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18.12.2019
Paolo Della Sala - Alessia Palumbo

End of life issues. Interview with Paolo Della Sala

Questions regarding impunity for assisted suicide in light of the recent decision by the Constitutional Court (hearing on 25 September last)*

Issue 12/2019

We asked Paolo Della Sala, Lawyer of the Milan bar, former adjunct Professor of Criminal Procedural Law at the Specialization School for Legal Profession, University of Milan, to give us his professional perspective on the decision by the Constitutional Court in the matter of impunity for assisted suicide under certain conditions.

***

Nel comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Consulta il 25 settembre a valle dell’udienza si legge: «la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli»[1].

Dal Suo punto di vista professionale, quali sono le principali implicazioni della suddetta decisione, sia sotto il profilo teorico sia a livello pratico?

La soluzione adottata dalla Corte, pur di portata generale, è, inevitabilmente, influenzata dalla vicenda di Fabiano Antoniani così che i principi affermati nella sentenza paiono calibrati sul caso oggetto della decisione.

Potendomi giovare delle motivazioni della sentenza (n. 242 del 2019), depositate lo scorso 22 novembre, rilevo che la Corte costituzionale si è posta nell’alveo del percorso già elaborato dalla giurisprudenza (v. fra l’altro, i casi di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro) i cui principi erano stati già recepiti dalla legge 219 del 2017. La recente sentenza della Corte, infatti, invita il legislatore a disciplinare una procedura medicalizzata che consenta di accedere alla pratica del suicidio assistito alle persone che si trovino in condizioni fisiche e psicologiche assimilabili, concettualmente, a quelle in cui versava Fabiano Antoniani.

In particolare, si afferma che per ritenere scriminata la condotta di agevolazione al suicidio di una persona sia necessario che il «proposito suicidario sia autonomamente e liberamente formatosi», che questa sia tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale» e sia affetta da una «patologia irreversibile», fonte di «sofferenze fisiche e psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Per giungere a riconoscere questa circoscritta area di liceità la Corte, lungi dall’affermare il diritto di morire, anzi negandolo a gran voce[2], pare piuttosto aver valorizzato il diritto di non soffrire quale corollario dell’autodeterminazione terapeutica che trova suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost[3].

Invero, già con l’introduzione della legge sulle cure palliative[4] si è avvalorata l’idea secondo cui il paziente non è oggetto del curare ma appunto soggetto la cui individualità e identità vanno salvaguardate. La legge, infatti, definisce il trattamento del dolore e – più in generale – della sofferenza soggettiva una terapia a tutti gli effetti, verso la cui cura è imposto il dovere del medico di curare[5].

Per giungere a riconoscere questa circoscritta area di liceità la Corte, lungi dall’affermare il diritto di morire, anzi negandolo a gran voce, pare piuttosto aver valorizzato il diritto di non soffrire quale corollario dell’autodeterminazione terapeutica che trova suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.

L’inclusione nel concetto di salute dell’aspetto soggettivo e psicologico parrebbe aver spinto la Corte a includere nel concetto di terapia anche un sostegno farmacologico che possa, a condizioni date, determinare una accelerazione del decorso clinico portando il paziente ad un exitus cui comunque sarebbe pervenuto in caso di sedazione profonda, sebbene con tempistiche più dilatate. Ciò vorrebbe dire che, ai fini giuridici, debba considerarsi trattamento terapeutico non solo ciò che consenta al paziente di mantenere le funzioni vitali ma anche ciò che lo induca in via definitiva a liberarsi dal dolore e a morire con tempistiche contratte rispetto a quelle previste dalla normativa di cui alla legge 219/2017.

L’inclusione nel concetto di salute dell’aspetto soggettivo e psicologico parrebbe aver spinto la Corte a includere nel concetto di terapia anche un sostegno farmacologico che possa, a condizioni date, determinare una accelerazione del decorso clinico portando il paziente ad un exitus cui comunque sarebbe pervenuto in caso di sedazione profonda, sebbene con tempistiche più dilatate

Tale prospettiva interpretativa è resa palese nella parte della sentenza in cui si afferma che « […] entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita».

