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Issue 11/2019

Abstract. The term “empathy” is now used all over the world to describe very different concepts. The semantic diversity inscribed in the English word “empathy,” along with the several levels of meaning it implies, allows to use this term, from time to time, to indicate the entire broad range of psychic processes that go from the mere perception of the behavior of others to the understanding of mental mechanisms supporting such behaviors. Some stretch even further, and seek a neurobiophysiological basis for the concept of “empathy,” which, in its indefiniteness, should certainly be treated with great caution and perhaps excised, if not from common vocabulary, at least from the specialized psychological one. In this brief paper we try to provide some insights to avoid dangerous reductionisms, from which theoretical and practical confusion can arise.

 

SUMMARY: 1. About empathy, starting from three articles. ­– 2. Little Giulia and Diana, the great huntress: their teaching. – 3. Empathy, compassion, sympathy. – 4. Empathy, comprehension and the skill to making a good tea.

1. A proposito di empatia, a partire da tre articoli.

Tre articoli recentemente hanno suscitato il nostro interesse. Si tratta di articoli apparentemente distanti fra di loro, anche per le testate sulle quali sono stati pubblicati.

Il primo articolo è comparso sul NY Times. Il 30 marzo 2019 Lori Gottlieb, psicologa, psicoterapeuta (con un basic graduate level degree in terapia familiare, per quanto possiamo capire da una superficiale indagine su Google) e scrittrice americana, ha pubblicato un articolo dal seguente titolo: How Much Should You Know About Your Therapist’s Life?[1]

L’Autrice ha sostenuto che il livello di odierna esposizione, specie attraverso i social media (ma per l’Autrice anche attraverso la scrittura di taluni testi a impronta autobiografica), non compromette certo lo stabilirsi di adeguate relazioni terapeutiche con i pazienti. Scrive l’Autrice: «di tutte le mie credenziali come terapeuta, la più significativa è, per me, la documentata appartenenza alla razza umana»[2]. Lory Gottlieb sostiene che non si sentirebbe affatto infastidita qualora, da paziente, incontrasse la propria terapeuta in un negozio mentre «piange istericamente» per una notizia ricevuta al telefono. Auspichiamo che la terapeuta non rivelerebbe alla paziente che sta piangendo appena dopo avere ricevuto la notizia telefonica, dal suo dottore, che non potrà portare avanti la gravidanza che ha in corso, dopo diversi precedenti aborti spontanei. Passiamo sopra al fatto che un dottore dia una simile notizia al telefono. Ma una psicoterapeuta che se la fa dare mentre è in un luogo pubblico? E soprattutto una psicoterapeuta che, di fronte a una notizia simile, si lascia andare, in pubblico, a un “pianto isterico”?

La proclamata empatia (usiamo noi, provocatoriamente, questa parola) di Lori Gottlieb per la collega che le aveva raccontato questa esperienza personale, sembra contrarre un rapporto con la circostanza che la Gottlieb, prima di diventare psicoterapeuta, aveva scritto dei libri sulla sua infanzia, sulla sua vita romantica, sull’essere una ragazza madre e sulla esperienza parentale. Circostanze che, secondo la Gottlieb (ma anche secondo noi), non sarebbero preclusive della possibilità di essere dei veri psicoterapeuti. A patto che…

