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Issue 7-8/2020

We publish here, courtesy of the Publisher, the present article by Jacob Bronowski, originally published on the Review Indici comunità, 7/8, 1962, pp. 85 ff.

The document, considered of interest to DPU readers by reasons of the extreme topicality of its contents, was selected within the archival heritage concerning the history of the Olivetti Company (Archivio Storico Olivetti), collected, edited and enhanced by Associazione Archivio Storico Olivetti, which we thank for the precious collaboration.

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Quelli che sono andati a fare scalate sull’Himalaya hanno riferito, a parte le dubbie orme degli abominevoli uomini delle nevi, l’esistenza di un modello di verità più rivelatore. È contenuto nel racconto da essi fatto della prima visione di qualche montagna inaccessibile e raramente visitata. Gli alpinisti occidentali, che hanno familiarità con la bussola e con la proiezione cartografica, sono in grado di combinare questo aspetto della montagna con un altro da essi visto anni prima. Ma per gli alpinisti indigeni che li accompagnano, ogni faccia e un’immagine distinta, un distinto enigma. Gli indigeni conoscono forse questa e un’altra faccia della montagna meglio dello straniero; eppure non riescono a collegare le due facce. Eric Shipton descrive tale divisione nel resoconto dell’esplorazione da lui fatta per la nuova via all’Everest, su cui si è basata la successiva scalata del 1953. Ecco Shipton che giunge a vedere l’Everest dal sud, qualcosa di nuovo per lui, ma già noto fin dall’infanzia per il suo capo sherpa Angtarkay:

«Il mattino del 27 entrammo nel Lobujya Khola, la valle che contiene il ghiacciaio Khombu (che scende dal lato sud e sud-ovest dell’Everest). Salendo lungo la valle scorgemmo alla sua testa la linea dello spartiacque principale. Riconobbi immediatamente i picchi e le selle a noi così familiari dal Rongbuk, il alto nord: Pumori, Lingtren, if Lho La, il North Peak e il fianco occidentale dell’Everest. È strano che Angtarkay che, come me, conosceva bene queste configurazioni dall’altro lato e che ha passato molti anni della sua infanzia a condurre gli yak al pascolo in questa valle, non le abbia mai riconosciute come le stesse; e non le ha riconosciute neppure ora finché non gliele ho mostrate».

Il capo sherpa conosce bene, come Shipton, l’aspetto dell’Everest dal nord. E a differenza Shipton, conosce anche quello del sud, perché è vissuto per anni in quella valle. Eppure, nella sua testa non ha mai collegato i due aspetti. È lo straniero indagatore che indica le montagne che fiancheggiano l’Everest. Lo sherpa allora riconosce la forma di questo o quel picco. Le parti cominciano a combinarsi; la mente dell’uomo sbalordito comincia a costruirsi una carta; e di colpo i frammenti sono ben ordinati, la carta è completa, le due facce della montagna sono entrambe Everest.

Tutti i riconoscimenti sono di questo tipo. La ragazza incontrata sulla spiaggia, l’uomo conosciuto tanto tempo fa ci rendono perplessi un attimo e poi prendono i proprio posto; il nuovo aspetto si adatta al vecchio e lo estende. Siamo abituati a stabilire questi collegamenti nel tempo; e, come gli alpinisti dell’Everest, li stabiliamo anche nello spazio. Se non lo facessimo, la nostra mente conterrebbe soltanto un ammucchio di idee isolate. Stabilendo tali collegamenti, riusciamo a trovare nei nostri comportamenti la carta delle cose.

Non esiste altra prova dell’esistenza delle cose. Di un uomo vediamo il profilo sinistro e quello destro; non li vediamo mai insieme. Per quali ragioni pensiamo che appartengano a un solo uomo? Per quali ragioni pensiamo poi che esista qualcosa come un uomo? Secondo i canoni della logica classica non esiste altra ragione: nessuno può dedurre l’uomo. Lo desumiamo dai suoi profili, come desumiamo che la stella vespertina e la stella mattutina sono entrambe il pianeta Venere, perché ciò fa coincidere le due esperienze, e l’esperienza prova la consistenza della supposizione.

Le parti cominciano a combinarsi; la mente dell’uomo sbalordito comincia a costruirsi una carta; e di colpo i frammenti sono ben ordinati, la carta è completa, le due facce della montagna sono entrambe Everest. […] Siamo abituati a stabilire questi collegamenti […]. Se non lo facessimo, la nostra mente conterrebbe soltanto un ammucchio di idee isolate. Non esiste altra prova dell’esistenza delle cose

Le varie parti, i profili e l’intero volto, la nuca e la fronte, formano un tutto unico, non soltanto per la vista, ma anche per l’esplorazione del tatto e dell’udito, per lo stetoscopio e i raggi X, per tutte le nostre elaborazioni deduttive. Osservate gli occhi e le dita del bambino che insieme scoprono che l’esterno e l’interno di una tazza sono uniti. Osservate un uomo che è nato cieco, e che ora può vedere, mentre ricostruisce con la vista il mondo toccato; e non penserete mai più che l’esistenza di una cosa balza da sola nella mente, immediata e completa. Noi conosciamo la cosa soltanto tracciandone la carta e combinando insieme le nostre esperienze dei suoi vari aspetti.