Ed infatti, la somministrazione di un trattamento che potremmo definire di tipo “farmacologico rafforzato” rispetto a quello oggi previsto, varrebbe, in verità, come alternativa terapeutica per quei soggetti che «[…] già potrebbero lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5» della legge n. 219 del 2017 con la somministrazione, prevista dell’articolo 2 della medesima legge, di una terapia del dolore e l’accesso alla sedazione palliativa profonda e continua.

Parrebbe dunque di capire, che, allo stato, la Corte, ancorandosi agli artt. 1 e 2 della legge 219/2017, abbia inteso circoscrivere la somministrazione di quel “trattamento farmacologico rafforzato” alle situazioni in cui attualmente è legittimo attivare una sedazione profonda: si tratta delle ipotesi di imminenza della morte ovvero di trattamento di un sintomo refrattario[6] «nel periodo che inizia quando l’aspettativa di vita del malato viene giudicata compresa tra poche ore e pochi giorni secondo la valutazione del medico, d’intesa con l’équipe curante»[7]. In tal senso, ben si comprende che il suicidio assistito di cui si tratta varrebbe a determinare la morte in misura sensibilmente accelerata rispetto a quanto avverrebbe con la mera interruzione dei trattamenti necessari alla sopravvivenza e la contestuale sedazione palliativa.

Ma questa accelerazione, ed è un punto fondante della decisione, non ha una incidenza causale sulla direzione del decorso clinico, bensì semplicemente sulla sua “velocità”. In sintesi, ragionando in termini lineari, è una forza che si innesta su una direzione senza mutarne l’orientamento.

Parrebbe dunque di capire, che, allo stato, la Corte, ancorandosi agli artt. 1 e 2 della legge 219/2017, abbia inteso circoscrivere la somministrazione di quel “trattamento farmacologico rafforzato” alle situazioni in cui attualmente è legittimo attivare una sedazione profonda […]. In tal senso, ben si comprende che il suicidio assistito di cui si tratta varrebbe a determinare la morte in misura sensibilmente accelerata rispetto a quanto avverrebbe con la mera interruzione dei trattamenti necessari alla sopravvivenza e la contestuale sedazione palliativa

Il “soggetto passivo” avrebbe dunque la libertà di scegliere tra l’interruzione dei trattamenti sanitari (anche salvavita) con ricorso alla «sedazione terminale»[8] (palliativa), e quella che mi verrebbe da definire «sedazione fatale» che, riprendendo le parole della Corte, valga invece a sottrarlo «al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».

Le due modalità di sedazione, così come appena intese, si discostano concettualmente l’una dall’altra solo (e non è differenza da poco) nella parte in cui il decorso naturale viene, per così dire, facilitato con ciò comportando il passaggio da una posizione “passiva” ad una più “attiva”. Ho trovato assai efficace l’affermazione secondo cui «con l’attivazione di una sedazione palliativa profonda e continua […], ad essere indotta è la cessazione dell’individuo, della sua identità e capacità di relazione ed interazione, mentre a sopravvivere, benché per poco ancora, è il mero organismo con le sue funzioni vegetative: in altri termini, l’uomo muore sia con l’iniezione letale sia con la sedazione, con l’unica differenza che, nella seconda ipotesi, rimane la pianta»[9].

 

Marco Cappato, a seguito della pronuncia della Consulta, ha rilasciato, tramite social network, la seguente dichiarazione: «la Consulta ha deciso […]. Da oggi siamo tutti più liberi».

Qual è la Sua opinione in merito alla suddetta affermazione? 

Privare una persona nelle condizioni di Fabiano Antoniani della possibilità di scegliere la tempistica utile a porre fine alle proprie sofferenze non era ragionevole. Si può ritenere, tuttavia, che ciò non rappresenti né debba rappresentare l’esercizio di una libertà intesa in senso assoluto.

La drammaticità e complessità delle vicende che la prassi si troverà ad affrontare impone cautela.

«Siamo tutti più liberi» è una giustificata manifestazione di entusiasmo da parte di chi è stato sofferto protagonista della vicenda. Ma non deve essere, a mio avviso, la sintesi di una riflessione condivisa a livello generale poiché avere una astratta possibilità di scelta rivela, in questo caso, tutta la sua drammatica relatività.

