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29.05.2019
Francesca Tomasello

The State of the Art and Science

Enable personalized convictions while reducing subjectivity: a tablet-based risk assessment of recidivism.

Issue 5/2019

This contribution is an analysis and accompaniment note to the article of P.A. Ormachea, S. Davenport, G. Haarsma, A. Jarman, H. Henderson, D.M. Eagleman, Enabling Individualized Criminal Sentencing While Reducing Subjectivity: A Tablet-Based Assessment of Recidivs Risk, in the American Medical Association Journal of Ethics, Vol. 18, n. 3, 2016, pp. 243 ff., republished in this journal by kind permission grant by the abovementiond American Medical Association Journal of Ethics and by Prof. David Eagleman.

 

To download the article, republished in DPU, click on “open file”.

 

1.

Alcuni dati per iniziare.

Negli Stati Uniti i costi connessi al mantenimento e alla gestione del sistema carcerario sono esorbitanti: secondo una stima al ribasso, infatti, per ogni soggetto detenuto lo stato spende, ogni anno, non meno di 25.500-26.000 dollari.

I tassi di recidiva tra coloro che hanno vissuto l’esperienza carceraria sono, parimenti, assai elevati: più in particolare, è stato documentato che oltre il 62% dei soggetti rilasciati dal carcere vi fa rientro entro i tre anni successivi alla propria liberazione[1].

Di più. Diversi studi hanno messo in luce il carattere potenzialmente criminogeno della carcerazione: secondo i dati raccolti, infatti, se la perdita di opportunità di impiego e la rottura della cerchia sociale che conseguono all’esperienza carceraria sono correlate a un aumento delle probabilità che il soggetto ristretto in carcere torni a delinquere, il rischio di recidiva si riduce, invece, enormemente per gli imputati che hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena[2].

Insomma, agli ingenti esborsi economici – e agli altri costi sociali a lungo termine, per il singolo e per l’intera collettività – che la carcerazione comporta non corrisponde, oggi, alcun tangibile beneficio in termini di rieducazione dei criminali.

Di qui la necessità, agli occhi degli autori, di sviluppare dei metodi di valutazione e misurazione del rischio di recidiva che consentano di fare un miglior uso sia dello strumento del carcere, sia delle limitate risorse sociali a disposizione.

Oltre il 62% dei soggetti rilasciati dal carcere vi fa rientro entro i tre anni successivi alla propria liberazione

2.

Qualche passo in avanti in tale direzione è già stato fatto.

Se per decenni, infatti, in assenza di sistemi formali di valutazione del rischio di recidiva, fondati su dati concreti, l’apparato giudiziario statunitense si è sempre affidato al giudizio (necessariamente soggettivo) di esperti, a partire dai primi anni ’80 diversi ricercatori hanno sperimentato nuovi metodi di risk assessment che prevedono la somministrazione di interviste ai soggetti imputati, e sono volti a ricostruire e a comprendere la relazione esistente tra le caratteristiche personali, i tratti e i comportamenti dei criminali (ad esempio l’età al momento dell’arresto, i precedenti penali, l’ambiente sociale in cui sono inseriti) e la probabilità che gli stessi tornino a delinquere.

Tali studi, in particolare, hanno permesso di sviluppare strutturati modelli di questionari che consentono di attribuire a ogni soggetto intervistato un “punteggio di rischio” variabile a seconda del numero di fattori predittivi della recidiva – di carattere statico (es. precedenti penali), dinamico (es. bisogno di cure e risposta alle stesse) e sociale (es. supporto della famiglia e accesso ai servizi) – emersi nel corso dell’intervista, oggi ampiamente utilizzati dai giudici ai fini dell’identificazione della pena da infliggere ai singoli imputati, nonché della concessione della sospensione condizionale della pena o della liberazione condizionale.

Si tratta di strumenti che, a ben vedere, hanno affinato la capacità degli addetti ai lavori di identificare i fattori di rischio connessi al pericolo di recidivanza[3].

Tuttavia, a detta degli autori, gli stessi risultano affetti da due gravi limiti.

In primo luogo, la raccolta di dati richiede lo svolgimento di lunghe interviste a tu per tu: ciò significa che la possibilità di ricorrere ai descritti modelli di risk assessment è, di fatto, subordinata alla concreta disponibilità di psicologi forensi, non soltanto costosi, ma anche altamente formati.

