parte della lamentata carenza va addebitata alla pigrizia o a una – chiediamo venia – ignoranza di fondo?

 

È vero che urgono nuovi contenuti e che per esprimerli possiamo rivolgerci soltanto allo strumento che ci dato; ma, se nel passato esso si è sempre ritemprato per rispondere alle necessità del proprio tempo, è poco verosimile che non possa soddisfare le esigenze di oggi e di domani. E quindi, se appare giusto che lo scontento, l’irrequietezza, il senso di insufficienza di cui abbiamo parlato si facciano vivi, noi pensiamo che – pur con quelle insufficienze rispetto alle méte ideali di cui ogni scrittore è insieme testimone e vittima – la lingua non potrà non adeguarsi al suo fine di comunicazione umana; tutti gli esperimenti saranno leciti, entro i limiti del gusto, dell’accettabilità, dell’effettiva possibilità di comunicazione: e, visto in una giusta prospettiva storica, il risultato finale porterà ancora e certamente a un ulteriore arricchimento delle facoltà espressive dell’idioma.

 

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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