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07.10.2020
Luca Santa Maria

Killer fiber, a silent state massacre that has remained unpunished to this day

The fable of criminal law to safeguard the life, health and safety of the worker

Issue 10/2020

Article originally published in Il Fatto Quotidiano, July 9, 2020, in the weekly column “Giustizia di Fatto“, by Antonio Massari.

We thank the Editor of Il Fatto Quotidiano for their kind permission.

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Quali sono i valori primordiali, rectius i beni giuridici, per la cui difesa gli uomini hanno stretto tra loro il contratto sociale su cui la società umana si fonda e che tocca al diritto penale difendere?

La vita?

Viviamo nella società del rischio, secondo la celeberrima metafora di Ulrich Beck.

Nella società del rischio, l’omicidio per colpa è molto più frequente – e quindi molto più dannoso – dell’omicidio volontario, che invece dominava la fenomenologia patologica della società premoderna e moderna e, infatti, segno dei tempi che cambiano, mentre il secondo decresce vistosamente, si deve credere che il primo cresca e si diffonda a macchia d’olio come un virus nella società.

Andate però a vedere le statistiche dei delitti per cui, fino a qualche settimana fa, c’erano 61.000 uomini e donne detenuti in carcere. I detenuti per omicidio colposo sono pochi in assoluto e anzi sono talmente pochi che neppure è parso necessario suddividerli in sotto classi – la morte per colpa è una materia amplissima per il diritto penale, va dalla medicina sedicente colposa al pirata della strada – e quindi non è possibile sapere, tra i pochi, quanti sono i pochissimi datori di lavoro condannati e detenuti (sempre che ve ne siano, beninteso) per la morte di un lavoratore.

Quali sono i valori primordiali, rectius i beni giuridici, per la cui difesa gli uomini hanno stretto tra loro il contratto sociale su cui la società umana si fonda e che tocca al diritto penale difendere?

Non è vero che per il diritto penale la vita è un valore senza prezzo, un valore che sempre e comunque prevale su qualunque altro diritto, o almeno non è vero nel diritto penale di una società capitalista, e chi dice l’opposto fa spesso più retorica che altro.

Non è nemmeno vero che quando sia in gioco la vita umana nessun rischio sia lecito.

Che io sappia, il problema della tutela penale del lavoro entra realmente nel diritto penale assai tardi, forse con il libro di Guariniello, Se il lavoro uccide (R. Guariniello, Se il lavoro uccide. Riflessioni di un magistrato, Einaudi, 1985).

La vita ha il prezzo che la società – con o senza il diritto penale – a essa assegna, e a quanto ammonti il prezzo è materia che decide chi può decidere, e il prezzo varia col variare del tempo.

La vita di un operaio morto sul lavoro non valeva quasi nulla per il diritto penale nei tempi in cui il codice penale fascista nasceva e cresceva, e ha continuato a valer poco anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che pure tutela il lavoro e la salute.

La vita del lavoratore, quando la sua tutela entra in conflitto (e il conflitto è realmente significativo) con altri valori, quali sono gli interessi dell’impresa, cioè il profitto, tende a cedere il passo al più forte, e anche oggi quella vita forse vale poco o molto meno di quanto la retorica imperante lascia credere.

Non è vero che per il diritto penale la vita è un valore senza prezzo, un valore che sempre e comunque prevale su qualunque altro diritto, o almeno non è vero nel diritto penale di una società capitalista, e chi dice l’opposto fa spesso più retorica che altro

Il Capitalismo industriale ha commesso «peccati originali di rapina» – l’espressione è di Hannah Arendt che come si sa non era marxista (D. Sassoon, Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, Garzanti, 2019) – apparentemente assai gravi.

Forse era inevitabile, forse no.

Quel che è certo è che la cultura giuridica – tutta imperniata sul mito della legge che altro non è se non la volontà del più forte – non se n’è accorta, e ha lasciato che le cose andassero come andavano.

Non può quindi vantare pretese di innocenza.

Una cultura giuridica realmente rinnovata e all’altezza dei tempi dovrebbe cominciare a riflettere sui temi trattati dal prof. Paolo Grossi, massimo storico del diritto in Italia, ed ex Presidente della Corte Costituzionale, nel suo ultimo libro dal titolo Oltre la legalità che significa solo prender atto che la realtà del giuridico è assai più complessa di quanto i giuristi vorrebbero far credere.

È un discorso duro e difficile ma ineludibile.

Il rischio zero non esiste perché dire rischio e dire zero è pronunciare un ossimoro.

Il rischio è una probabilità – o meglio un rapporto tra probabilità – e non è mai zero, altrimenti non sarebbe probabilità ma semplicemente impossibilità logica e ontologica: ciò che è empiricamente possibile perché non è impossibile è anche probabile, più o meno probabile.