In secondo luogo, l’intervista non è in grado di fornire una misura obiettiva di alcuni tratti individuali del criminale, come l’impulsività e la propensione all’assunzione di rischi, con la conseguenza che gli psicologi che conducono l’intervista, per poter determinare il rischio di recidiva, devono affidarsi (ancora una volta) ad un’analisi soggettiva delle risposte fornite dall’intervistato alle domande del questionario.

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3.

È possibile, allora, superare questi limiti e raggiungere più proficuamente l’obiettivo inizialmente dichiarato?

Gli studiosi si dicono ottimisti al riguardo: risultati più efficaci potrebbero essere ottenuti, in particolare, sfruttando i progressi della neuroscienza e della psicologia cognitiva.

È proprio in tale direzione che si muove il progetto “Neuroscienza e Diritto” dell’Università di medicina di Baylor, nell’ambito del quale gli autori hanno sviluppato un innovativo strumento di valutazione del rischio di recidiva che ha lo scopo di identificare e soppesare una gamma di tratti individuali ­– di carattere sia cognitivo, sia empatico – propri dei soggetti criminali, quali l’aggressività, l’empatia, la capacità di programmazione, le capacità decisionali, il controllo degli impulsi.

È stato, infatti, dimostrato che alcuni specifici tratti – ad esempio la carenza di empatia, un ridotto controllo degli impulsi e la propensione a reagire con aggressività alle minacce percepite – sono associati all’aumento dei comportamenti criminali.

Risultati più efficaci potrebbero essere ottenuti sfruttando i progressi della neuroscienza e della psicologia cognitiva

Gli studi in materia hanno, peraltro, suggerito la possibilità che questi atteggiamenti costituiscano il risultato di un sottosviluppo delle strutture o delle funzionalità cerebrali, in particolare della corteccia dorsomediale prefrontale, della corteccia insulare anteriore, del lobo caudato e della corteccia orbitofrontale: tutte minorazioni accertabili grazie all’utilizzo delle più moderne tecnologie mediche che consentono una compiuta mappatura del cervello.

Ora, vista l’impossibilità di impiegare su larga scala, perché ancora troppo costosa, tale tecnologia medica, i ricercatori, ai fini dello sviluppo del proprio modello di risk assessment, hanno optato per l’utilizzo di test psicoattitudinali validati che attribuiscono un punteggio alla prestazione dei singoli partecipanti, e li hanno convertiti in coinvolgenti e colorati videogiochi per tablet, che includono diversi task: lo “Stop –Signal Task[4] (per valutare le capacità di autocontrollo); l’Eriksen Flanker Task[5] (per misurare l’attenzione selettiva del soggetto); il “Reading the Mind Through the Eyes Task[6] (per verificare il livello di empatia conoscitiva); il “Point-Subtraction Aggression Paradigm[7] (per misurare il livello di aggressività nelle reazioni soggettive), il “Tower of London Task[8] (per indagare le capacità di pianificazione del singolo) e il “Balloon Analogue Risk Task[9] (per saggiare la propensione del soggetto all’assunzione di rischi).

Attraverso la somministrazione di tale batteria di test, gli studiosi puntano a fornire una migliore comprensione della relazione esistente tra la recidiva e i tratti individuali cognitivi correlati al processo decisionale e ad affinare, di conseguenza, l’attuale capacità di predizione del rischio che un criminale torni a delinquere.

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L’obiettivo ultimo è quello di aprire il sistema giudiziario alla pronuncia di condanne maggiormente individualizzate, fornendo ai giudici gli strumenti necessari per calibrare in maniera più efficace la severità della pena da applicare al singolo imputato, sia per ciò che concerne la scelta della sanzione in concreto da infliggere, sia nell’elezione di eventuali specifici programmi rieducativi.

I vantaggi connessi a tale modello di risk assessment?

Innanzitutto, il ricorso a consolidati test psico-attitudinali garantisce una misura diretta e oggettiva dei tratti del processo decisionale correlati alla recidiva.