La scoperta delle cose avviene in tre fasi. Nella prima fase esistono soltanto i dati separati dai sensi: vediamo la testa del penny, ne vediamo la corona. Sarebbe pura vanità usare parole profonde come vero e falso in questa fase così semplice. Quanto vediamo o è così o non è così. Dove non si può formulare nessun altro giudizio, non sono disponibili parole più precise.

Nella seconda fase mettiamo insieme testa e corona. Vediamo che ha senso trattarle come una cosa unica. E la cosa è la coerenza delle sue parti nella nostra esperienza.

La mente umana non si ferma qui. L’animale può giungere fino a questo punto: una scimmia imparerà a riconoscere una tazza se e quando la vedrà, e saprà cosa farne, tutte le esperienze relative alle scimmie mettono in rilievo che esse trovano difficile pensare alla tazza quando non è in vista, e immaginare allora il suo uso. La mente umana ha modo di tenere in mente la tazza o il penny. Ecco la terza fase: disporre di un simbolo o di un nome per tutto il penny. Per noi la cosa ha un nome, e in un certo senso è il nome: il nome o il simbolo rimane presente, e la mente se ne serve, quando la cosa è assente. Al contrario, una delle difficoltà incontrate dagli sherpa nel vedere l’Everest è che la montagna porta nomi diversi nei diversi luoghi.

Per noi la cosa ha un nome, e in un certo senso è il nome

I termini vero e falso trovano la loro ragione d’essere nelle ultime fasi, quando i dati dei sensi sono stati messi insieme a formare una cosa che è conservata nella mente. Solo allora ha senso chiedere se quanto pensiamo della cosa è vero. Cioè, a questo punto possiamo dedurre come la cosa dovrebbe comportarsi, e vedere se effettivamente è così. Se questa è realmente una unica montagna, per esempio, allora la posizione di quel punto di riferimento dovrebbe essere in direzione est; e controlliamo. Se questo è un penny, dovrebbe essere sensibile al tatto. Questo è il modo in cui Macbeth verifica l’oggetto a cui sta pensando e che gli sembra di vedere.

«È un pugnale che mi vedo di fronte, verso la mano l’elsa? Vieni, che ti stringa».

Macbeth usa il metodo empirico: la cosa deve essere esaminata dal suo comportamento.

«Non ti sento, eppur ti vedo ancora. Come all’occhio non sei, vision fatale, tu, sensibile al tatto? O sei soltanto della mente un pugnale, falsa creazione?»

«Un pugnale della fantasia, una falsa creazione»: tanto la parola falsa quanto la parola creazione sono esatte. Quel che la mente umana fa, e pensa, dei dati dei sensi, è sempre una cosa creata. La costruzione è vera o falsa in base all’esame del suo comportamento. Non erano falsi i dati dei sensi, ma era falsa la nostra interpretazione di essi: abbiamo costruito un’allucinazione.

Finora ho descritto come pensiamo sulle cose. La concezione da me illustrata va però oltre le cose, tocca le leggi e i concetti che formano la scienza. Ecco la reale portata della concezione: le tre fasi con cui l’uomo costruisce una montagna e le dà un nome sono le stesse fasi con cui costruisce una teoria.

Quel che la mente umana fa, e pensa, dei dati dei sensi, è sempre una cosa creata. La costruzione è vera o falsa in base all’esame del suo comportamento. Non erano falsi i dati dei sensi, ma era falsa la nostra interpretazione di essi: abbiamo costruito un’allucinazione

Si ricordi l’esempio del lavoro di Keplero e di Newton; le fasi vi sono rintracciabili. La prima fase è la raccolta dei dati: in questo caso, le osservazioni astronomiche. Poi viene la fase creativa in cui Keplero trova un ordine nei dati esplorando le somiglianze. In tale caso l’ordine, l’unità, consiste nelle tre leggi con cui Keplero descrive l’orbita, non di questo o quel pianeta, ma semplicemente di un pianeta.

Le leggi di Keplero, tuttavia, non propongono un concetto centrale, e il terzo passo consiste quindi nel creare tale concetto. È Newton a compierlo quando, al centro dell’astronomia, egli pone una singola attività dell’universo: il concetto di gravitazione.