La distinzione che conta è un’altra.

C’è un rischio – cioè la misura di una probabilità – accettabile e un rischio non accettabile.

Il sociologo Ulrich Beck, in un altro libro, meno famoso, intitolato Condicio humana, ha scritto che i rapporti per la definizione delle misure del rischio accettabile nella società post moderna sono l’omologo dei conflitti per la definizione dei rapporti economici di produzione nella società della modernità industriale.

Conflitti di classe post moderni. La domanda da fare allora è come sono regolati dalla legge questi conflitti immanenti alla società.

Nel lessico della lingua giuridica legislativa del diritto penale la parola “rischio” è un ospite indesiderato: si fa finta che non ci sia ed è ben chiaro che sia così perché la parola “rischio” porta con sé problemi, primo tra tutti quello della definizione della sua “accettabilità”, problema come nessun altro intimamente “giuridico” ma impossibile da addomesticare senza l’ausilio di saperi e culture – scientifiche e sociali – molto più complesse di quelle cui il “giuridico” si è abituato e di cui è fatto il suo obsoleto linguaggio.

La scienza del rischio è una cultura che in Italia non è nemmeno nata ancora.

Nel lessico della lingua giuridica legislativa del diritto penale la parola “rischio” è un ospite indesiderato […], perché la parola “rischio” porta con sé problemi, primo tra tutti quello della definizione della sua “accettabilità”, problema […] impossibile da addomesticare senza l’ausilio di saperi e culture – scientifiche e sociali – molto più complesse di quelle cui il “giuridico” si è abituato e di cui è fatto il suo obsoleto linguaggio

Chi decide che cosa è rischio accettabile e che cosa no nel nostro sistema giuridico?

Lo Stato, con la Legge?

No, o almeno non sempre.

Sebbene di rado i giuristi ne parlino, nel nostro sistema giuridico – almeno nei settori chiave della tutela della salute e della sicurezza del lavoro e dell’inquinamento – è l’imprenditore che decide quale rischio gli pare di dover far correre ai lavoratori e alla comunità per effetto dell’attività d’impresa di cui raccoglie il profitto.

Lo Stato talvolta vigila, come, in materia di inquinamento, nelle Conferenze dei Servizi dove approva l’analisi del rischio con la definizione delle CSR, cioè il rischio accettabile per la salute e l’ambiente, che è stata fatta… dall’inquinatore e abbiamo già visto quanto poco e quanto poco bene vigili: le Conferenze dei Servizi spesso e volentieri sono cantieri dove l’inquinamento non si risana e cresce altro inquinamento, spesso corruttivo o quasi corruttivo.

Talvolta lo Stato fa meno ancora, come quando di regola nemmeno è informato della valutazione dei rischi che possono correre i lavoratori sul luogo di lavoro che è stata fatta dal… Datore di Lavoro.

Che l’abdicazione dello Stato e della legge sia o no una buona cosa è o dovrebbe essere materia di riflessione.

L’imprenditore ha la non resistibile tentazione di burocratizzare ambiente e sicurezza e la cultura che ha intorno lo asseconda, perché spesso troppo facilmente ci si tranquillizza con la falsa illusione consentita dai reticoli di norme burocratiche spesso illeggibili e inapplicabili che spuntano come funghi e che celano solo il complessivo vacuum della cultura vera dell’ambiente e della salute e della sicurezza nella società contemporanea.

Sebbene di rado i giuristi ne parlino, nel nostro sistema giuridico […], è l’imprenditore che decide quale rischio gli pare di dover far correre ai lavoratori e alla comunità per effetto dell’attività d’impresa di cui raccoglie il profitto […]. Che l’abdicazione dello Stato e della legge sia o no una buona cosa è o dovrebbe essere materia di riflessione

Chi abbia pratica di come i datori di lavori spesso fanno le loro analisi dei rischi, sa come da prassi, nell’affidare la commessa al consulente terzo, spesso una società di dubbissima levatura nata tra le molte per soddisfare la crescita della nuova domanda pseudo giuridica sul mercato, privilegia il consulente che garantisce il minor costo rispetto alla reale qualità del documento.

Da un lato nessuna legge e dall’altro troppa legge.

I rischi allora restano lì dove evidentemente debbono stare.

Noi penalisti però non ci riflettiamo perché non la vediamo come la vede Beck, e difatti usiamo con molta parsimonia una parola difficile e semanticamente sfaccettata come “rischio” che è per definizione una finestra aperta sulla società e sulle tensioni che sommuovono la società.