In secondo luogo, l’utilizzo di software che attribuiscono in automatico un punteggio ai soggetti partecipanti allo studio consente una raccolta di dati su larga scala: il team di studiosi, ad esempio, si è avvalso di tale strumento per quantificare e comparare i tratti di un gruppo di soggetti in libertà vigilata dell’area di Huston (550 casi) con quelli di un gruppo di individui (150 controlli) della medesima età e razza.

A quanti obiettano, poi, che un simile approccio possa aprire la strada a indagini di natura preventiva, funzionali a impedire la commissione di reati futuri e non, invece, a perseguire crimini già commessi, con il conseguente rischio di condurre alla carcerazione di soggetti innocenti, i ricercatori ribattono che, alla luce delle garanzie offerte dalla Carta dei Diritti, tale scenario deve ritenersi altamente improbabile.

Anzitutto – rilevano gli autori –, il quarto emendamento prevede a chiare lettere che nessuno può essere privato del diritto a essere salvaguardato nella propria «persona, domicilio, corrispondenza e proprietà», senza fondato motivo: ciò significa che, affinché un soggetto possa essere legittimamente incarcerato, servirà la prova di una condotta criminosa a lui imputabile e non sarà sufficiente, invece, una valutazione positiva circa la possibilità che lo stesso commetta reati in futuro.

In aggiunta, il quinto e il sesto emendamento impongono il rispetto di requisiti procedurali ben precisi, incluso il diritto a un processo rapido e pubblico, al fine di privare un individuo della sua vita, libertà o proprietà.

Solo una modifica dei principi fondanti sanciti dalla Carta costituzionale consentirebbe, dunque, di superare le descritte fondamentali protezioni poste a salvaguardia dei singoli.

 

Il sistema giudiziario penale dovrebbe accordare ai singoli criminali un trattamento differenziato in base alle peculiarità che connotano i rispettivi processi decisionali?

4.

A detta degli autori, è ancora troppo presto per stabilire se il progetto riuscirà o meno a produrre i risultati auspicati.

Non lo è, invece, per confrontarsi con la fondamentale questione etica sottesa al nuovo approccio proposto: il sistema giudiziario penale dovrebbe accordare ai singoli criminali un trattamento differenziato in base alle peculiarità che connotano i rispettivi processi decisionali?

La risposta a tale quesito cambia, necessariamente, a seconda della funzione che si ritiene di attribuire alla pena.

Secondo l’orientamento (minoritario) che riconnette alla pena una funzione esclusivamente retributiva, nessuno spazio può riconoscersi in favore di condanne individualizzate, anche ove ciò significhi incrementare i tassi di criminalità: se, infatti, lo scopo precipuo del sistema giudiziario è quello di «amministrare la giustizia e non il trattamento» dei condannati, ammettere condanne “su misura” finirebbe soltanto per confondere il messaggio («occhio per occhio, dente per dente») correlato alla sanzione (p. 3).

D’altra parte, anche in seno all’orientamento (maggioritario) che attribuisce alla pena una funzione preventiva, soltanto coloro che considerano la sanzione uno strumento volto a impedire che il singolo torni a delinquere in futuro – e non, invece, un deterrente per la generalità dei consociati – enfatizzano l’importanza della riabilitazione individuale e ammettono l’utilità di condanne individualizzate.

I ricercatori ritengono, invece, che il quesito meriti una risposta affermativa a prescindere dall’estensione (generale o speciale) della funzione preventiva attribuita alla pena, e che sia assolutamente necessario privilegiare la rieducazione dei singoli attraverso il ricorso a condanne individualizzate, piuttosto che una giustizia retributiva, fine a se stessa.

Del resto, in un sistema come quello attuale in cui la gran parte dei crimini sono commessi da soggetti recidivi, la riabilitazione individuale e la prevenzione generale non possono che avanzare di pari passo: soltanto riducendo il rischio che il singolo criminale torni a delinquere si potrà, infatti, perseguire l’obiettivo di un ridimensionamento della criminalità nel suo complesso, con conseguente beneficio per l’intera collettività.

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5. 

Non è tutto. Gli autori sono convinti che una risposta affermativa al quesito etico formulato si imponga anche per una diversa ragione.

Il sistema giudiziario statunitense, di fatto, modula già le proprie sentenze: lo fa almeno da trent’anni e, per di più, sulla base di criteri meramente soggettivi.

