We publish here, courtesy of the Publisher, the text of the Editorial published in Il Ponte – Rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei, year V, no. 3, March 1949, pp. 225 ff.
The text was recently taken up by G. Findaca, in his Reflection “Knowing in order to better reform“, published in this journal on February 10, 2021.
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«Le carceri italiane… rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori…».
Queste sono parole di Filippo Turati: le pronunciò alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1904, in un discorso memorabile, che poi fu pubblicato in opuscolo sotto il titolo “Il cimitero dei vivi”. Le carceri italiane, cimitero dei vivi; erano così cinquant’anni fa, sono così oggi, quasi immutate. Alla fine di quel discorso il Turati, dopo aver descritto quelle prigioni che egli stesso, pochi anni prima, aveva esperimentate come recluso politico, si diceva sicuro che:
«I nostri figli, ne ho la convinzione, ricordando l’attuale sistema carcerario italiano, lo considereranno con quello stesso senso di orrore con cui noi guardiamo, quando andiamo in Castel Sant’Angelo, il carcere di Beatrice Cenci e le altre segrete del Medioevo…».
Le carceri italiane, cimitero dei vivi; erano così cinquant’anni fa, sono così oggi, quasi immutate
Era troppo ottimista: i figli sono cresciuti, sono cresciuti i nipoti; ma il nostro sistema carcerario medievale è rimasto com’era. Anzi, sotto qualche aspetto, è peggiorato; perché se nei primi quindici anni di questo secolo, per la tenacia di apostoli isolati, si vide sorgere anche in Italia qualche stabilimento carcerario modello ispirato a criteri civili di igiene e di umanità, la coalizione generale delle carceri è oggi ricaduta negli orrori dì un tempo. E ciò per due ragioni: sotto l’aspetto edilizio ed igienico, perché la seconda guerra mondiale, con tutte le rovine da essa causate, ha distrutto anche numerosi stabilimenti di pena, in modo che oggi anche nelle prigioni vi è una spaventosa crisi degli alloggi, che condanna a rimanere stivata in locali diminuiti di numero e ridotti spesso a nude mura, una popolazione carceraria sovrabbondante; e più sotto l’aspetto spirituale, perché il passaggio del ventennio fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori, colla riforma della legislazione penale e dei regolamenti carcerari, un soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria, che senz’accorgersene sopravvive al fascismo. Se oggi nella stampa è diventato un episodio ordinario di cronaca nera, che lascia indifferenti i lettori, il fatto di detenuti che soccombono alle sevizie inflitte loro nel carcere, si deve ringraziare ancora quel celebre art. 16 del Codice di procedura penale del 1930, che garantendo praticamente l’impunità agli agenti di pubblica sicurezza «per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica», costituiva una specie di tacita istigazione alla tortura.
Del cupo spirito che alimentava il regolamento carcerario del 1931 dovuto al guardasigilli Alfredo Rocco, scriverà in questo fascicolo Mario Vinciguerra: ma non si deve dimenticare che nell’inasprire il sistema penale e penitenziario, il ministro era ben d’accordo col suo padrone. Quando, al congresso di una società che continuava a intitolarsi al «progresso delle scienze», si trovò un professore ordinario di diritto penale che dedicò un panegirico alla «funzione della pena nel pensiero di Benito Mussolini», il festeggiato, che aveva concesso a quei bravi scienziati la degnazione della sua presenza, volle benignarsi di aggiungere egli stesso qualche parola a illustrazione di sé medesimo; e pronunciò anche in quella occasione alcune di quelle frasi lapidarie colle quali soleva inchiodare la storia. In polemica contro coloro che si erano agganciati all’antropologia criminale», egli in quattro battute sventò i pregiudizi di chi si ostinava a fare apparire Beccaria come contrario alla pena di morte.
«… Io avevo avuto sempre l’impressione che molti di coloro i quali si riferivano a Cesare Beccaria, in realtà, come spesso succede, non avevano letto il suo libro Dei delitti e delle pene. Io mi volli documentare, e chiesi alla biblioteca Sonzogno quel volumetto di proporzioni minuscole, che ognuno di voi probabilmente può facilmente acquistare. E allora – controllate, vi prego, se io dico il vero – venni a questa semplice constatazione: che Cesare Beccaria non era affatto contrario alla pena di morte…».
Io avevo avuto sempre l’impressione che molti di coloro i quali si riferivano a Cesare Beccaria, in realtà, come spesso succede, non avevano letto il suo libro Dei delitti e delle pene. Io mi volli documentare, e […] venni a questa semplice constatazione: che Cesare Beccaria non era affatto contrario alla pena di morte
E poi, anche a proposito delle carceri, egli portò, come soleva, il verbo definitivo: mise in guardia coloro che studiano le carceri dal:
«Vedere questa umanità sotto un aspetto forse eccessivamente simpatico… Credo che sia prematuro abolire la parola pena e credo che non sia nelle intenzioni di alcuno convertire le carceri in collegi ricreativi piacevoli, dove non sarebbe poi tanto ingrato il “soggiorno”».
Difatti la storia, fedele alla consegna, assicura che il fascismo non convertì le carceri in collegi ricreativi piacevoli. E tuttavia, anche se la condizione delle carceri è ricaduta a quella che era mezzo secolo fa, vi è oggi nella vita pubblica italiana un elemento nuovo, che potrebbe essere decisivo per una fondamentale riforma di esse. Se nel 1904 gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono certamente centinaia; solo nel Senato siedono diverse decine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di reclusione per condanna del Tribunale speciale. Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po’ di luce di umanità nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre questa volta la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!
Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po’ di luce di umanità nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre questa volta la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!
Nel 1904 Filippo Turati propose una commissione di inchiesta:
«Se volete una commissione efficace in questa materia non la dovete comporre di consiglieri di Stato o di eccellenti burocrati, pieni di esperienza legislativa o regolamentare, ma dovete cercare delle forze vive, degli apostoli veri, che abbiano il coraggio di squarciare i veli, di mettere a nudo tutte le vergogne del nostro sistema carcerario».
Se volete una commissione efficace in questa materia non la dovete comporre di consiglieri di Stato o di eccellenti burocrati, pieni di esperienza legislativa o regolamentare, ma dovete cercare delle forze vive, degli apostoli veri, che abbiano il coraggio di squarciare i veli, di mettere a nudo tutte le vergogne del nostro sistema carcerario
Ma il ministro del tempo si oppose alla proposta; gli pareva una menomazione della sua autorità di governo. Una inchiesta analoga è stata nuovamente proposta nel 1948. Questa volta la proposta, sia pure in una forma un po’ attenuata, è stata accolta da un guardasigilli di più largo ed umano respiro. La nomina di una commissione è stata promessa: essa potrà avere il vanto di esser composta in gran parte di deputati e di senatori ex reclusi, che quando andranno a visitare le prigioni vi ritroveranno sulla soglia l’ombra del loro dolore e la guida scaltrita della loro consapevolezza. Intanto, in attesa che la promessa sia mantenuta, si cominciano a radunare in questo fascicolo le testimonianze di coloro che hanno sofferto questi inumani orrori: che son motivo di fierezza per chi ora può ricordare vivo dì averli affrontati in difesa dì un’idea; ma che sarebbero, per quel governo che conoscendoli continuasse d’ora innanzi a non far nulla per portarvi rimedio, motivo di infamia.