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Issue 10/2020

We publish here, courtesy of the Publisher, the present article by Bruno Meneghello, originally published on the Review Indici comunità, 128, 1965, pp. 30 ff.

The document, considered of interest to DPU readers by reasons of the extreme topicality of its contents, was selected within the archival heritage concerning the history of the Olivetti Company (Archivio Storico Olivetti), collected, edited and enhanced by Associazione Archivio Storico Olivetti, which we thank for the precious collaboration.

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1) In ogni campo dell’attività umana la prima regola per progredire è quella di sottoporre a critica sistematica soprattutto le idee apparentemente ovvie e fondamentali.

Dall’antico scandalo delle grandezze incommensurabili, a quello moderno degli universi non euclidei, dalla paradossale aritmetica dei numeri transfiniti alla stupefacente prova di Gödel, dalla ormai popolare rivoluzione copernicana a quella di Einstein, dal probabilismo della fisica dei quanta all’indeterminazione di Heisenberg, dalle inquietanti ipotesi di Darwin e Freud a quelle di Marx e Keynes, tutta la storia delle scoperte e delle invenzioni umane è segnata da idee e da prese di posizione che, al loro primo apparire, sembrarono minacciare l’ordine del mondo e finirono invece con il mostrare che era quest’ordine che aveva bisogno di essere modificato.

Anche nel campo della amministrazione della giustizia mi pare che, per conseguire un sostanziale progresso, occorra rivedere alcuni presupposti, altrimenti ritenuti pacifici. Non si tratta, naturalmente, di un processo di dimensioni cosmiche come quelli sopra ricordati. Tuttavia la questione è molto rilevante. Non ci si deve stancare di ripetere che i problemi interni della magistratura non riguardano soltanto, come molti credono, i giudici e gli avvocati, ma tutti i cittadini. La loro importanza non è minore di quella dei problemi concernenti l’agricoltura, l’urbanistica, i monopoli, la censura, e simili, perché ogni riforma può essere, in ultimo, vanificata da una magistratura timorosa, asservita o faziosa. La storia, anche recente, ha mostrato che i tribunali, come possono costituire una valida difesa contro i soprusi, le prepotenze, i tentativi larvati di sovversioni, così possono facilmente diventare i docili strumenti della dittatura, il simbolo stesso della reazione, a seconda che sui loro scranni siedano giudici indipendenti e sereni, ovvero funzionari ansiosi ed avviliti.

I problemi interni della magistratura non riguardano soltanto, come molti credono, i giudici e gli avvocati, ma tutti i cittadini. La loro importanza non è minore di quella dei problemi concernenti l’agricoltura, l’urbanistica, i monopoli, la censura, e simili, perché ogni riforma può essere, in ultimo, vanificata da una magistratura timorosa, asservita o faziosa

Proprio per l’eccezionale importanza che la situazione personale del giudice riveste per il buon funzionamento della giustizia e, quindi, per l’intero sviluppo democratico dello stato, sono oggi fortemente dibattute le questioni concernenti la struttura gerarchica e piramidale della magistratura; una struttura simile a quella di un esercito, avente cioè, alla base, i giudici di tribunale ed equiparati, sopra, i consiglieri di corte d’appello, al vertice, i consiglieri di corte di cassazione, rispettivamente paragonabili (absit iniuria) a sottufficiali, ufficiali subalterni e ufficiali superiori.

2) Non starò, ora, ad esaminare i vari aspetti del problema di cui molti si sono occupati (vedasi per tutti il settimanale «Il Mondo» nei numeri del 3 marzo, 12 maggio, 4 agosto, 6 ottobre, 24 ottobre 1964), premendomi solo mettere in rilievo due punti essenziali di esso: la gerarchia delle funzioni e la preparazione tecnica dei giudici. È noto che, grosso modo, ogni giudizio e la sentenza che lo conclude, possono in Italia essere sottoposti, per iniziativa delle parti interessate, ad un doppio riesame, una prima volta in appello, una seconda ed ultima in cassazione. Questi riesami o controlli che dir si voglia, implicano per il giudice che li compie il potere e nello stesso tempo il dovere di correggere e modificare, eventualmente, la primitiva decisione.  Perciò, le funzioni d’appello (almeno a partire da un certo livello di importanza delle materie trattate) e quelle di cassazione appaiono, naturalmente, più delicate e complesse delle altre, quasi dei super-giudizi.