Il giurista penale ammaestrato nella sua cultura secolare non apre di regola finestre sulla società ma se ne sta ben chiuso nella sua torretta d’avorio.

Noi penalisti usiamo altre parole, non “rischio”, e sosteniamo che queste nostre vecchissime parole – causalità, pericolo e colpa con gli alambicchi concettuali che proveremo qui a disvelare – siano davvero quel che promettono, cioè regole di responsabilità imparziali oggettive ed eguali per tutti, saggiamente amministrate dai Giudici con il solerte aiuto dei Dottori, ma non è vero.

È la grande illusione del diritto penale, quella che altrove ho chiamato l’ipocrisia collettiva di cui i giuristi sono i custodi.

Come funziona davvero il diritto?

È un gioco in cui si finge che la politica, coi suoi conflitti, sia stata incapsulata nel secondo, cioè appunto neutralizzata, dentro la cornice di concetti definiti appunto giuridici cioè muniti di pretese di autonomia e imparzialità addirittura scientifica.

Noi penalisti usiamo altre parole, non “rischio”, e sosteniamo che queste nostre vecchissime parole – causalità, pericolo e colpa con gli alambicchi concettuali che proveremo qui a disvelare – siano davvero quel che promettono, cioè regole di responsabilità imparziali oggettive ed eguali per tutti

Causa, pericolo e colpa. Non rischio.

Se hai causato con colpa la morte di una persona, sarai punito, che tu sia debole o forte poco conta.

Non è mai stato vero che quelle parole costituissero un diritto penale oggettivo, ma oggi è meno vero più ancora di ieri.

Quelle parole un tempo, quando riflettevano fatti della realtà ed erano coerenti con il sapere di sfondo della cultura umana, servivano a garantire la credibilità della funzione del diritto, cioè il fenomeno che da Solone in poi chiamiamo isonomia, cioè la sedicente eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

È sempre stato comunque un gioco ideologico perché quelle parole – causa pericolo colpa, ma lo stesso vale per tutte le parole delle regole della responsabilità – non erano mai quel che apparivano o erano fatte apparire, e occultavano da sempre alla vista la politica, cioè i reali rapporti di forza che vigono in qualunque società e in qualunque tempo e che per forza di cose condizionano i contenuti delle reali regole di responsabilità, ma almeno, prima, il gioco pareva credibile.

Ora che quelle parole sono quel che resta di una ontologia e di una epistemologia desueta e arcaica, che porta sulle spalle il peso di secoli di colta (e talvolta meno colta) elaborazione, ora che la società è divenuta troppo più complessa di prima, di quanto sia mai stata in passato, esse non servono più, risuonano vuote di significato, sono troppo semplici per governare i fenomeni che in essa accadono: la cornice del giuridico si è rotta in mille pezzi e il politico, con tutta la sua carica eversiva dell’ordine che il diritto dovrebbe garantire, è venuto fuori a occupare tutta la scena.

Oggi la funzione del diritto è sempre più una finzione con l’aggravante che non la si può più nascondere come prima.

Forse la legge è eguale per tutti, ma di certo la giustizia no.

Questa è la crisi culturale del diritto contemporaneo, che, inevitabilmente, si porta dietro la crisi morale che è sotto gli occhi di tutti.

Ora che quelle parole sono quel che resta di una ontologia e di una epistemologia desueta e arcaica […], ora che la società è divenuta troppo più complessa di prima, di quanto sia mai stata in passato, esse non servono più, risuonano vuote di significato, sono troppo semplici per governare i fenomeni che in essa accadono

La strage silenziosa dell’amianto

Parlare di diritto penale e amianto è, allora, altamente istruttivo di come realmente funzioni il diritto penale oggi.

Il d.c.m. 308/2002 ha istituito presso l’INAIL il Registro nazionale dei mesoteliomi ReNaM e a settembre 2018 è stato pubblicato il sesto rapporto ReNaM che analizza i dati diagnostici compresi tra il 1993 e il 31 dicembre 2015.

In tale periodo 1993-2015, i casi di mesotelioma con diagnosi “certa”, “probabile” e “possibile” sono 27.356, di cui 25.450, pari al 93%, sono casi di mesotelioma pleurico (e nell’80% dei casi la diagnosi è “certa”).

Nel rapporto si legge inoltre: «L’Italia è attualmente uno dei paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto-correlate. Tale condizione è la conseguenza di utilizzi dell’amianto che sono quantificabili a partire dal dato di 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo prodotto nazionalmente nel periodo dal 1945 al 1992 e 1.900.885 tonnellate di amianto grezzo importato nella stessa finestra temporale».