Non esiste naturalmente un oggetto come la gravitazione, sensibile al tatto. Non si vede, non si ode; e se si ha l’impressione di percepirla, ciò ora appare come un gioco di spazio e di tempo. Eppure, il concetto di gravitazione è reale e vero. È stato costruito dai dati con gli stessi passaggi che fondono due aspetti dell’Everest in una sola montagna, o più conversazioni in un uomo solo. E il concetto è verificato come si veridica l’uomo, dal suo comportamento: deve essere appropriato. Newton lo fece nel suo giardino del 1666 quando calcolò la forza che mantiene la luna nella sua orbita; come Macbeth, egli verificò la creazione della mente.

Il concetto è verificato come si veridica l’uomo, dal suo comportamento: deve essere appropriato

La creazione era un concetto, una serie coerente di concetti. C’era il concetto di una gravitazione universale che andava oltre le punte degli alberi e l’aria fino agli ultimi confini della spazio. C’era il concetto di altre forze universali nello spazio che cercano di trascinar via la luna come un sasso che, fatto girare rapidamente, scappa dalla corda. E c’era il concetto che metteva fine ai quattro elementi di Aristotele: il concerto di massa, presente nella mela, nella terra e nella luna, in tutti i corpi terresti e celesti.

Sono tutte reali creazioni: trovano un’unità in ciò che sembrava dissimile. Sono dei simboli: non esistono senza la creazione. Per quanta sembri solida non esiste qualcosa come la massa; come ebbe a constatare tristemente Newton, non può essere definita. Abbiamo esperienza della massa soltanto come comportamento dei corpi, ed è un concetto unico soltanto perché essi si comportano in modo uniforme. In effetti, il concetto di massa è un esempio particolarmente appropriato. Nella fisica di Newton esistono due concetti di massa, che sono distinti. Una è la massa inerziale di un corpo, quella che bisogna vincere quando lo si getta. L’altra è la massa gravitazionale dello stesso corpo, quella che bisogna vincere quando lo si solleva dal suolo. Newton sapeva, naturalmente, che la massa inerziale è uguale alla massa gravitazionale; ma perché sono eguali, perché dovrebbero essere la stessa unica massa? È una domanda posta da Einstein che, per rispondervi, ha costruito net 1915 l’intera teoria della relatività generale. Soltanto tale teoria ha fatto dei due aspetti un tutto unico, l’unità che è il concetto singolo di massa. È una sequenza caratteristica della scienza. Essa comincia con una serie di aspetti, che organizza in leggi. Al centro delle leggi poi trova un nodo, un punto essenziale in cui parecchie di esse si incontrano: un simbolo che dà loro unità. Massa, tempo, momento magnetico, inconscio: siamo cresciuti in mezzo a questi concetti simbolici, così che ci stupisce sentire che l’uomo ha dovuto una volta crearseli. Ha dovuto infatti, e deve, perché la massa non è un’intuizione del muscolo, e il tempo non si compra bell’e fatto dall’orologiaio.

Noi verifichiamo il concetto, come verifichiamo la cosa, con le sue implicazioni. Cioè, quando il concetto è stato costruito da qualche esperienza, esaminiamo quale comportamento dovrebbe logicamente derivare da esso in altre esperienze. Sa riscontriamo tale comportamento, continuiamo a tenerci il concetto com’è. Se invece non riscontriamo il comportamento che il concetto logicamente implica, dobbiamo ritornare indietro a correggerlo. In tal modo logica ed esperimento sono strettamente connessi nel metodo scientifico, in un costante avanti e indietro in cui ciascuno segue l’altro.

Quando il concetto è stato costruito da qualche esperienza, esaminiamo quale comportamento dovrebbe logicamente derivare da esso in altre esperienze. Sa riscontriamo tale comportamento, continuiamo a tenerci il concetto com’è. Se invece non riscontriamo il comportamento che il concetto logicamente implica, dobbiamo ritornare indietro a correggerlo. In tal modo logica ed esperimento sono strettamente connessi nel metodo scientifico, in un costante avanti e indietro in cui ciascuno segue l’altro

Questo modo di concepire il metodo scientifico non è condiviso da tutti coloro che si sono occupati del problema. Due scuole filosofiche diffidano del pensiero concettuale e vorrebbero sostituirlo completamente con la manipolazione dei fatti. Una è quella derivazione della tradizione empirica inglese che attraverso Bertrand Russell giunge a Wittgenstein e ai positivisti logici. Questa scuola ritiene che una rigorosa descrizione di tutta la natura possa esser messa insieme, come un gigantesco meccano, a furia di piccole unità di fatto, ciascuna delle quali può essere separatamente verificata. L’altra scuola è quella fondata da Ernst Mach in Austria e capeggiata più recentemente da Perey Bridgman in America: ritiene che la scienza sia precisamente un resoconto di operazione e dei loro risultati. Questa scuola behaviourista vorrebbe mettere da parte tutti i modelli della natura, e limitarsi sempre a dire che facendo questo si ottiene una misura maggiore che facendo quello.