Ai fini della determinazione delle pene da comminare, infatti, i giudici fanno ricorso al “Sentencing Guidelines Manual[10], un apparato di linee guida elaborato nel 1987 dalla United States Sentencing Commission, che individua per ogni reato un ampio e variegato novero di condanne applicabili, in base al grado dell’offesa arrecata e alla storia criminale dell’imputato.

Dapprima considerate obbligatorie e dal 2005 soltanto raccomandate, tali linee guida finiscono, in ogni caso, con l’attribuire piena discrezionalità ai singoli giudici, chiamati a soppesare un’ampia varietà di fattori soggettivi – inclusi la natura e le circostanze del reato, la storia personale e i tratti individuali dell’imputato – per scegliere, tra le molteplici sanzioni astrattamente irrogabili, quella più appropriata.

Ora, il fatto di conferire piena autorità e discrezionalità ai “guardiani” del sistema carcerario, dotati di una rilevante esperienza in materia, potrebbe apparire, in astratto, circostanza da valutarsi positivamente.

E tuttavia – rilevano i ricercatori –, i risultati pratici di tale attribuzione di potere sono tutt’altro che confortanti: diversi studi hanno, infatti, dimostrato che i giudici emettono le sentenze più disparate in relazione alle medesime ipotesi di reato, e, addirittura, che le singole pronunce risultano fortemente condizionate da fattori che nulla hanno a che vedere con il diritto, quali il sesso e la razza dell’imputato, o la filosofia della pena accolta dal giudice (spesso influenzata dal tipo di contesto, urbano o suburbano, in cui quest’ultimo si trova a operare).

I giudici emettono le sentenze più disparate in relazione alle medesime ipotesi di reato, e, addirittura, le singole pronunce risultano fortemente condizionate da fattori che nulla hanno a che vedere con il diritto

Un primo studio, ad esempio, ha documentato che il tasso di carcerazione dei soggetti arrestati per furto varia enormemente a seconda della contea presa in considerazione: si passa dal 26% nella contea di DuPage (Illinois), al 52% nella contea di Erie (Pennsylvania), sino al 75% nella contea di Kalamazoo (Michigan)[11].

Un altro studio – condotto, questa volta, su dodici diversi giudici operanti nell’ambito della medesima contea (Cook) – ha rilevato che i tassi di carcerazione dei soggetti con precedenti penali arrestati per possesso di stupefacenti variano dal 37.5% al 90% e, allo stesso tempo, la durata media delle pene inflitte oscilla tra un minimo di 14.5 mesi e un massimo di 42 mesi[12].

L’esempio forse più significativo dell’influenza esercitata da fattori squisitamente soggettivi sulle decisioni dei giudici è, però, rappresentato da una ricerca condotta nel 2011, volta a saggiare le chance per gli imputati di ottenere la libertà condizionale[13].

Tale studio, in particolare, ha dimostrato l’assoluta ininfluenza della storia criminale del reo e del suo contegno a processo ai fini della determinazione dell’esito favorevole della pronuncia; esito che, invece, è risultato dipendere, in via pressoché esclusiva, dall’orario di assunzione della decisione da parte del giudice.

I dati raccolti hanno, infatti, documentato che la percentuale di pronunce favorevoli emesse prima della pausa pranzo andava via via scemando, dal 65% sino allo 0%, e tornava, invece, bruscamente ad attestarsi intorno al 65% immediatamente dopo la sospensione prandiale.

È, allora, chiaro – dicono gli autori – che il sistema giudiziario attuale apre già le porte a condanne sensibilmente diverse in relazione al medesimo reato.

Non solo. Se si considera che l’assegnazione dei singoli procedimenti ai giudici avviene in maniera del tutto casuale, deve concludersi che oggi è il caso – e non un’analisi obiettiva delle caratteristiche del reo – a giocare un ruolo sproporzionato nella determinazione della pena inflitta al singolo.

Appurato questo, gli studiosi ritengono necessario un deciso cambio di rotta, che consenta di superare le criticità di un sistema giudiziario in evidente cortocircuito.

