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07.04.2021
Claudio Dalpiaz

Psychotropic substances: uses and abuses

Initial considerations inspired by Drug Use for Grown-Ups by Carl L. Hart

Issue 4/2021

La prima lezione che ricordo sulla potenziale pericolosità delle sostanze e sulla necessità di includere “set & setting[1] nell’equazione implicita indispensabile prima di assumerle riguarda l’acqua di fonte, che in genere dalle mie parti (Trentino) ha una temperatura fra i 3 e gli 8 gradi centigradi. Berne troppa, o troppo velocemente, accaldati da una intensa camminata, può infatti essere fatale per congestione digestiva, ed i miei familiari più anziani ed esperti non hanno mancato di avvisarmi per tempo, trasmettendomi nel corso della mia infanzia la necessaria cautela. Nelle esplorazioni forestali delle Dolomiti di Brenta, capitava poi di imbattersi in funghi meravigliosi, sgargianti, che da 7-8 mila anni vengono consumati in tante parti del mondo nonostante la loro tossicità (o forse proprio in virtù della stessa, visto che sul piano alimentare non sono certo una prelibatezza): si tratta di esemplari della specie Amanita Muscaria[2].

«Qualcuno ne mangia, bollendoli nel latte» mi fu insegnato, «ma per tranquillità è meglio starne alla larga». La Muscaria contiene infatti diversi alcaloidi, tropan-alcaloidi e triptamine (muscimolo, muscazone, atropina, bufotenina, acido ibotenico, etc.) che assunti a certe dosi possono generare una sorta di avvelenamento (sindrome atropinica/panterinica) quasi mai grave, rarissimamente fatale, e pur tuttavia impressionante per le manifestazioni di ebbrezza, agitazione psicomotoria, perdita di coordinamento, ipertermia e talvolta allucinazioni (è cercando l’effetto eccitatorio e psichedelico che il fungo è stato a lungo consumato in contesti religiosi, rituali, in battaglia, etc.).

Psilocybe Semilanceata, un “funghetto” la cui presenza in Trentino fu registrata già nel 1927 da G. Bresadola[3] (come successivamente riportato da G. Samorini)[4], veniva invece derubricato dai miei “istruttori” a quel genere di cose di scarso interesse (nel pragmatismo locale, senza valore alimentare) che «se non si conoscono più che bene, è comunque meglio lasciar perdere». Al tempo, questa etichetta mi bastava, e soprattutto mi convinceva allora come oggi l’idea che sia opportuno conoscere a fondo ciò con cui si ha a che fare.

Anche Ephedra Distachya (pianta cespugliosa) è reperibile in alcune vallate della mia terra di origine, così come Ephedra Major (aka Ephedra Nebrodensis) lo è in parecchie regioni d’Italia: il loro potenziale psicoattivo (stimolante, anoressizzante), benché parecchio inferiore a quello di Ephedra Sinica, è tuttavia sufficiente per attrarre “erboristi della domenica” e per alimentare il numero di tachiaritmie ed altre turbe cardiocircolatorie prese in carico da centri antiveleni o servizi di pronto soccorso; la stessa cosa avviene in seguito al consumo di Datura Stramonium, un infestante che colonizza arenili e terreni incolti grazie al fatto che i suoi semi restano germinativi per oltre trent’anni. Negli ultimi anni anche la Datura è infatti emersa ripetutamente alle cronache per via del moltiplicarsi di episodi di avvelenamento connessi con tentativi maldestri di usarne le proprietà a scopo ricreativo[5]. Popolarmente conosciuta come erba “del diavolo” o “delle streghe” per i suoi effetti allucinogeni, possedendo quantità variabili di alcaloidi, può talvolta (in casi estremi) condurre a rabdomiolisi, epatiti fulminanti, collasso cardiocircolatorio, insufficienza respiratoria[6]. Su quella, non c’è mai stata discussione: il consolidato di storie (e di leggende) che la accompagnavano era ormai maturato nell’interdizione di ogni curiosità.

Male, perché perderne la storia e la familiarità è il preludio di nuove, indesiderate intossicazioni. Fra questi pochi esempi di sostanze psicotrope “non controllabili” – è difficile immaginare una “guerra all’Amanita Muscaria” – ricordo infine la miristicina, principio attivo contenuto nella noce moscata (Myristica fragrans) che sempre più spesso è causa di intossicazioni[7], in alcuni casi anche gravi, talvolta fatali, soprattutto a causa di “mode” ravvivate nei social network sotto forma di “sfide”[8] (Tik Tok, Snapchat, etc., nel complesso sono frequentati dal «90% dei giovani adulti fra i 18-29 anni»)[9].