Queste spiegazioni della scienza mi sembrano erronee, per due motivi. In primo luogo, esse, vanno contro l’evidenza storica. Fin dal tempo dei greci, e prima ancora, molti acuti pensatori e, anzi, tutti gli uomini hanno usato parole come spazio, massa e luce. Non ne hanno chiesto il permesso a Russell o a Bridgman, eppure quanto hanno fatto con quelle parole appartiene alle glorie della scienza come della filosofia; ed è un po’ tardi ormai vietar loro tale linguaggio.

In secondo luogo, entrambe le scuole vanno contro l’evidenza contemporanea. Abbiamo buone ragioni per credere, sulla base di studi compiuti sugli animali e sugli uomini, che il pensiero com’è da noi inteso è reso possibile soltanto dall’uso di nomi o simboli. Altri animali oltre all’uomo hanno un linguaggio, nel senso di Bridgman; per esempio, le api si segnalano a vicenda dove trovare il nettare.

Bernard de Mandeville, che scrisse in The Fable of the Bees una parabola del diciottesimo secolo, avrebbe visto in ciò il massimo del comportamento razionale. Ma uno scienziato attivo non giudica il fatto allo stesso modo, perché sa che la scienza non è qualcosa che insetti e macchine possano fare.

Quel che la distingue è un processo creativo, l’esplorazione delle somiglianze; una cosa che è rimasta tristemente esclusa dai mondi meccanici dei positivisti e degli operazionalisti, e li ha lasciati vuoti.

Abbiamo buone ragioni per credere, sulla base di studi compiuti sugli animali e sugll uomini, che il pensiero com’è da noi inteso è reso possibile soltanto dall’uso di nomi o simboli

Il mondo che la mente umana conosce ed esplora non sopravvive se viene vuotato del pensiero. E il pensiero non sopravvive senza concetti simbolici. Il simbolo e la metafora sono necessari alla scienza come alla poesia. Siamo impotenti oggi a definire la massa, fondamentalmente come lo era Newton. Ma, come lui, non per questo pensiamo che le equazioni contenenti la massa come incognita siamo semplici regole di pratica. Se ci fossimo accontentati di tale opinione, non avremmo mai imparato a trasformare la massa in energia. Formulando un concetto di massa, pronunciando la parola, iniziamo un processo di esperimento e correzione che è la ricerca creativa della verità.

Nel villaggio in cui vivo c’è un simpatico medico un po’ sordo. Egli non se ne vergogna e porta un apparecchio acustico. Mia figlia ha conosciuto lui e il suo apparecchio fin da quando era piccolissima. Quando a due anni incontrò per la prima volta un altro uomo provvisto di apparecchio acustico, disse semplicemente: «Quello è un medico. Naturalmente si sbagliava. Ma, se entrambi gli uomini avessero portato non un apparecchio acustico, bensì uno stetoscopio, ci saremmo compiaciuti per la sua generalizzazione. Anche in quel caso però avrebbe avuto soltanto una vaga idea di quel che fa, e un’idea ancor più vaga di quel che è un medico. Ma sarebbe stara allora, e per me lo era effettivamente anche quando si sbagliava, sulla via verso la conoscenza umana, che avanza a furia di formulazioni e correzioni di concetti.

Sarei ingiusto se non ammettessi che le scuole filosofiche positivista e operazionalista hanno avuto motivo di diffidare del ricorso ai concetti. Russel e Bridgman si tennero alla larga dal concetto perché aveva un brutto passato che ancora offusca il suo uso. Storicamente, i concetti sono stati comunemente formulati come nozioni assolute e innate, a somiglianza dello spazio e del tempo che Kant riteneva già bell’e pronti nella mente. La concezione secondo cui i nostri concetti si formano dall’esperienza, e devono costantemente essere verificati e corretti, con l’esperienza, non è classica. Secondo la concezione classica i concetti non sono accessibili a prove empiriche. Quante persone si rendono conto, anche oggi, che i concetti della scienza non sono né assoluti né eterni? E oltre il campo della scienza, nella società, nella personalità, soprattutto nell’etica, quante persone accettano la conferma del fatto sperimentato? L’opinione comune rimane quella classica, secondo cui i concetti di valore – giustizia e onore, dignità e tolleranza – hanno una profondità che è inaccessibile all’esperienza.

Le radici di questo errore sono affondate nella logica chiusa del medioevo. L’esempio caratteristico e insigne è il metodo di Tommaso d’Aquino. La fisica in voga nei tre secoli che precedettero la rivoluzione scientifica derivava da Aristotele per il tramite degli studiosi arabi, ed era stata organizzata in sistema da S. Tommaso. Essa non condivideva la prova di verità della fisica moderna. Fra il 1256 e il 1259 S. Tommaso tenne circa 250 corsi di discussione, tutti sul problema della verità. Ogni corso durava due giorni. Le questioni discusse appartenevano a un mondo di dissertazione che semplicemente non ha alcuna frontiera in comune col nostro. Erano questioni come: «È la conoscenza di Dio la causa delle cose?», «Il libro della vita è la stessa cosa della predestinazione?», «Conoscono gli angeli il futuro?».