Il secondo scritto che vogliamo citare è un editoriale della weekly newsletter di Lancet Psychiatry[3]. Il chief editor Niall Boyce ci racconta di avere partecipato a un incontro con Nick Cave, famoso cantautore che ha perduto un figlio in un tragico incidente. Boyce racconta di essere stato colpito da qualcosa che Nick Cave ha detto: il cantautore, durante il lutto per il figlio, una cosa non l’avrebbe proprio voluta, vale a dire «l’empatia degli altri»[4]. Sarebbe stato insopportabile, per lui, pensare che il suo disagio potesse addirittura causare un disagio analogo in altre persone. L’aveva aiutato, invece, l’altrui «compassione» («compassion»): qualcuno che gli stesse accanto, lo sostenesse e gli facesse un tè. Secondo Boyce questo “coinciderebbe” con quanto osservato da Mary Cregan, in un libro pubblicato nel marzo 2019: The Scar: A Personal History of Depression and Recovery[5]. Mary Cregan, esperta di letteratura e scrittrice, sperimentò anni addietro una depressione dopo aver perso la piccola figlia Anna appena due giorni dopo la nascita. Ella, a partire dalla sua esperienza di malattia, ci dice quali sono le qualità essenziali di un buon terapeuta: «questa persona deve essere esperta e professionale, qualcuno in cui poter riporre una completa fiducia, perché deve mantenervi in vita mentre le onde vi stanno sommergendo. Questa persona deve essere il vostro psichiatra, non il coniuge, non l’amante, non la sorella o il miglior amico – nessuno dei quali sarebbe esposto alla piena forza della vostra disperazione, nessuno dei quali sentirebbe la responsabilità di tenervi in vita. Il vostro psichiatra è profondamente coinvolto nella vostra sopravvivenza, molto più di quanto non lo siate voi stessi, e sa che anche una persona che si trova nella vostra disperata condizione può sopravvivere»[6]. Quale è l’insegnamento che Niall Boyce trae dalla “coincidenza” che ravvede fra le considerazioni di Nick Cave e di Mary Cregan? Secondo lui, a proposito dell’arte di fornire un aiuto, per quanti cambiamenti possano intervenire nella cura della salute mentale, occorre essere certi di ricordare «come si fa il tè»[7].

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Il terzo articolo è costituito dalla intervista rilasciata, su Diritto Penale e Uomo, da Giacomo Rizzolatti, uno degli scopritori dei cosiddetti neuroni specchio[8]. Molti di coloro che ricorrono al concetto di empatia si sono valsi, negli ultimi anni, di richiami – discutibili, a nostro avviso – alle funzioni dei neuroni specchio. Richiami che ci pare vengano legittimati dallo stesso Rizzolatti, il quale, tuttavia, avendo appena pubblicato sull’argomento un libro assieme a un filosofo[9], ci invita a non confondere con la «comprensione» dell’altro (persino di ciò che l’altro sta facendo) quella sorta di «identificazione neuronale speculare» che avviene attraverso la osservazione delle sue azioni. Questo invito a non fare confusione, Rizzolatti ce lo rivolge proprio partendo dalle parole recentemente pronunciate da un abate in un convegno: «l’empatia non esiste»[10]. Rizzolatti, che in un primo momento sembra giustificare l’asserzione dell’abate da un punto di vista “filosofico”[11], nel proseguo dell’intervista muove in tutt’altra direzione. Ci dice infatti che il nazista Adolf Eichmann, che organizzò la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei nei campi di sterminio, non lo fece “comprendendo” il carattere delittuoso (o almeno riprovevole dal punto di vista morale) delle azioni che stava compiendo. Questa mancata “comprensione”, secondo Rizzolatti, va attribuita non tanto al fatto che il rispetto della legge razziale nazista “imponeva” all’ufficiale nazista quella deportazione (lo sterminio sarebbe stato assai più difficoltoso prescriverlo per legge; ma l’umanità ne ha viste anche di peggio), quanto piuttosto al fatto che Eichmann, «che non era una persona cattiva» e appariva anzi un buon padre di famiglia, non era responsabile delle gravissime azioni delittuose che andava compiendo, perché «non considerava [gli ebrei] esseri umani. Il punto di vista di Eichmann era, molto banalmente: “se mi dicono di trasportare legna, o bestiame, io lo faccio; perché non dovrei trasportare anche questi esseri, che sembrano quasi uomini ma di fatto non lo sono?”».

2. La piccola Giulia e Diana la grande cacciatrice: il loro insegnamento.

Partiamo allora dalle parole: esiste l’empatia? È, questa, una parola che noi usiamo di rado e malvolentieri, ma che tuttavia è entrata nel lessico corrente di coloro che si occupano della “comprensione” dei processi psichici. Alla domanda se esiste l’empatia risponderemo semplicemente con un aneddoto tratto dalla nostra esperienza personale. Giulia è la figlia di un collega neurologo, un medico premuroso e, magari, “empatico”. Giulia, quando aveva due anni, rivolse questa domanda al padre che la teneva per mano: «babbo, esiste la speranza?». Il padre, completamente meravigliato dalla domanda che proveniva da quel piccolo d’uomo supposto inconsapevole, guardò Giulia e, con la gentilezza che lo contraddistingue, le domandò a sua volta: «Giulia, ma tu sai [vale a dire: comprendi] cosa è la speranza?». Venne subito dopo trafitto, più che dalla risposta di Giulia, dallo sguardo di degnazione che l’accompagnò: «ma babbo, è una parola!».