Ma, se sono più delicate e complesse, sembra anche naturale che vi debbano essere adibiti gli uomini più capaci o, come talvolta si dice, i migliori e più meritevoli. Da qui, all’idea che costoro debbano servire di sprone e guida all’intero corpo giudiziario e che, quindi, sia opportuno concedergli una posizione di netta supremazia gerarchica, il passo è breve ed inevitabile.

D’altra parte, dovendosi reperire gli uomini più adatti a controllare, correggere e modificare l’operato dei giudici, cioè a fungere da giudici dei giudizi, nessun criterio sembra migliore di quello di sceglierli tra gli stessi magistrati, mediante una selezione basata essenzialmente sulla loro preparazione tecnico-giuridica, desumibile dalla motivazione delle sentenze. I migliori giudici, quindi, stando alla logica dell’attuale sistema, sarebbero i migliori giuristi, i più dotti e penetranti.

Da molte parti si contesta l’utilità di una gerarchia tra categorie di magistrati e l’efficacia dei metodi fin qui adottati per una giusta selezione di essi, ma nessuno o quasi mette in discussione il principio stesso di una gerarchia qualitativa tra le funzioni giudiziarie, o quello per cui i migliori giudici sarebbero i più preparati dal punta di vista tecnico-giuridico.

Orbene, a me pare che, se si analizzano tali principi, ci si rende canto che, in realtà, sono entrambi falsi o arbitrari, cioè dei pregiudizi.

3) Circa il primo punto, appare del tutto gratuito supporre che sia più difficile controllare, correggere e riformare un lavoro, che farlo. Nessuno si sognerebbe di pretendere, per esempio, che il critico d’arte o il restauratore siano più capaci dell’artista, che il collaudatore di una macchina sia tecnicamente superiore al progettista, o che l’allenatore sportivo sia più abile dei suoi allievi. Al contrario si deve ammettere che, almeno per quanto riguarda le sentenze, è forse più facile cercare il pelo nell’uovo, le contraddizioni, le improprietà, le imperfezioni, in un caso già deciso, che deciderlo ex novo.

L’opinione secondo cui le persone che controllano l’operato altrui, con poteri di correzione e riforma, dovrebbero necessariamente essere più preparate, più acute, più autorevoli delle persone controllate, si ricollega probabilmente al fatto che ognuno, fin dall’infanzia, è abituato a vedere in coloro che lo sovrastano per sapienza, prestigio e intelligenza, cioè nei genitori, nei fratelli maggiori, negli insegnanti, anche i suoi difensori, giudici e consiglieri.

Al fenomeno, inoltre, non può essere estranea la tradizione religiosa, posto che la divinità è, per definizione, perfetta giustizia, potestà assoluta, universale conoscenza.

Appare del tutto gratuito supporre che sia più difficile controllare correggere, e riformare un lavoro, che farlo. […] Per quanto riguarda le sentenze, è forse più facile cercare il pelo nell’uovo, le contraddizioni, le improprietà, le imperfezioni, in un caso già deciso, che deciderlo ex novo

Non è neppure esatto, del resto, che il giudizio dei magistrati delle corti d’appello e della cassazione cada, dall’alto in basso, sull’operato dei giudici inferiori. Ad ogni giudizio di tribunale o di corte d’appello, infatti, partecipa di regola in qualità di primus inter pares un magistrato del grado superiore. Pertanto, salvo il caso non impossibile, ma nemmeno frequente, che il primus sia messo in minoranza, i giudici d’appello e di cassazione vengono a sindacare, in definitiva, il lavoro di un loro pari grado. Aggiungasi, che anche nelle non frequenti ipotesi in cui il presidente del collegio sia messo in minoranza, la decisione costituisce sempre, dialetticamente, il risultato anche del suo giudizio, e quindi nemmeno allora è del tutto vero che l’attività censoria d’appello e cassazione muova dall’alto verso il basso.

La sola vera e legittima differenza, dunque, fra i giudici di primo grado, di corte d’appello  e di cassazione è data dal maggior numero di teste che esaminano le questioni, dalla complessiva e maggiore esperienza dei magistrati d’appello e di cassazione, dal tempo che passa tra l’uno e l’altro grado di giudizio. Ogni altra pretesa diversità intrinseca di struttura, di complessità e di dignità, fra i vari momenti del giudizio è perlomeno indimostrata.