Quante persone si rendono conto, anche oggi, che i concetti della scienza non sono né assoluti né eterni? E oltre il campo della scienza, nella società, nella personalità, soprattutto nell’etica, quante persone accettano la conferma del fatto sperimentato? L’opinione comune rimane quella classica, secondo cui i concetti di valore – giustizia e onore, dignità e tolleranza – hanno una profondità che è inaccessibile all’esperienza

Non le metto da porte come questioni puramente fantasiose, in ogni caso non più di quanto consideri fantasie Tamburlaine e The Marriage of Heaven and Hell. Ma è chiaro che esse non hanno alcun rilievo per i problemi di vero e falso come li intendiamo noi, induttivamente. Quei dibattiti erano esercizi scolastici di logica assoluta. Prendevano l’avvio da concetti che erano supposti assolutamente fissi; procedevano poi per deduzione; e quanto si trovava in questo modo non era soggetto a una ulteriore verifica. Le deduzioni erano vere perché i primi concetti erano veri: ecco il sistema scolastico. È anche la logica di Aristotele. Purtroppo dà scarsi risultati in fisica, perché in esso e aperto il dissidio fra il concetto corretto e l’intuitivo.

Anche la scienza moderna cominciò col correr dietro a sistemi puramente deduttivi. Il suo primo modello, naturalmente, fu Euclide. Uno dei suoi momenti storici fu la conversione dl Thomas Hobbes, fra il 1629 e il 1631:

Aveva 40 anni quando si mise ad occuparsi di geometria; avvenne per caso. Trovandosi nella biblioteca di un signore, vide gli Elementi di Euclide aperti all’El. 47, Libro I. Lesse la proposizione. «Per D», disse, è impossibile!». Così lesse la determinazione, che lo riporta a una tale proposizione; la lesse. Ma questa lo portò a un’altra ancora ed egli lesse pure questa. Et sic deinceps, alla fine egli fu dimostrativamente convinto di quella verità. Ciò lo fece innamorare della geometria.

II racconto fu scritto da Aubrey, amico di Hobbes. Naturalmente Aubrey presumeva che tutti sapessero quale era la 47a proposizione del primo libro di Euclide; se non lo si sa, passa inosservata la carica esplosiva della storia. Infatti la 47a proposizione è il teorema di Pitagora sui quadrati dei lati di un triangolo rettangolo, il più famoso teorema dell’antichità per cui, secondo la tradizione, Pitagora avrebbe sacrificato in ringraziamento un centinaio di buoi alle muse. In un’epoca che conosceva i teoremi per numero, Hobbes a quarant’anni non conosceva ancora il contenuto di questo; e quando lo apprese, esso cambiò la sua vita.

Da allora in poi Hobbes divenne un pioniere del metodo deduttivo nella scienza. A quel tempo la sua innovazione era necessaria; ma ben presto il movimento scientifico l’abbandonò. Infatti, quando Hobbes adottò il metodo deduttivo, fece sua anche la concezione di Euclide secondo cui si sa intuitivamente che cosa sono i punti, che cosa è un angelo, che cosa si intende per parallela. Si presumeva che concetti e assiomi fossero semplicemente evidenti, nella geometria come nel mondo fisico.

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La scienza non si è fermata lì dopo Hobbes, ma vi si sono fermate discipline come l’etica. Durante la vita di Hobbes, Spinoza presentò la sua Ethica ordine geometrico demonstrata, dimostrata in ordine geometrico. Il libro comincia alla maniera euclidea con otto definizioni e sette assiomi. È un modesto apparato per un attacco all’universo, se si pensa che persino la geometria piana di Euclide richiede più di venti assiomi. Ma Spinoza affronta l’impresa con audacia e in effetti con profondità, e non è colpa sua se dopo un certo tempo si ha l’impressione di essere immobili. Il sistema geometrico dell’etica ha esaurito le sue scoperte. Non dice più niente di nuovo; e, peggio ancora, non può imparare più niente.