Così come la speranza, anche l’empatia, che è una parola, esiste. Altrimenti non ne parleremmo. L’empatia ha qualcosa a che vedere con i neuroni specchio? Anche qui ci viene da rispondere con un aneddoto. Anni addietro Umberto, un nostro caro amico, aveva un socio della sua attività il quale, poiché era anche un rinomato dresseur di cani da penna, gli regalava talora qualche cucciolo figlio dei sui “campioni” di razza bracco kurzhaar. Gli regalava, in genere, il cucciolo che gli pareva più gracile e meno bello. Il cucciolo però, arrivato in casa di Umberto, non solo cresceva tanto bello che avrebbe potuto conquistare il CACIB per la sua razza, ma in genere era anche bravissimo nella caccia. Diana, uno di questi cuccioli, quando era di pochi mesi effettuava già – destando l’ammirazione generale – la cosiddetta “ferma di consenso”. Si tratta di questo. Quando i cani da penna cacciano in gruppo, se uno di loro fiuta una preda volatile, si irrigidisce in una posizione che si chiama “di punta”, volgendo il muso verso la preda. Gli altri cani del gruppo, non appena il primo punta la preda, se sono bravi come lo era Diana, anche se non “sentono” l’animale con il loro olfatto, puntano la preda esattamente come fa il primo: è indubbiamente un comportamento imitativo, che ha luogo in una frazione di secondo. Possiamo ragionevolmente supporre che nella “ferma di consenso” entrino in gioco i neuroni specchio. Il cane che è in ferma di consenso dà l’impressione di provare esattamente le medesime “sensazioni” del compagno che ha puntato per primo. Non sente la preda con l’olfatto, ma è “come se la sentisse”. Abbiamo l’impressione che qualcosa di simile capiti spesso anche agli umani, che si “commuovono” di fronte all’altrui commozione.

Cosa ci insegnano Giulia e Diana? Giulia ci insegna che non ha alcun senso affermare che «l’empatia non esiste». L’empatia esiste nella misura in cui in tutto il mondo, oramai, tale parola descrive concetti molto diversi fra di loro. Empathy, termine inglese con il quale venne tradotto il tedesco einfühlung, rimanda invece, nell’etimo, al greco ἐμπαθεία. Si capisce che questa diversità semantica, con i molteplici livelli di significazione che implica, consente di volta in volta di utilizzare questo termine per indicare tutta l’ampia gamma di processi psichici che vanno dalla mera percezione del comportamento altrui alla comprensione dei meccanismi mentali che tali comportamenti sostengono. Per questo, essendo così enormemente dilatato il grado di significazione del termine, potrebbe avere un senso affermare che «l’empatia non esiste». Anzi, qualora il termine empatia continuasse ad essere utilizzato per il pochissimo e il moltissimo, sarebbe meglio espungerlo dal vocabolario di chi intende proficuamente occuparsi della “comprensione” dei processi psichici (proficuamente per coloro cui tali processi psichici appartengono, in particolare per i pazienti). Eppure la parola empatia continua allegramente ad essere utilizzata, anche da sedicenti esperti della mente, per descrivere sia la “ferma di consenso” che la “comprensione” delle emozioni/passioni e dei pensieri degli individui.