Si potrebbe obiettare, forse, che l’attuale sistema non presuppone tanto un’intrinseca superiorità delle funzioni d’appello e di cassazione sulle altre, quanto piuttosto una maggiore loro importanza, per così dire, strategica. In altri termini, poiché è inevitabile che venga commesso qualche errore nel primo grado dei giudizi, sarebbe utile concentrare nei successivi gradi i magistrati più abili e preparati per eliminare tali errori, alla stregua di truppe scelte, attestate nelle retrovie con il compito di eliminare le infiltrazioni del nemico.

È facile, tuttavia, ribattere: 1) che in generale è meglio combattere efficacemente in prima linea anziché nelle retrovie; 2) che, se la caccia agli errori nei giudizi altrui non è intrinsecamente più difficile del formulare giudizi per la prima volta, non vi sarebbe ragione di adibire i magistrati più abili ed esperti a quella funzione anziché a questa; 3)  che, in concreto, il controllo dei magistrati di corte d’appello e di cassazione, cade, come s’è visto, su lavori che sono opera anche dei loro pari grado.

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4) Circa il secondo punto, riguardante la selezione dei magistrati, basata sulla preparazione tecnico-giuridica e sulla capacità di farne uso, il discorso, per essere esauriente, dovrebbe farsi lungo e, forse, complesso, ma per non tediare troppo i lettori mi limiterò a delinearlo nell’essenziale.

a) Che cosa significano, sul piano scientifico, espressioni come selezione, gerarchia di valori, preparazione, capacità, merito, sentenza perspicua, indagine penetrante e simili, riferite al campo che ci interessa? Con quale metro si misurano, con quale bilancia si pesano, il valore e la capacità, la perspicacia e la penetrazione? Da un punto di vista che si potrebbe dire operazionistico, considerando, cioè, in concreto come si regolano i selezionatori, si può forse dire che vengono prescelti coloro che scrivono senza errori di diritto, o con meno errori, le motivazioni delle sentenze riguardanti i casi più difficili, nell’evidente presupposto che il massimo grado di giustizia di una decisione coincida con il minor numero di errori in essa contenuti. (Spiego per i profani che la decisione della causa, consacrata nel «dispositivo», deve essere giustificata, cioè «motivata» per iscritto dal giudice e, se questo è collegiale, da un magistrato a ciò di volta in volta delegato, detto «estensore»).

Che cosa significano, sul piano scientifico, espressioni come selezione, gerarchia di valori, preparazione, capacità, merito, sentenza perspicua, indagine penetrante e simili […]?

Evidentemente, il problema e solo spostato, poiché bisognerebbe stabilire che cosa si intenda per «casi più difficili», ma supponiamo di essere d’accordo su ciò.

b) Resterebbe sempre il fatto che la possibilità di superare la selezione dipenderebbe dalla possibilità di avere casi difficili da risolvere, il che non si verifica allo stesso modo per il giudice del piccolo centro, come per quello della grossa città. Inoltre, la probabilità di evitare gli errori dipenderebbe, in parte, dalla bravura degli avvocati e, nel caso dei giudici collegiali, da quella degli altri componenti il collegio.

Ma si tratta, in fondo, di aspetti marginali del problema, sebbene sia lecito sospettare che alcuni alti magistrati siano tali solo per avere lavorato a Roma anziché a Rio Bo o per essere stati vicini a colleghi ed avvocati brillanti, invece che mediocri.

c) Il vero problema riguarda gli errori di diritto. Attorno a questa espressione «errori di diritto» non sembra, a prima vista, che possano nascere degli equivoci. Invece un equivoco c’è. Naturalmente, non vengono presi qui in considerazione gli sbagli grossolani ed inammissibili che anche un bambino potrebbe rilevare e che dipendono da plateale ignoranza o distrazione, come nel caso in cui il giudice trascurasse addirittura l’esistenza di un norma pacifica o ne applicasse una inesistente, oppure affermasse principi illogici o sconosciuti od attribuisse alle parole significati che certamente non hanno. A parte il fatto che nessun giudice, cui fosse sfuggito in una sentenza qualcuno di tali marchiani errori, l’userebbe mai per essere selezionato, è chiaro che la bravura di un giurista può emergere soltanto se egli abbia dovuto misurarsi con questioni serie, cioè risolvere dilemmi autentici che, se sono puramente giuridici, si riducono alla fine a problemi d’interpretazione, ossia di ricerca del «vero» significato delle proposizioni normative.