Giunti a questo punto vi chiederete forse il perché di questo incipit e di questo elenco: semplicemente, per introdurre alcune mie considerazioni suscitate dalla lettura di Drug Use for Grown-Ups. Chasing Liberty in the Land of Fear[10] di C. Hart (docente di neuroscienze e psicologia alla Columbia University) mi è sembrato doveroso definire un quadro di osservazione (un po’ come fece Greenway nel ‘94 con Stairs)[11], e chiarire innanzitutto che non sono le sostanze ad essere dannose, ma l’uso (o l’abuso) che ne viene fatto, fondato sulla conoscenza (o sull’ignoranza) delle loro proprietà e di come la fisiologia e la psicologia umana rispondono ai loro principi attivi venendone in contatto in un contesto specifico. Come diceva bene Zinberg, purtroppo «la nozione che le proprietà farmacologiche di una sostanza, indipendentemente dal (mind)set e dal setting, siano le uniche determinanti dei comportamenti disturbati o violenti, è dura a morire»[12] ed è di importanza capitale che chiunque si interessi a vario titolo della materia, acquisisca consapevolezza chiara di questo semplice concetto.

Vi chiederete forse il perché di questo incipit e di questo elenco: semplicemente, per introdurre alcune mie considerazioni suscitate dalla lettura di Drug Use for Grown-Ups. Chasing Liberty in the Land of Fear di C. Hart […] e chiarire innanzitutto che non sono le sostanze ad essere dannose, ma l’uso (o l’abuso) che ne viene fatto

Dalla metà degli anni ‘90, anno più anno meno, sono impegnato in contesti di cura per le dipendenze patologiche e fin dal bel principio mi sono trovato dapprima a pensare, e solo più tardi, sommessamente comunicare, il concetto “sacrilego” di “educazione all’uso”. Se qualcuno mi aveva efficacemente istruito circa il potenziale dannoso dell’acqua gelida, ed il commercio di alcol, tabacco e caffè erano accompagnati da una crescente consapevolezza circa le modalità più adeguate (o meno dannose) di servirsene, non poteva forse valere lo stesso per ogni sostanza? Sappiamo tutti che questi argomenti hanno avuto ben poca cittadinanza in questi (ormai) 50 anni di «guerra alle droghe» anche fra gli operatori dei servizi di prevenzione e cura, nonostante curiosi paradossi che tanto spesso mi è capitato di riscontrare.

Se qualcuno mi aveva efficacemente istruito circa il potenziale dannoso dell’acqua gelida, ed il commercio di alcol, tabacco e caffè erano accompagnati da una crescente consapevolezza circa le modalità più adeguate (o meno dannose) di servirsene, non poteva forse valere lo stesso per ogni sostanza?

Chi, come me, ha avuto modo di frequentare le conferenze sull’abuso di sostanze, ha infatti avuto modo di osservare con una certa condiscendenza il nervosismo dei luminari in coda per autosomministrarsi la propria dose di una sostanza psicoattiva il cui nome è diventato parte della locuzione standard per definire le fugaci pause dai lavori in corso: i coffee break. Non solo per il caffè (per raggiungere velocemente il quale i grandi tossicologi inventano strategie di scavalcamento della coda), ma anche per la nicotina, vi è una percepita necessità di interrompere seminari, workshop o dibattiti (quelli sulle dipendenze, forse, in special modo).

Nel determinare l’inderogabilità delle pause, caffè e nicotina contano più delle necessità fisiologiche di bere, mangiare, o recarsi alla toilette. Fateci caso, da nessuna parte nelle scalette delle conferenze troverete la scritta “snack break” (che pure, suona bene, no?), oppure “toilet break” (che rimanda a bisogni forse più irrecusabili). Ovunque, impera il “coffee break”, (informalmente, anche la “pausa sigaretta” è ancora diffusa) e mi sembra superfluo infierire sulle ragioni di questa universale convenzione. Se ogni persona è dunque esposta al contatto con droghe di uso comune, legale, a quello con altre reperibili in natura, nonché alla diffusione sul territorio di molte altre sostanze (anche illegali), che cosa si può fare per tutelare al meglio chiunque?