Essendo così enormemente dilatato il grado di significazione del termine, potrebbe avere un senso affermare che «l’empatia non esiste». Anzi, qualora il termine empatia continuasse ad essere utilizzato per il pochissimo e il moltissimo, sarebbe meglio espungerlo dal vocabolario di chi intende proficuamente occuparsi della “comprensione” dei processi psichici

3. Empatia, compassione, simpatia.

Da molti anni ci occupiamo della comprensione e della terapia di persone con disturbi mentali. Una parte consistente della nostra attività, clinica e speculativa, è stata dedicata alla comprensione dei comportamenti trasgressivi e criminali, in particolare di quelle forme di trasgressione patologica che uno di noi definì, ormai molti anni addietro, come «malattia trasgressiva»[12]. Avendo entrambi lavorato per decenni all’interno dei luoghi di pena, occupandoci non raramente persino della cura di detenuti condannati per gravissimi delitti e ritenuti “pericolosi criminali” (appartenenti magari ad associazioni malavitose), possiamo affermare senza tema di essere smentiti che le radici inconsce delle “scelte” delittuose, anche e soprattutto di quelle più radicali, affondano nel terreno paludoso di un disagio psichico profondo, un disagio che è rivelato da quelle “scelte” proprio mentre cercano in ogni modo di occultarlo. Anche e soprattutto per la malattia trasgressiva vale quello che Lacan afferma e che non può certo essere smentito: «gli effetti di cui [la psicologia freudiana] scopriva il senso, li ha arditamente designati con il sentimento che ad essi corrisponde nel vissuto: la colpevolezza»[13]. Se questo confronto radicale con la colpevolezza vale per tutte le turbe psichiche, vale a maggior ragione per coloro che sono affetti dalla malattia trasgressiva, non pochi dei quali si rivelano delinquenti per senso di colpa[14]. È dunque a nostro avviso vero –incontrovertibilmente vero – che non pochi di coloro che abitano le patrie galere andrebbero curati durante il periodo in cui li si custodisce, anche per abbreviare il periodo della loro custodia attraverso lo sforzo di comprendere le ragioni della loro trasgressione. Era questo – studiare l’uomo delinquente in quanto tale – l’invito che rivolgeva Lombroso al consesso scientifico centocinquant’anni or sono, utilizzando i rudimentali mezzi scientifico/positivistici di cui allora si disponeva e di cui è persino ridicolo farsi beffa. In questo modo, comprendendo e curando la malattia trasgressiva, per buona parte dei trasgressori patologici il carcere diverrebbe “inutile”[15].

Partiamo allora dalla indispensabile cura di coloro che sono affetti dalla malattia trasgressiva. Una malattia che, come abbiamo detto, non è possibile circoscrivere allo sparuto numero dei mentally ill offenders riconosciuti incapaci e pericolosi nell’ambito del processo. Il numero dei reclusi nelle carceri ordinarie che risultano affetti da gravi e documentate turbe psichiche è impressionante e oramai documentato da tutte le ricerche internazionali. Domandiamoci allora: se questi uomini, reclusi perché pericolosi autori di reati, devono essere curati per le turbe psichiche che li affliggono, è opportuno oppure no che trovino dei terapeuti in grado di farlo, in grado di stabilire persino con loro quel rapporto di “empatia” (se esiste!) che oramai tutti, nel mondo western, dicono che sia indispensabile al rapporto terapeuta-paziente ai fini della cura?  Non sarà facile però per nessuno, nemmeno per uno psicoterapeuta consumato, ammettere una “facile empatia” per un delinquente, specie se si tratta di un brutale assassino, di uno stupratore, di un serial killer alla Anders Breivik. “Ammettere”, dicevamo: ammetterlo anche a sé stesso, sebbene occorra tenere conto che, dopo Freud, non possiamo non sottoscrivere l’acutissima affermazione di Robert Musil: «se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger»[16].