Ecco la differenza essenziale fra i due modi in cui ordiniamo la nostra vita. Entrambi si basano su concetti centrali. In entrambi conduciamo il ragionamento dai concetti centrali alle conclusioni che da essi derivino. Ma a questa punto le due strade divergono. Nel campo dell’etica, della condotta e dei valori, pensiamo come Tommaso d’Aquino e Spinoza, cioè che i nostri concetti devono rimanere immutabili perché ispirati o evidenti. Nel campo della scienza, quattrocento anni d’avventura ci hanno insegnato che il metodo razionale è più sottile, e che i concetti sono le sue più sottili creazioni. Centocinquant’anni fa Gauss e altri dimostrarono che gli assiomi di Euclide non sono né evidenti né necessariamente esatti nel nostro mondo. In gran parte la fisica dopo d’allora, per esempio nella relatività, è stata la rielaborazione di un più delicato ed eccitante concetto di spazio. Il bisogno di ciò è stato originato dai fatti; eppure, come i nuovi concetti hanno offeso le nostre nozioni lapalissiane del modo in cui dovrebbe comportarsi uno spazio ammodo! La meccanica quantistica è stata costante motivo di scandalo perché ha affermato che il mondo dell’infinitamente piccolo non funziona esattamente come una copia del mondo delle dimensioni umane. Swift nei Viaggi di Gulliver aveva fatto osservare qualcosa del genere già nel 1726, e quindi il fatto non dovrebbe più impressionarci; ma anche Swift naturalmente fu motivo di scandalo per la sua epoca.

Centocinquant’anni fa Gauss e altri dimostrarono che gli assiomi di Euclide non sono né evidenti né necessariamente esatti nel nostro mondo […]. Il bisogno di ciò è stato originato dai fatti; eppure, come i nuovi concetti hanno offeso le nostre nozioni lapalissiane del modo in cui dovrebbe comportarsi uno spazio ammodo!

È vero che i concetti della scienza e quelli dell’etica e dei valori appartengono a mondi diversi? II mondo di ciò che è soggetto a verifica, e non lo è invece il mondo di ciò che dovrebbe essere?

Io non credo. Concetti come giustizia, umanità e pienezza di vita non sono rimasti immobili negli ultimi quattrocento anni, a prescindere da quel che possono sostenere ecclesiastici e filosofi. Nel loro senso moderno essi non esistevano al tempo in cui Tommaso d’Aquino scriveva; del resto non esistono ancor oggi nelle civiltà che trascurano la realtà fisica. Con ciò non intendo soltanto la realtà scientifica. La tradizione rinascimentale è concorde nell’arte come nella scienza, nel sostenere che il mondo fisico è una fonte di conoscenza. II poeta, alla stessa stregua del biologo, ora ritiene che la vita gli parli attraverso i sensi. Ma non è sempre stato così: Paolo Veronese venne biasimato dall’Inquisizione nel 1573 perché aveva introdotto la vita di tutti i giorni in un dipinto sacro. E ancor oggi non è così dovunque: le antiche civiltà dell’Oriente respingono tuttora i sensi come fonte di conoscenza, e ciò si manifesta tanto nella loro poesia formale e nella loro pittura lontana dalle passioni quanto nella loro scienza.

È vero che i concetti della scienza e quelli dell’etica e i valori appartengono a mondi diversi? II mondo di ciò che è soggetto a verifica, e non lo è invece il mondo di ciò che dovrebbe essere? lo non credo. Concetti come giustizia, umanità e pienezza di vita non sono rimasti immobili negli ultimi quattrocento anni, a prescindere da quel che possono sostenere ecclesiastici e filosofi

Al contrario, la conferma del fatto sperimentato ha mutato e foggiato tutti i concetti degli uomini che hanno sentito la rivoluzione scientifica. Una civiltà non può mantenere separate le sue attività o indossare la scienza come un vestito, un vestito da lavoro inadatto per la domenica. Lo studio della prospettiva del Rinascimento coincide con la fioritura della pittura sensuale. E l’avversione dei pittori al naturalismo da cinquant’anni a questa parte è sicuramente connessa con la nuova struttura che gli scienziati si sono sforzati di trovare nella natura in quello stesso periodo di tempo. Una civiltà è legata a un solo modo di affrontare la vita. E la nostra non può tenere i suoi concetti più delle sue guerre separati in tante caselle distinte.

Tutto ciò è chiaro una volta compreso che anche la scienza è un sistema di concetti: la funzione dell’esperienza è quella di verificare e correggere il concetto. Ecco la verifica: funzionerà il concetto? Dà esso un’unità non forzata all’esperienza umana? dà un ordine alla vita, non per editto ma in realtà?

Gli uomini hanno insistito per introdurre tale verifica nei sistemi di società e di condotta. Che cos’altro costò la testa a Carlo I nel 1649? E che cosa riportò al potere Carlo II nel 1660, ma alla fine esiliò la sua famiglia mercé gli olandesi e i tedeschi? Non l’elevato discorso sul diritto divino dei re, non il Bill of Rights, ma la loro verifica nell’esperienza. L’Inghilterra sarebbe stata disposta a vivere con l’uno o con l’altro concetto, come è stata disposta a vivere con Newton o con Einstein: ha scelto quello che faceva funzionare la società da sola, senza costrizione.

Da allora la società ha elaborato una serie di concetti centrali, ognuno dei quali a un certo momento è stato ritenuto in grado di farla funzionare da sola e in un momento successivo ha dovuto invece subire una correzione. C’è stato all’inizio del diciottesimo secolo il concetto dell’interesse egoistico, in Mandeville e in altri; poi è venuto l’interesse egoistico illuminato; poi la massima felicità del più gran numero possibile; l’utilità; la teoria del valore; e quindi la sua espressione nello stato assistenziale o nella società senza classi.