Chi, come me, ha avuto modo di frequentare le conferenze sull’abuso di sostanze, ha infatti avuto modo di osservare con una certa condiscendenza il nervosismo dei luminari in coda per autosomministrarsi la propria dose di una sostanza psicoattiva […]: i coffee break

La cosiddetta «war on drugs» ha prevedibilmente, rovinosamente mancato i propri obiettivi espliciti, favorito il proliferare di «designer drugs», di fatto rivelandosi inequivocabilmente come un fattore ad impatto negativo sulla salute pubblica e sulla sicurezza[13]. Fuori dalle ipocrisie, ci si deve rendere conto del fatto che il malessere delle persone non è causato dall’uso di sostanze, ma pre-esiste, e ne viene eventualmente talvolta alleviato, talvolta aggravato, a seconda di come ad esse ci si rapporta, sulla base di una profonda conoscenza di sé e della sostanza in questione.

Le condizioni socio-economiche di svantaggio, la precarietà lavorativa, i salari insufficienti a garantire un alloggio dignitoso, l’abbandono strutturale in cui versano interi quartieri o aree interne, la cronica insufficienza degli investimenti in materia di educazione, formazione, servizi sociali, culturali, della salute, nonché le crescenti disuguaglianze in termini di opportunità, le disparità di genere, le discriminazioni (di qualunque tipo esse siano), la xenofobia, l’omotransfobia, la corruzione endemica, il “successo” dei disturbi antisociali di personalità, non sono frutto dell’uso o dell’abuso di sostanze. È vero, in troppi casi, il contrario. Troppo spesso, il tema delle droghe viene brandito strumentalmente per non confrontarsi con l’incapacità (o non-volontà) di alleviare le fonti reali del disagio.

Fuori dalle ipocrisie, ci si deve rendere conto del fatto che il malessere delle persone non è causato dall’uso di sostanze, ma pre-esiste, e ne viene eventualmente talvolta alleviato, talvolta aggravato, a seconda di come ad esse ci si rapporta

Carl Hart, che con il suo bestseller del 2013 High price: A Neuroscientist’s Journey of Self-Discovery That Challenges Everything You Know About Drugs and Society[14] aveva efficacemente illustrato (unitamente alla sua crescita personale e professionale) la perniciosità delle politiche proibizioniste e le loro conseguenze anche in termini di discriminazione sociale (e razziale, nello specifico), in Drug Use for Grown-Ups prosegue ed approfondisce la sua opera di demistificazione e de-ideologizzazione del discorso sulle sostanze psicoattive.

Carl Hart, che con il suo bestseller del 2013 High price […] aveva efficacemente illustrato […] la perniciosità delle politiche proibizioniste e le loro conseguenze anche in termini di discriminazione sociale (e razziale, nello specifico), in Drug Use for Grown-Ups prosegue ed approfondisce la sua opera di demistificazione e de-ideologizzazione del discorso sulle sostanze psicoattive

Nel testo, destinato a suscitare feroci controversie, Hart si mette coraggiosamente in gioco come ricercatore (che non teme di criticare senza mediazioni le posizioni politico-moralistiche del NIDA – National Institute on Drug Abuse (agenzia federale USA di ricerca sull’uso di droghe) e come consumatore competente, che ricorre all’uso di sostanze per alleviare momenti di disagio o al fine di perseguire la sua ricerca personale di conoscenza e di felicità. A margine di una recente conversazione già qui pubblicata[15], ricordo Hart dire: «davvero dei funzionari governativi incompetenti in materia possono dire a me, cinquantaquattrenne docente di neuroscienze, esperto di psicofarmacologia, quali sostanze posso assumere e come?».

Bisogna ammettere che il discorso non fa una piega. Ed è chiaro che fra chi ci governa, istruisce, cura, giudica, amministra, fra ristoratori, poliziotti, ostetriche, tassisti, impiegati, ferrotranvieri, dirigenti di aziende pubbliche e private, operatori sociali, giornalisti, etc., ci sono percentuali significative (secondo ricerca scientifica e nella mia personale esperienza di psicoterapeuta) di persone che consumano più o meno saltuariamente sostanze psicoattive (o lo hanno fatto, in periodi determinati della loro vita) senza patirne particolari conseguenze negative.

A margine di una recente conversazione già qui pubblicata, ricordo Hart dire: «davvero dei funzionari governativi incompetenti in materia possono dire a me, cinquantaquattrenne docente di neuroscienze, esperto di psicofarmacologia, quali sostanze posso assumere e come?». Bisogna ammettere che il discorso non fa una piega.