Vorremmo dunque tornare all’etimo delle parole, per cercare di capire qualcosa di più di empatia. Lo faremo a partire da un altro aneddoto, questa volta carcerario. Un detenuto “di grosso calibro”, molti anni or sono, così commentava l’atteggiamento compassionevole col quale gli si era avvicinata una signora appartenente a una associazione di volontariato penitenziario: «la compassione: manco li cani!». Al contrario di Nick Cave, che colpito dalla morte del figlio gradiva (secondo Niall Boyce) la compassione ma non l’empatia degli altri, i detenuti, che sono obiettivamente in una condizione di pena (di sicuro oggettiva, esterna; talora persino interiore) ma che non amano sentirsi da meno degli altri, spesso non gradiscono davvero essere compatiti. Molti delinquenti, invece, gradiscono senza dubbio l’altrui simpatia. Eppure, al di là dell’origine dei termini, latina in con-passione e greca in sin-patia, le due parole sono identiche nell’etimo ma molto distanti nel significato che hanno assunto nella lingua italiana. La compassione la si prova in genere per coloro che supponiamo essere in preda a una sofferenza (a una pena), mentre la simpatia presuppone un certo grado di benevola identificazione con l’altro. Per taluni delinquenti, in genere, la gente prova una immediata simpatia: per Cary Grant in Caccia al ladro, per Robert De Niro nel Padrino, per George Clooney in Ocean’s Eleven. Per altri delinquenti, benché si tratti di pellicole e di generi fra i più gettonati, è assai più difficile provare simpatia: si pensi, come esempio paradigmatico, ad Anthony Hopkins-Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti (anche se una certa simpatia la gente in genere la prova quando lo psichiatra cinico, ma abile e intelligente, si appresta a cannibalizzare lo psichiatra incapace, stolto e supponente).

I detenuti, che sono obiettivamente in una condizione di pena […] ma che non amano sentirsi da meno degli altri, spesso non gradiscono davvero essere compatiti. Molti delinquenti, invece, gradiscono senza dubbio l’altrui simpatia. Eppure, al di là dell’origine dei termini, latina in con-passione e greca in sin-patia, le due parole sono identiche nell’etimo ma molto distanti nel significato

4. L’empatia, la comprensione e la capacità di fare un buon tè.

Siamo contenti, in verità, di essere psichiatri. Siamo contenti di esserlo stati e di esserlo in un’epoca nella quale, almeno dalle nostre parti, l’Electronic Medical Record[17] e la Artificial Intelligence non sono tanto diffuse da precludere del tutto la “empatia” del rapporto medico-paziente[18]. Siamo anche contenti di essere cresciuti a una scuola (quella di Freud e di Lacan) nella quale abbiamo imparato a non sovrapporre con superficialità livelli epistemologici distanti anni luce. Questa sovrapposizione non aiuta in alcun modo la comprensione. Noi parliamo qui della comprensione dei processi psichici, la riduzione dei quali alla componente neurologica è, per adesso, del tutto fuorviante e pericolosa. La “ferma di consenso” del bracco Diana, per quanto possa fornirci qualche vaga indicazione persino sugli istinti animali, per quanto possa trovare una relazione (nella scala degli eventi biologici da cui origina) con i neuroni specchio, non ci aiuta in alcun modo nella comprensione del “fermo di consenso” col quale lo spietato Adolph Eichmann avviò alla “soluzione finale” centinaia di migliaia di ebrei. E la avviò senza provare per queste persone alcuna compassione, non perché secondo lui erano come legna da ardere, ma semplicemente perché, secondo un sistema perverso e cinico, quelle erano proprio persone da ardere. Altro che mancanza di empatia: si trattava piuttosto, per Eichmann, di assecondare in modo perverso (perché legalmente giustificato dalle leggi di un branco al seguito di un pifferaio truce e ridicolmente malato) l’affermarsi del Moosbrugger che c’è al fondo di ogni uomo. Eccola, “l’assoluta banalità del male”. Qualcuno che di trasgressione e di pena se ne intendeva, Edward Bunker, ci ha rammentato puntualmente, a proposito dell’uomo, che No beast so fierce[19]. Al fondo di ogni “empatia” con l’altro, non può che collocarsi questo riconoscimento speculare della feroce essenza dell’uomo. Ecco, forse, perché Nick Cave avvertiva come sgradevole l’empatia (e forse persino la compassione) degli altri e nel lutto preferiva, vicino a lui, qualcuno che gli facesse un tè.