Gli uomini non hanno mai trattato nessuno di questi concetti come l’ultimo, e non hanno intenzione di farlo ora. Ciò che li ha spinti, ciò che li spinge è il rifiuto di riconoscere il concetto come un editto o qualcosa di evidente. Funziona esso realmente, si chiedono, senza costrizione, senza corruzione e senza un’arbitraria sovrastruttura di leggi che non derivano dal concetto centrale?

Le sue conclusioni sono conformi alla nostra esperienza? In una tale società gli uomini vivono così o non così? Ecco la semplice ma profonda verità dei fatti con cui abbiamo finito per giudicare le grandi parole dei fondatori di stati e di sistemi. Lo vediamo in modo convincente nella Dichiarazione di indipendenza, che comincia alla rotonda maniera euclidea: «Riteniamo evidenti queste verità», ma trae la sua giustificazione alla fine da «una lunga serie di abusi e usurpazioni»: il sistema coloniale non era riuscito a creare una società funzionante.

Un esempio fra tanti illustra la lezione moderna. Quando Warren Hastings venne accusato nel 1786 di governo arbitrario in India, egli addusse due fatti a sua discolpa. Uno, che la violenza e la corruzione di cui gli si faceva carico erano in ogni caso comuni a tutta la società indiana di allora. L’altro, che alcuni dei suoi accusatori (e soprattutto Burke) non erano immuni da un interesse disonesto negli stessi affari indiani. Warren Hastings venne prosciolto, ma non per questi motivi, perché trascuravano la differenza esistente fra l’India di allora e l’Europa. L’uomo in quanto uomo aveva un valore diverso nei due continenti. II Rinascimento aveva originato la differenza e l’Inghilterra coi suoi dissidenti era andata elaborano nel corso degli ultimi duecento anni il nuovo valore, ricorrendo sempre all’onesto criterio della creazione di una società stabile e capace di correggersi da sola. La condotta di Warren Hastings doveva essere giudicata dallo stesso punto di vista, non da altri; i criteri delle società inferiori governate da conquistatori, i motivi degli uomini di secondo piano non potevano aver alcun peso nella decisione del caso.

Le culture dell’Oriente differiscono dalla nostra oggi come allora. Esse tengono tuttora in poco conto l’uomo come individuo. Alla base di tale giudizio sta l’indifferenza per il mondo dei sensi, di cui l’indifferenza per il fatto sperimentato non è che un aspetto. Chiunque abbia lavorato in Oriente sa bene come sia difficile ottenere risposta a una domanda di fatto. Quando dovetti studiare le conseguenze delle bombe atomiche in Giappone alla fine della guerra, rimasi turbato e imbarazzato dalla difficoltà. L’uomo interrogato, qualsiasi uomo interrogato, non comprende realmente che cosa si vuole sapere: o, meglio, non comprende che si ha desiderio di sapere. Egli desidera fare quel che è conveniente, non è contrario a parlare con schiettezza, ma in definitiva non conosce i fatti perché sono estranei al suo linguaggio. Le culture dell’Oriente sono rimaste immobili perché prive del linguaggio e della stessa abitudine della realtà.

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Per noi, l’abitudine della semplice verità rispetto all’esperienza è stata il motore della civiltà. L’ultima guerra ha mostrato duramente quel che capita alle società e a noi come uomini quando tale abitudine è infranta. L’occupazione della Francia ha imposto al suo popolo uno sdoppiamento nella condotta individuale: un codice di verità per i compagni e un codice d’inganno per i conquistatori. È stata un’eroica frattura, più difficile da sopportare di quanto si pensi, e il mondo deve esserne grato ai francesi. Ma coloro che sono vissuti in quello stato di sdoppiamento non si riprenderanno mai interamente, e le abitudini di diffidenza e di distacco da esso create intralceranno a lungo la libera vita della Francia e dell’Europa.

Questa è la grave condanna che pesa su ogni stato in cui gli uomini si guardano bene dal parlare francamente al primo incontrato. La perdita dell’abitudine della verità e nociva per chi si trova in condizione di dover temere di parlare. Ma quanto più distruttiva, quanto più degradante è per i chiassosi conquistatori! Le persone realmente insidiate dalle loro stesse conquiste furono proprio i nazisti. Pensate un po’ quale era lo stato del pensiero tedesco quando Werner Heisenberg veniva criticato dalle S.S. ed era costretto a chiedere l’appoggio di Himmler per mantenere la sua posizione scientifica.