Resta comunque in me una perplessità, forse paternalistica, “genitoriale” (Freud diceva: «il mestiere più difficile è il genitore, il secondo l’insegnante, ed infine il terapeuta», ed io li sto vivendo tutti e tre). La mia irresolutezza riguarda il potenziale di pericolosità di una legalizzazione generalizzata, in assenza di cospicui investimenti in termini di welfare, salute, prevenzione, educazione, informazione, equità, riduzione delle disuguaglianze economiche, di genere, territoriali, e di politiche abitative, del lavoro, etc.

Può una società come la nostra, già gravata dalla ferocia della concorrenzialità individualista e dal “doping esistenziale” vigente (consumo di sostanze per tenere il passo, per gestire lo stress, etc.) così ben descritta da Byung-Chul Han in The Burnout Society[16] sostenere l’impatto di una così grande apertura? Con quale progressività un programma di legalizzazione dovrebbe essere perseguito? Con quali conseguenze da gestire? I circa 17 mila morti per alcol ogni anno in Italia (300 mila in Europa)[17] si ridurrebbero/distribuirebbero, orientandosi ad usi ricreativi di sostanze meno pericolose (come la cannabis), oppure verrebbero moltiplicati dall’aggiungersi di criticità legate ad una estensione della platea dei consumatori?

Può una società come la nostra, già gravata dalla ferocia della concorrenzialità individualista e dal “doping esistenziale” vigente (consumo di sostanze per tenere il passo, per gestire lo stress, etc.) […] sostenere l’impatto di una così grande apertura? Con quale progressività un programma di legalizzazione dovrebbe essere perseguito? Con quali conseguenze da gestire?

Agli oltre 90 mila[18] che muoiono ogni anno in Italia per il fumo di tabacco, ci troveremmo a dover sommare numeri crescenti di patologie oppure di morti per overdose? Nell’occasione, segnalo che il termine “overdose” (sovradosaggio), viene impropriamente usato anche quando i decessi (spesso) sono la conseguenza di policonsumi (più sostanze tossiche contemporaneamente) e che anche i reali sovradosaggi sono spesso il “bitter crop” del proibizionismo, poiché il consumatore è costretto ad acquistare sul mercato illegale sostanze nelle quali il principio attivo non è titolato e di qualità prevedibile[19].

La legalizzazione, se da una parte può risparmiarci i danni del proibizionismo e ridurre le diseguaglianze con cui diversi gruppi sociali subiscono l’impatto delle politiche repressive, d’altro canto rischia di tradursi in una situazione in cui, senza adeguate contromisure in materia di aiuti sociali (educazione, sanità, etc.), saranno gli stessi gruppi portatori di fattori di svantaggio a manifestare forme di uso problematico o patologico. Se consegnato al mercato, l’uso di sostanze verrà promosso dalle lobby industriali di settore che (per loro DNA) tenderanno ad espandere la platea dei consumatori con ogni forma di marketing disponibile.

La legalizzazione, se da una parte può risparmiarci i danni del proibizionismo e ridurre le diseguaglianze con cui diversi gruppi sociali subiscono l’impatto delle politiche repressive, d’altro canto rischia di tradursi in una situazione in cui, senza adeguate contromisure in materia di aiuti sociali (educazione, sanità, etc.), saranno gli stessi gruppi portatori di fattori di svantaggio a manifestare forme di uso problematico o patologico

Credo che una buona mediazione possa essere rappresentata dalla legalizzazione della cannabis avendo cura di disarmare a priori la potenziale perniciosità del mercato via gestione in monopolio di Stato e libertà (limitata) di autocoltivazione: dal 2018 in Canada è possibile coltivare quattro piante per nucleo domestico, senza che questo abbia comportato particolari criticità[20]. D’altronde quasi un terzo[21] della popolazione europea – e italiana – nella vita ha già consumato cannabis: legalizzandola si sottrae semplicemente un fenomeno alle mafie, e se ne rende più facile lo studio ed il governo, prevenendo i danni della repressione (en passant, ricordo diversi suicidi adolescenziali dovuti ad arresti per pochi grammi di cannabis).