Al fondo di ogni “empatia” con l’altro, non può che collocarsi questo riconoscimento speculare della feroce essenza dell’uomo

C’è allora da chiedersi se Mary Creegan, letterata e scrittrice, ci insegni qualcosa in più a proposito della “empatia”, della comprensione e delle qualità di un buon terapeuta. La Creegan, a nostro parere, segnala davvero qualcosa di molto utile. Noi riteniamo che ella ci riassuma egregiamente l’insegnamento congiunto di Georg Groddeck e di Sándor Ferenczi. A proposito di Groddeck occorre rammentare quale fosse, secondo lui, «[…] la qualità essenziale del medico: una tendenza alla crudeltà repressa giusto quel tanto che le permetta di diventare utile, e dominata dall’angoscia di fare del male»[20]. Secondo Ferenczi, poi, può condurre utilmente a compimento la cura solo il terapeuta che «abbia appreso a sufficienza dai propri “sbagli ed errori” e sia riuscito a padroneggiare i “punti deboli della sua stessa personalità”»[21]. È con ogni evidenza un terapeuta di questo tipo che Mary Creegan pensa possa essere utile a persone che, come è capitato a lei, attraversano pericolosi momenti di grave difficoltà psichica. Un terapeuta preparato, paziente e pronto comprendere, a partire dalle sue debolezze superate, le debolezze altrui. E che sia responsabile, vale a dire che sia pronto a rispondere di quel che fa col suo paziente che soffre e che è in una condizione di pericolo. Altro che sperimentare una “empatia” di consenso, altro che preparare un tè, persino un buon tè!

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[1] L’articolo è disponibile a questo link.

[2] «Of all my credentials as a therapist, my most significant is that I’m a card-carrying member of the human race» (traduzione a cura degli Autori).

[3] N. Boyce, Message from the Editor, in Lancet Psychiatry, newsletter del 27 Giugno 2019.

[4]Ibidem.

[5] M. Cregan, The Scar: A Personal History of Depression and Recovery, W.W. Norton & Company, 2019.

[6] Il passo del libro di M. Cregan è riportato nell’Editoriale citato di N. Boyce (traduzione a cura degli Autori).

[7] N. Boyce, Message from the Editor, cit.

[8] S. Arcieri, Intervista a Giacomo Rizzolatti, in questa rivista, 29 maggio 2019.

[9] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Raffaello Cortina, 2019.

[10] S. Arcieri, Intervista, cit., p. 2.

[11] Ibidem.

[12] G. Brandi, Falsi forti e nuovi cattivi: gli angeli ribelli del duemila […], ne Il reo e il folle, n. 8, 1998, pp. 123 ss.

[13] J. Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia (1950), in Ecrits, trad. it. Scritti, Vol. I, Einaudi, p. 123.

[14] Cfr. S. Freud, Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, (1916), in Opere, Bollati Boringhieri Editore, Vol. 8, 1976, pp. 625 ss.

[15] Curiosa contraddizione: fra i detrattori e gli schernitori di Cesare Lombroso vi sono soprattutto i più agguerriti sostenitori del movimento “No Prison”.

[16] R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1974, p. 71. Moorsbrugger era, nel romanzo, un assassino “seriale” e patologico di prostitute.

[17] I sistemi più avanzati di Electronic Medical Record (Cartella Clinica Elettronica) non solo registrano i dati clinici dei pazienti, ma attraverso sofisticati algoritmi generano alert e consentono, a partire dai dati inseriti, di prospettare ipotesi diagnostiche e, quindi, strategie terapeutiche.

[18] Usiamo qui intenzionalmente il termine empatia, con riferimento a un apprezzabile articolo comparso di recente: D. Ofri, Empathy in the age of the electronic medical record, in The Lancet, Vol. 394, Issue 10201, pp. 822-823.

[19] Il riferimento è a E. Bunker, No Beast so Feirce (1973), trad. ital. Come una bestia feroce, Einaudi Torino 2001.

[20] G. Groddeck, Das Buch vom Es, 1923; trad. it. Il libro dell’Es, Adelphi, 1966 (la nostra citazione è tratta dall’edizione Bompiani, 1987, p. 5).

[21] Sono queste le parole con cui l’ultimo Freud rende un tardivo tributo a Sándor Ferenczi. S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere, Vol. 11, Bollati Boringhieri Editore, 1979, p. 530. Nello scritto Freud cita Il problema del termine delle analisi, una comunicazione tenuta da Sándor Ferenczi al Congresso di Psicoanalisi di Innsbruck del 1927 e pubblicata l’anno dopo.

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