Ora, pretendendo che la selezione che determina la gerarchia dei magistrati sia fondata sulla ricerca degli errori di diritto, si postula necessariamente che questi siano – per così dire – obiettivi, ossia sempre e da tutti (in determinate condizioni) chiaramente riconoscibili. Ne consegue che il campo del diritto dovrebbe avere la struttura di un perfetto sistema scientifico simile ad una macchina calcolatrice dentro la quale fossero inserite, come un programma, le leggi. Chiunque, introducendo un fatto, girasse l’apposita manovella, potrebbe ottenere, con matematica precisione, la giusta sentenza.

Pretendendo che la selezione che determina la gerarchia dei magistrati sia fondata sulla ricerca degli errori di diritto, si postula necessariamente che questi siano […] obiettivi, ossia sempre e da tutti […] chiaramente riconoscibili. Ne consegue che il campo del diritto dovrebbe avere la struttura di un perfetto sistema scientifico simile ad una macchina calcolatrice dentro la quale fossero inserite, come un programma, le leggi. Chiunque, introducendo un fatto, girasse l’apposita manovella, potrebbe ottenere, con matematica precisione, la giusta sentenza

In base a questa concezione, le differenti soluzioni di uno stesso caso, determinate da divergenza di opinione circa la volontà della legge, dovrebbero attribuirsi o ad imperfetta formulazione di essa, ovvero ad impreparazione e scarso rigore logico degli interpreti. Sembra lapalissiano infatti che ciascuna legge non possa avere, teoricamente, che uno e un solo significato e che ogni questione di diritto non possa ricevere che una e una sola soluzione, sia pure, talvolta, per vie diverse e molto complicate.

Tutto ciò presuppone che si possa, almeno teoricamente, prevedere e regolare, senza ambiguità, tutti i fatti della vita mediante le proposizioni del linguaggio in un sistema privo di contraddizioni, costituito dalle norme di legge e dal complesso delle regole d’interpretazione dei giurisperiti. Ma dietro a questi schemi mentali si nascondono, strettamente connessi tra loro, due pregiudizi, due false nozioni, che Francesco Bacone avrebbe probabilmente classificato tra gli idola fori.

5) Il primo ha origine dall’idea che le parole assomigliano ad etichette da applicare sulle cose reali, a specie di lenzuoli per rivestire e rivelare all’esterno i concetti, altrimenti intesi come spettrali entità di un misterioso mondo immateriale. Forse per gli oggetti che «si mostrano» come un sasso, una pipa, un fiore, l’idea delle parole-etichetta, distinte all’oggetto designato, può, tutto sommato, passare senza gravi inconvenienti, ma non lo può assolutamente per i fenomeni complessi come quelli che vanno comunemente sotto il nome di concetti, pensieri e simili.

Dietro a questi schemi mentali si nascondono, strettamente connessi tra loro, due pregiudizi […]. Il primo ha origine dall’idea che le parole assomigliano ad etichette da applicate sulle cose reali, a specie di lenzuoli per rivestire e rivelare all’esterno i concetti, altrimenti intesi come spettrali entità di un misterioso mondo immateriale

Non vi è alcuna ragione per credere che esista da una parte il pensiero in sé, dall’altra il suo rivestimento linguistico. Le proposizioni del linguaggio tanto pensate, quanto scritte o parlate, sono esse stesse i concetti che esprimono, così come questi non sono nient’altro che le parole da cui sono espressi. Oltre alla proposizione «il sasso cade», «il fiore e vicino alla pipa» non esistono le corrispondenti idee che il sasso cada e che il fiore sia vicino alla pipa. Per esempio, la teoria di Maxwell non è che le equazioni di Maxwell. Ogni altra cosa che si dicesse per illustrarla sarebbe superflua o fuorviante o sbagliata.

Non tenendo canto di ciò potrebbe accadere che qualcuno, dopo aver definito l’uomo, per comodità classificatoria, «bipede implume», pretendesse di considerare uomini i polli pennati, e non-uomini i disgraziati privi delle gambe.

È difficile esprimere compiutamente il senso di quello che sto dicendo, perché oltre un certo limite di approssimazione non si può andare, come ci hanno ben mostrato alcuni grandi pensatori e scienziati degli ultimi decenni.

In un certo qual modo, non è (logicamente) possibile parlare di una cosa dal suo interno, per la stessa ragione che impedisce ad un occhio di vedersi, a una bilancia di pesarsi, a un bastone di battersi. Nessuna proposizione può dire qualcosa di se stessa. Tutto ciò che sta dentro un sistema, un universo – ed è il caso del linguaggio – non è capace di esprimersi, di conoscersi fino in fondo, senza residui. Per farlo bisognerebbe potersi porre al di là del sistema, fuori dall’universo. Bisognerebbe costruire, come si dice, un metalinguaggio, una metalogica.