Poiché il registro ReNaM è stato istituito solo nel 2002, andare indietro nel tempo per stimare il numero dei morti per mesotelioma pleurico, è impresa ardua.

I dati, pochi e grezzi e non per caso, non sempre coincidono.

Quelli raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità nel rapporto Istisan 00/9 mostrano che, tra il 1988 e 1994, si sono registrati 6.201 decessi a causa di tumore maligno della pleura.

Pur con una stima all’ingrosso, non è quindi troppo azzardato dire che dal 1988 al 2015 si sono verificati in Italia più di 30000 morti per mesotelioma della pleura.

L’ordine di grandezza è confermato dalle stime elaborate dall’Organizzazione Mondiale della sanità (WHO) citate negli “Atti della II Conferenza governativa sull’amianto e le patologie asbesto-correlate Venezia, Fondazione Cini, 22-24 novembre 2012” e da studi autorevoli dell’Istisan.

Pur con una stima all’ingrosso, non è quindi troppo azzardato dire che dal 1988 al 2015 si sono verificati in Italia più di 30000 morti per mesotelioma della pleura

Poiché l’amianto è stato utilizzato dall’inizio del secolo XX ma in modo più massivo e ubiquitario dopo la fine della seconda guerra mondiale, si pone il problema di stimare il numero dei mesoteliomi della pleura che hanno causato la morte di operai e operaie in quegli anni.

Limitando l’arco temporale al periodo 1948 – 1988, se stimiamo un numero di decessi per mesotelioma pari a 1000 all’anno, il numero globale sale a circa 70000 casi.

Che cosa ci attende nel futuro?

Gli esposti ad amianto continuano a morire e continueranno a morire.

Due studi, del 2019 elaborati dall’Associazione Italiana Onocologia Medica (AIOM) “linee guida mesotelioma pleurico edizione 2019” aggiornato al mese di ottobre 2019; e lo studio elaborato dall’Associazione Italiana Registro dei Tumori (AIRTum) in collaborazione con la stessa AIOM «i numeri del Cancro in Italia 2019» danno stime impressionanti.

Gli studi mostrano che: «dai dati AIRTUM emerge che il Mesotelioma maligno è responsabile del 4% delle morti totali» e che «sono 1.800 i nuovi casi di mesotelioma attesi nel 2019 (1.300 in soggetti di sesso maschile e 500 nei soggetti di sesso femminile, pari a 1% e 0,2% di tutti i tumori incidenti, rispettivamente)»; a fronte di una media, negli anni 2013-2015, di 1.496 mesoteliomi della pleura (1.594 mesoteliomi comprensivi non solo della pleura).

Il picco della mortalità per mesotelioma pleurico da amianto non è ancora arrivato e lo aspettiamo in questa seconda decade del XXI secolo o nella prossima.

Che cosa ci attende nel futuro? Gli esposti ad amianto continuano a morire e continueranno a morire

«Diversi modelli concordano nel prevedere un picco di incidenza del mesotelioma maligno sul territorio nazionale nel periodo compreso tra la seconda e la terza decade degli anni 2000, in relazione all’andamento nel tempo dell’esposizione ad amianto, il cui uso industriale è stato massimo negli anni 70 e fino alla età degli anni 80 e poi è cessato dal 1994».

Si dice peraltro che «le previsioni sull’andamento dell’epidemia di mesotelioma da amianto in Italia sono in corso di revisione sulla base dei dati più recenti di incidenza».

«Per avere un’idea dell’entità del problema dell’amianto basti pensare che nel periodo dal 1945 al 1992 in Italia sono state prodotte 3.748.500 tonnellate di amianto grezzo e 1.900.885 tonnellate sono state importate. L’Italia è uno dei paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto-correlate».

La stima di 70000 casi, quindi, va rivista al rialzo.

In verità è scientificamente assodato che l’amianto non causi solo mesotelioma della pleura. Soprattutto nel passato, quando le esposizioni alle fibre del minerale erano altissime, furono osservati migliaia di casi di asbestosi, malattia dei polmoni, che può essere fatale.

C’è poi un’evidenza epidemiologica di correlazione – più debole di quella relativa al mesotelioma – tra amianto e tumore del polmone, che, come si sa, è la più frequente patologia oncologica che colpisce la popolazione.

I tumori del polmone da amianto restano invisibili perché sono socialmente attribuiti anche ad altre cause (come il fumo) anche se secondo alcuni quelle altre cause sembrano avere effetto causale sinergico con l’esposizione ad amianto.

Le stime della mortalità da amianto, allora, facilmente arrivano a numeri quasi apocalittici di fronte ai quali i numeri del Covid impallidiscono.

100.000? 200.000? O anche di più e magari molto di più?

 

(1/Continua)

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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