Quasi un terzo della popolazione europea – e italiana – nella vita ha già consumato cannabis: legalizzandola si sottrae semplicemente un fenomeno alle mafie, e se ne rende più facile lo studio ed il governo, prevenendo i danni della repressione

In carenza di consistenti politiche di welfare, per altre sostanze è forse più ragionevole, nell’immediato, procedere a decriminalizzare totalmente i consumatori (anche sul piano delle sanzioni amministrative) ed a incentivare le politiche di prevenzione e riduzione del danno (informazione, drug testing, scambio siringhe, spazi protetti, etc.) associate alla promozione della salute e del benessere di ogni persona. Politiche mirate dunque a scoraggiare, certo, ma anche ad includere, a non stigmatizzare chi, senza ferire nessuno, decide di assumere una sostanza psicoattiva.

In carenza di consistenti politiche di welfare, per altre sostanze è forse più ragionevole, nell’immediato, procedere a decriminalizzare totalmente i consumatori  […] associate alla promozione della salute e del benessere di ogni persona. Politiche mirate dunque a scoraggiare, certo, ma anche ad includere

O vogliamo, continuando a punire, spostare il limite sempre più in là? Davvero pensiamo che i problemi della nostra società si possano risolvere ritirando patente e passaporto a Carl? Imponendogli un percorso di cura… con degli esperti della materia?

Suvvia: è tempo di crescere, e di gestire adultamente, scientificamente, un tema che non può essere affrontato (pena danni maggiori) con posizioni moralistiche, impulsive, a-scientifiche e comprovatamente fallimentari. Buona lettura a voi.

__________

 

[1] N. Zinberg, Drug, Set, and Setting: The Basis for Controlled Intoxicant Use, Yale University Press, 1984.

[2] Amanita Muscaria – Istituto Superiore di Sanità.

[3] G. Bresadola, Iconographia Mycologica, Società Botanica Italiana, vol. XVIII, 1927-1933.

[4] Aa.Vv., Atti 2° Convegno Nazionale Avvelenamenti da Funghi, Rovereto 3-4 aprile 1992, in Annali Museo Civico Rovereto, Suppl. vol. 8, 1993, pp. 125 ss.

[5] K. Fatur, S. Kreft, Common anticholinergic solanaceaous plants of temperate Europe-A review of intoxications from the literature (1966–2018), in Toxicon, 177, 2020, pp. 52 ss.

[6] S.D. Trancă, R. Szabo, M. Cociş, Acute poisoning due to ingestion of Datura stramonium–a case report, in Romanian journal of anaesthesia and intensive care, 24, 1, 2017, p. 65.

[7] B. Beckerman, H. Persaud, Nutmeg overdose: spice not so nice, in Complementary therapies in medicine, 46, 2019, pp. 44-46.

[8] R.R. Atherton, The ‘Nutmeg Challenge’: a dangerous social media trend, in Archives of disease in childhood, 2020.

[9] M.L.N. Steers, M.A. Moreno, C. Neighbors, The influence of social media on addictive behaviors in college students, in Current addiction reports, 3, 4, 2016, pp. 343 ss.

[10] C.L. Hart, Drug Use for Grown-Ups: Chasing Liberty in the Land of Fear, Penguin Press, 2021.

[11] P. Greenway, Stairs 1 Geneva, 1994.

[12] N. Zinberg, Drug, Set, and Setting, cit.

[13] R.J. MacCoun, P. Reuter, Assessing drug prohibition and its alternatives: A guide for agnostics, in Annual Review of Law and Social Science, 7, 2011, pp. 61 ss.

[14] C.L. Hart, High price, HarperCollins, 2013.

[15] S. Arcieri, C. Dalpiaz, A. Ferrazzi Portalupi, C.L. Hart, Tutta la verità sulle droghe, in questa rivista, 13 gennaio 2021.

[16] B-C. Han, The burnout society, Stanford University Press, 2015.

[17] E. Scafato et al., Istituto Superiore di Sanità. Rapporti ISTISAN 20/7 – Epidemiologia e monitoraggio alcol-correlato in Italia e nelle Regioni, 2020.

[18] Ministero della Salute, Report prevenzione e controllo del tabagismo, 2020.

[19] V., sul tema, P. Tincani, S. Arcieri, Riflessioni su droghe e antiproibizionismo (ovvero: non sempre il silenzio è d’oro), in questa rivista, 7 ottobre 2020.

[20] M. Rotermann, What has changed since cannabis was legalized?, in Statistics Canada – Health Reports, 2020.

[21] European Drug Report, European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, 2020.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

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