L’intenzione dichiarata è, dunque, quella di promuovere l’utilizzo del nuovo software, sia in ambito accademico, sia in ambito educativo: in ultima analisi, incoraggiando una politica sociale fondata su basi scientifiche, gli autori coltivano la speranza di ridurre i tassi di incarcerazione e offrire nuovi strumenti di valutazione e controllo dei soggetti criminali, che consentano ai giudici di pronunciare sentenze di condanna, sì differenziate e modulate, ma esclusivamente sulla base di «valutazioni dirette, provate e liberamente accessibili della propensione al crimine di ciascun individuo» (p. 5).

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[1] A.J. Beck, B. Shipley, Recidivism of prisoners released in 1983, Washington, DC: Bureau of Justice Statistics, 1989; M.R. Durose, A.D. Cooper, H.N. Snyder, Recidivism of prisoners released in 30 states in 2005: patterns from 2005 to 2010, Washington, DC: Bureau of Justice Statistics, 2014.

[2] L. Vieraitis, T.V. Kovandzic, T.B. Marvell, The criminogenic effects of imprisonment: evidence from state panel data, 1974-2002, in Criminol Public Policy, 6(3), 2007, pp. 589 ss.; J. Cid, Is imprisonment criminogenic? A comparative study of recidivism rates between prison and suspended prison sanctions, in Eur J Criminol, 6(6), 2009, pp. 459 ss.

[3]  I fattori di rischio individuati dall’ORAS (famoso sistema di risk assessment sviluppato in Ohio), per esempio, hanno mostrato un rapporto di diretta proporzionalità con la recidiva, con indici di correlazione che oscillano, per gli uomini, tra lo 0.30 e lo 0.37 e, per le donne, tra lo 0.30 e lo 0.44.

[4] Stop –Signal Task: test volto a misurare la capacità del singolo soggetto di controllare i propri impulsi. Il soggetto sottoposto al test deve rispondere a uno stimolo esterno, nello specifico, l’immagine di una freccia che punta, alternativamente, a destra o a sinistra. A seconda della direzione indicata di volta in volta dalla freccia, il soggetto deve scegliere se premere il pulsante che tiene nella mano destra o nella mano sinistra. In presenza di un segnale audio, però, l’esaminato deve trattenere l’impulso di rispondere e non deve premere il pulsante corrispondente alla direzione indicata dalla freccia. I risultati ottenuti consentono di misurare gli errori di direzione, la proporzione dei casi in cui il soggetto ha arrestato con successo i propri impulsi, i tempi di reazione ai segnali di avvio e al segnale di stop.

[5] Eriksen Flanker Task: il test, nella sua versione più diffusa, prevede che il soggetto risponda a uno “stimolo bersaglio” (solitamente l’immagine di una freccia che punta, alternativamente, a destra o a sinistra) premendo un bottone con la mano destra o sinistra, a seconda della direzione indicata dallo stimolo. Nella schermata proiettata per l’esecuzione del test, lo stimolo bersaglio occupa la posizione centrale e viene affiancato da altri quattro stimoli (i c.d. flankers o “stimoli disturbo”) indicanti, alternativamente, la stessa risposta direzionale del target (flankers congruenti) o la risposta opposta (flankers incongruenti), che vanno a indebolire e compromettere la capacità del soggetto di elaborare la risposta allo stimolo target. Tale prova ha la funzione di investigare e misurare i processi di elaborazione delle informazioni e l’attenzione selettiva (processo cognitivo della mente che permette di selezionare alcuni stimoli e di ignorarne altri) del partecipante: più in particolare, andando ad attivare la parte della corteccia cerebrale deputata all’elaborazione dei pericoli e dei problemi in cui il soggetto incorre (la corteccia cingolata anteriore), il test consente di valutare la capacità del singolo di sopprimere reazioni inadeguate in un particolare contesto.

[6] Reading the Mind Through the Eyes Task: il test ha la funzione di misurare le capacità di comprensione degli stati emozionali altrui e prevede che il soggetto esamini una serie di fotografie ritraenti il dettaglio degli occhi di diversi volti e, per ognuna di esse, scelga tra le parole che gli vengono suggerite quella che ritiene descrivere al meglio ciò che la persona fotografata sta pensando o provando.