Non è (logicamente) possibile parlare di una cosa dal suo interno […]. Nessuna proposizione può dire qualcosa di se stessa […]. Per farlo bisognerebbe potersi porre al di là del sistema, fuori dall’universo

In verità, non e nemmeno corretto parlare dell’impossibilità dell’occhio di vedere se stesso, del bastone di battere e stesso ecc., poiché non si tratta di un’impossibilità, ma semplicemente di un problema male impostato, privo di senso.

Il solo fatto di esporlo, sia pure per rifiutarlo, implica un arbitrio logico.

Si possono certamente disgiungere le parole, intese come segni materiali sulla carta o suoni nell’aria, dalla loro significazione. Ma come potrebbe supporsi l’esistenza di pure-parole campate in aria, avulse dal loro senso? Che cosa sarebbe mai una proposizione nella quale si prescindesse da quel «quid» che distingue appunto un insieme confuso di segni o di suoni, da una vera proposizione? E viceversa come potrebbe concepirsi il puro-senso di una parola o di una proposizione, staccato da ogni struttura linguistica?

Sarebbe come volere una medaglia con una sola faccia, un disegno senza fondo, l’alto senza il basso, la numerazione senza i numeri. Sarebbe come se, ad una mostra di pittura, dopo aver osservato i quadri esposti si pretendesse di vedere «la mostra», oppure se il custode di un passaggio a livello, dopo il transito del locomotore e tutti i vagoni, aspettasse quello «del treno» per alzare le sbarre.

Le proposizioni linguistiche, in un certo senso, stanno ai fatti come le coordinate stanno alle figure geometriche. Non si possono pensare figure prive di coordinate, ma nemmeno coordinate senza figure.

Quella «forma» che tutte le proposizioni fornite di senso hanno in comune tra loro, si mostra, nelle proposizioni, ma le proposizioni non la possono descrivere.

Ora, se le parole e le proposizioni non sono qualcosa di diverso dai fatti della vita e segnatamente dai concetti che esprimono, ma sono, per così dire, dentro di essi, come parte essenziale della realtà, si comprende come sia illusorio credere di poter arrivare a disporre di un sistema di regole cui applicare con scientifica precisione tutti i fatti della vita. Per tale sistema, invero, occorrerebbe un insieme ordinato di proposizioni, capace di riflettere o rappresentare biunivocamente tutta la realtà e che dovrebbe perciò essere collocato all’esterno, al di là, al di sopra di essa. Ma si tratterebbe, allora, di un sistema fuori di se stesso, cioè di un assurdo.

Se le parole e le proposizioni non sono qualcosa di diverso dai fatti della vita e segnatamente dai concetti che esprimono, ma sono, per così dire, dentro di essi, come parte essenziale della realtà, si comprende come sia illusorio credere di poter arrivare a disporre di un sistema di regole cui applicare con scientifica precisione tutti i fatti della vita

In pratica gli uomini, grazie agli infiniti inconsapevoli compromessi che quotidianamente compiono manipolando le parole, riescono ad intendersi in modo soddisfacente nella stragrande maggioranza delle situazioni. Resta però, insopprimibile, un settore di problemi non decidibili secondo i principi della logica o delle scienze della natura. Sono questi i casi difficili, le questioni non oziose della giurisprudenza, per cui sono necessari i giudici.

6) Il secondo pregiudizio, che è in stretta correlazione con il primo, riguarda la logica e il fondamento delle teorie scientifiche. Anche qui il discorso è, per le ragioni già dette, inadeguato. La logica infatti, si mostra qual è, ma parlarne, servendosi dello stesso linguaggio in cui si articola, è un po’ come voler sollevarsi da soli per i capelli. Il senso comune immagina la logica come una macchina nel cervello, una specie di calcolatore elettronico capace, in potenza, di sciogliere tutti gli enigmi dell’universo, una sorta di binario perfetto capace di trasportare il pensiero da qualunque punto a qualunque altro punto dell’universo concettuale, una chiave buona per aprire tutte le serrature.

Si ammette bensì che possano accadere degli accidenti, che la macchina possa guastarsi o la locomotiva uscire dalle rotaie, o la serratura arrugginirsi, ma non si dubita che in teoria ogni problema possa venire risolto, ogni meta raggiunta, ogni porta spalancata.