Heisenberg aveva ottenuto il premio Nobel a trenta anni; il suo principio d’incertezza è uno dei due o tre profondi concetti trovati dalla scienza in questo secolo; ed egli cercava di convincere i tedeschi che non dovevano respingere scoperte come la relatività perché mossi da antipatia per l’autore. Comunque Himmler, che era stato un tempo maestro elementare, condusse mesi di meschina indagine (qualcuno della sua famiglia conosceva Heisenberg) prima di autorizzare, fra rutti, proprio Heydrich a proteggere Heisenberg. La sua lettera a Heydrich è un monumento di carta alla sorte della mente creativa in una società senza verità. Infatti Himmler scrive di aver sentito che Heisenberg vale abbastanza da meritare di esser tenuto in serbo per la sua accademia della Welteislehre. Questa era un’istituzione che Himmler si proponeva di dedicare alla convinzione, condivisa dai suoi tirapiedi scientifici o loro imposta, che le stelle fossero formate di ghiaccio.

È un’assurdità che naturalmente fa il paio con l’altra sulle razze umane fatta credere ai tedeschi. La condizione intellettuale, la condizione della società sono tutt’uno. Quando scartiamo la prova di fatto per la natura di una stella, la scartiamo anche per la natura di un uomo. Una società è tenuta unita dal rispetto che l’uomo ha per l’uomo; essa fallisce in realtà, si frantuma in gruppi di timore e di potenza, quando la sua concezione dell’uomo è falsa. Troviamo la spinta che rende stabile una società nella ricerca di quello che ci fa uomini. È una ricerca che non ha mai fine: interromperla significa congelare la concezione dell’uomo in una incorreggibile caricatura, come hanno fatto le società di casta e della razza dominante. Nella conoscenza dell’uomo come in quella della natura, l’abitudine della verità rispetto al fatto sperimentato non lascia isolati i nostri concetti. È ciò che ha distrutto gli imperi di Himmler e di Warren Hastings. All’epoca in cui Hastings era sotto processo, William Wilberforce metteva in subbuglio l’Inghilterra per por fine alla tratta degli schiavi. Egli aveva in fondo un unico motivo: che gli uomini di pelle scura sono uomini. Un secolo e più di abitudine scientifica aveva indotto allora i suoi concittadini a giudicare quel motivo vero, e Hastings non tanto un tiranno quanto un imbroglione.

Una società è tenuta unita dal rispetto che l’uomo ha per l’uomo; essa fallisce in realtà, si frantuma in gruppi di timore e di potenza, quando la sua concezione dell’uomo è falsa. Troviamo la spinta che rende stabile una società nella ricerca di quello che ci fa uomini

Ci sono sempre stati due modi di cercare la verità. Uno consiste nel trovare concetti che sono inoppugnabili in quanto accettati per fede, per autorità, o per la convinzione della lor evidenza; è la mistica sottomissione alla verità che è stata scelta dall’Oriente e che ha dominato il pensiero assiomatico dei dotti medievali. S. Tommaso d’Aquino riteneva così che la fede fosse una guida verso la verità migliore della conoscenza: il padre della scienza medievale poneva decisamente la scienza al secondo posto.

Ma molto prima che S. Tommaso si mettesse a scrivere, Pietro Abelardo aveva attaccato l’intera concezione secondo cui esistevano concetti che si potevano apprendere soltanto per fede o per autorità. Tutta la verità, anche la più alta, è alla prova, affermava Abelardo: «Dal dubbio siamo indotti ad indagare, e con l’indagine percepiamo la verità». Erano parole che sarebbero state scritte forse anche da Cartesio un cinquecento anni dopo, e avrebbero potuto costituire la rivoluzione scientifica. Troviamo lo stesso dissenso dall’autorità nella Riforma; in effetti Lutero nel 1517 affermava che si poteva far ricorso a un’opera divina dimostrabile, la Bibbia, per infrangere ogni autorità costituita. La rivoluzione scientifica ebbe inizio quando Copernico suggerì l’idea secondo cui oltre a quella esisteva un’altra opera divina a cui si poteva ricorrere:la grande opera della natura. Non si ammette che un’affermazione assoluta si sottragga alla prova, le sue implicazioni devono essere conformi ai fatti della natura.

L’abitudine di verificare e correggere il concetto con le sue implicazioni nell’esperienza è stata la molla centrale del movimento della nostra civiltà d’allora in poi. Nella scienza, nell’arte e nella conoscenza di noi stessi esploriamo e avanziamo costantemente rivolgendoci al mondo dei sensi con la domanda: «È così?».

Nella scienza, nell’arte e nella conoscenza di noi stessi esploriamo e avanziamo costantemente rivolgendoci al mondo dei sensi con la domanda: «È così?».

È l’abitudine della verità, sempre minuziosa, sempre urgente, che per quattrocento anni e entrata in ogni nostra azione, e ha creato la nostra società e il valore da essa attribuito all’uomo, con la stessa sicurezza con cui ha creato la linotype, il coltello dell’esploratore, Re Lear, l’Origine della specie e la leonardesca «Dama con l’ermellino».

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