[7] Point-Subtraction Aggression Paradigm (PSAP): il test fornisce una misura del livello di aggressività del soggetto in risposta alle provocazioni subite.
Ogni partecipante ha l’opportunità di guadagnare del denaro in base al numero di punti accumulati in un gioco a computer contro un altro avversario che, in qualsiasi momento, ha la possibilità di sottrargli punti e accumularli in proprio favore.
In particolare, il soggetto esaminato ha a disposizione una tastiera con tre tasti (A, B, e C), ciascuno dei quali corrisponde a una diversa azione: premendo il tasto A per 100 volte consecutive può guadagnare un punto; premendo il tasto B per 10 volte consecutive può sottrarre un punto al proprio avversario, senza però che tale sottrazione (a differenza di quanto avviene a parti invertite) vada a incrementare il proprio punteggio; premendo, infine, il tasto C per 10 volte, può proteggere il proprio conto dalle incursioni dell’avversario per un determinato lasso di tempo.
Il test prevede che il singolo abbia, in tempo reale, una piena cognizione dell’andamento del gioco: sul monitor del pc, infatti, compare un contatore che segnala ogni incremento e decremento del punteggio accumulato.
Ciò che, invece, il soggetto esaminato non sa è che la propria controparte è, in realtà, il programma del computer che, a prescindere dalle selezioni operate dal giocatore, va periodicamente a sottrarre dei punti dal suo conto.
In base alla risposta del soggetto a tali provocazioni esterne, è possibile valutare il suo livello di aggressività. Posto, infatti, che l’opzione che consente di sottrarre punti in danno del proprio avversario (tasto B) non comporta per il giocatore alcun guadagno diretto, la stessa viene considerata espressione della volontà di punire il proprio rivale e, per questo, costituisce un indice primario e una misura affidabile del comportamento aggressivo del soggetto che partecipa al test.

[8] Tower of London Task: test utilizzato per valutare le c.d. “funzioni esecutive” del soggetto, ovverosia i moduli della mente che regolano i processi di pianificazione, controllo e coordinazione del sistema cognitivo e, in particolare, per individuare eventuali deficit nelle capacità di pianificazione. Il soggetto esaminato ha a disposizione una tavola con tre aste verticali, di altezza crescente, capaci di accogliere, rispettivamente, una, due o tre palline. All’inizio del test il software dispone tre palline di diverso colore sulle aste, in un ordine determinato. Compito del paziente è quello di raggiungere il diverso ordine di disposizione delle palline indicatogli dal computer, servendosi del numero di mosse di volta in volta messe a sua disposizione dall’esaminatore.

[9] Balloon Analogue Risk Task: il test fornisce una misura della propensione del soggetto all’assunzione di rischi, attraverso un gioco a computer che saggia la capacità del singolo di bilanciare ricompense e perdite potenziali. Ogni partecipante ha la possibilità di guadagnare del denaro pompando un palloncino che compare sullo schermo del computer, attraverso un click del mouse che determina un progressivo accrescimento delle dimensioni del palloncino e, in contemporanea, un incremento del punteggio accumulato. Il partecipante sa, tuttavia, che, una volta raggiunta la soglia limite stabilita dal software e a lui sconosciuta, il palloncino esploderà e il punteggio accumulato andrà in fumo. Ogni nuovo click, dunque, aumenta il rischio di esplosione del palloncino e, al contempo, la potenziale ricompensa per il soggetto che partecipa al test.
Il fatto che il singolo giochi senza avere contezza dei punti di rottura del palloncino previsti per ciascuna prova consente di testare sia la sua risposta iniziale al test, sia le eventuali modifiche nell’approccio al gioco, conseguenti all’esperienza maturata nelle prove precedenti.

[10] United States Sentencing Commission Guidelines Manual, 2008.

[11] C.C. Spohn, How Do Judges Decide?: The Search for Fairness and Justice in Punishment, Sage Publications, 2008.

[12] K.C. Monahan, L. Steinberg, E. Cauffman, E.P. Mulvey, Trajectories of antisocial behavior and psychosocial maturity from adolescence to young adulthood, in Dev Psychol, 45(6), 2009, pp. 1654 ss.

[13] S. Danziger, J. Levav, L. Avnaim-Pesso, Extraneous factors in judicial decisions, in PNAS, 108(17), 2011, pp. 6889 ss., oggetto della Riflessione di S. Arcieri, La giustizia è ciò che il giudice ha mangiato a colazione?, in questa rivista, 23 aprile 2019.

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