Il secondo pregiudizio […] riguarda la logica e il fondamento delle teorie scientifiche. Anche qui il discorso è, per le ragioni già dette, inadeguato. La logica infatti, si mostra qual è, ma parlarne, servendosi dello stesso linguaggio in cui si articola, è un po’ come voler sollevarsi da soli per i capelli

In verità, simili macchine, rotaie o chiavi onnipotenti, non sono affatto impossibili. Per realizzarle basterebbe soltanto avere prima alcune semplici precauzioni: programmare il calcolatore in modo da renderlo idoneo a risolvere tutti i problemi desiderati; costruire una rete di binari abbastanza fitta da collegare tutti i punti che interessano; munire ogni porta di una serratura adatta all’unica chiave disponibile. Il succo di tutta la faccenda sta nella lapalissiana conclusione che ogni domanda ammette una determinata risposta logica, soltanto se è stata posta in modo da ammettere quella risposta e non per effetto di un misterioso potere della logica. Per esempio, il principio di non contraddizione non ha di per sé alcuna virtù magica. Non è che con esso sia dato evocare dalle pieghe dei problemi il vero ed il falso, il giusto e l’ingiusto, ma è la semplice circostanza che quei problemi siano tali da offrire un’unica soluzione, a determinare l’impossibilità logica di diverse contemporanee soluzioni. Il principio, cioè, non crea l’incompatibilità, ma è l’incompatibilità che crea il principio.

Un insieme di proposizioni è completo e coerente quando ogni conclusione logica che se ne possa trarre è implicita nelle premesse o, come si dice, tautologica. In un sistema completo e coerente ogni conclusione non tautologica è arbitraria o priva di senso.

Come dice Russell, la conoscenza matematica «è esattamente della stessa natura della grande verità che ci sono tre piedi in una yarda».

Le entità di un sistema logico non hanno una natura in sé, ma soltanto le caratteristiche postulate entro la teoria nella quale sono considerate. II sistema della logica funziona perfettamente soltanto nello stesso ambito e in quello delle teorie fondate su un insieme di assiomi completo e coerente, come le matematiche e le varie geometrie (piana, ellittica, iperbolica). Il sistema serve, altresì, in tutti i campi nei quali si possono adattare modelli matematici (fisica, chimica, cibernetica, biologia, economia) ai dati sperimentali, in una sorta di simbiosi tra il metodo deduttivo e quello induttivo, il che avviene soltanto quando l’intero campo d’indagine sia ordinato entro una rete di rapporti puramente quantitativi.

7) Nell’idea del diritto (più precisamente dell’attività di interpretazione giuridica) come sistema scientifico, le norme dell’ordinamento vengono concepite, più o meno consapevolmente, come qualcosa di simile agli assiomi e postulati della scienza pura (logica-matematica, geometria), oppure come fossero gli «oggetti» delle scienze empiriche.

Nel primo caso, le regole d’interpretazione si fanno corrispondere alle regole di trasformazione delle formule assiomatiche, le sentenze ai teoremi.

Nel secondo caso, l’apparato teorico impiegato (i princìpi) si identifica con quello in uso nelle scienze applicate (in definitiva le ordinarie regole della logica), le sentenze con le leggi fisiche, biologiche ecc.

Si tratta in entrambi i casi di un’idea falsa perché le proposizioni legislative, evidentemente, non assomigliano neanche un poco ad un insieme completo e coerente di proposizioni formalizzate e irriducibili e neppure ad un campo di fenomeni «obiettivi», tutti misurabili e catalogabili quantitativamente. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, alla coscienza e volontà, alla responsabilità, alla colpa, al potere discrezionale, alla malafede, al buon costume, alla scusabilità dell’errore e così via.

Le proposizioni legislative, evidentemente, non assomigliano neanche un poco ad un insieme completo e coerente di proposizioni formalizzate e irriducibili e neppure ad un campo di fenomeni «obiettivi», tutti misurabili e catalogabili quantitativamente. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, alla coscienza e volontà, alla responsabilità, alla colpa, al potere discrezionale, alla malafede, al buon costume, alla scusabilità dell’errore e così via

Le conclusioni che discendono dalle considerazioni sin qui svolte non hanno la pretesa di essere delle novità. Chiunque abbia un poco il senso della storia e qualche dimestichezza con i problemi de] pensiero scientifico, può averle già fatte proprie.

Io spero soltanto che la mia analisi valga a convincere qualche altra persona che le «selezioni» dei giudici non si giustificano se non invocando ingombranti fantasmi. Ed i fantasmi non servono migliorare il sistema d’amministrazione della giustizia, ma tutt’al più a difendere interessi particolari.

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A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

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