Anche una visione laica di queste tematiche impone grande prudenza, soprattutto poiché ci si può trovare di fronte a persone vulnerabili indotte a dover fare un’intima valutazione che tenga conto delle esigenze umane, familiari, sociali e della percezione che ciascuno ha di sé e delle persone a sé vicine.

Privare una persona nelle condizioni di Fabiano Antoniani della possibilità di scegliere la tempistica utile a porre fine alle proprie sofferenze non era ragionevole. Si può ritenere, tuttavia, che ciò non rappresenti né debba rappresentare l’esercizio di una libertà intesa in senso assoluto

La facoltà ora prevista consente a soggetti che si trovino in condizioni drammatiche di esercitare un’opzione “in più”, ma solo un attento monitoraggio della modalità di formazione della volontà, anche in relazione al contesto personale, familiare e sociale in cui matura, renderà questa possibilità una opzione effettiva e non una scelta “incatenata”, per esempio, al senso di “essere un peso”: bisogna, cioè, prestare attenzione allo scivolamento (la famosa “slippery slope”) verso una “aspettativa” di scelta che trasformerebbe una opzione in più in una “prigionia decisionale”.

Ciò dico perché istintivamente collego il concetto di “libertà” alle espressioni più gioiose della vita mentre, in questo caso, i fattori che condizionano la condivisibile opportunità messa a disposizione dei malati sono molteplici, drammatici e, per certi aspetti, “vincolanti”.

Istintivamente collego il concetto di “libertà” alle espressioni più gioiose della vita mentre, in questo caso, i fattori che condizionano la condivisibile opportunità messa a disposizione dei malati sono molteplici, drammatici e, per certi aspetti, “vincolanti”

Per espressa statuizione formulata dalla Corte costituzionale nel comunicato stampa di cui sopra, la decisione in ordine alla non punibilità dell’aiuto al suicidio a determinate condizioni deve ritenersi valida «nell’attesa di un indispensabile intervento del legislatore» volto a disciplinare la materia del fine vita.

Quali sono, a Suo avviso, i principali aspetti e i profili critici sui quali l’eventuale intervento legislativo dovrebbe focalizzare maggiormente l’attenzione?

In primo luogo un aspetto che certamente dovrà essere vagliato dal legislatore concerne la necessità di seguire il monito della Corte e garantire uniformità di accesso alle cure palliative. Si deve, infatti, evitare che si tratti di una scelta obbligata e non già una effettiva ponderazione tra le alternative terapeutiche volte a porre fine in via definitiva al dolore. La Corte ha in proposito lucidamente osservato come debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e «l’accesso alle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 e ciò considerando che l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita».

Un primo spunto, dunque, deriva anche da come si possa determinare la scelta più opportuna per il singolo, posto che, detta rozzamente, tra “morire subito” e “morire poco dopo” in una situazione di incoscienza o di incoscienza cui si pervenga attraverso fasi intermedie, sembra ben possibile che, in alcuni ambiti culturali, si dia privilegio alla soluzione più veloce non solo da parte del malato ma, anche, quale implicita aspettativa, da parte del suo ambito di riferimento.

In secondo luogo meriterebbe di essere chiarito, e sul punto è auspicabile una presa di posizione del legislatore, se l’alternativa prospettata possa essere oggetto anche di disposizioni anticipate di trattamento. Le condizioni richieste dalla Corte, in verità, sembrerebbero sbarrare questa possibilità nella misura in cui si richiede che l’interessato conservi il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale. Tuttavia laddove si consenta di rifiutare le cure con sedazione profonda anche mediante le DAT (art. 4 legge 219/2017), si potrebbe estendere tale disciplina anche al suicidio assistito con un consenso espresso “ora per allora” nell’ottica di garantire un’uguaglianza sostanziale ai sensi dell’art. 3 Cost.

Occorrerebbe, tuttavia, in tal caso rivedere anche la modalità di raccolta delle DAT dal momento che i moduli attualmente messi a disposizioni risultano certamente generici e lontani dall’essere espressione della necessità di garantire una formazione della volontà che possa essere, soprattutto per le persone vulnerabili, lontano dalla spersonalizzazione e degli abusi.

Certamente degno di analisi è il trattamento da riservare ai minori e a quei soggetti inabilitati o interdetti che ad oggi, a norma dell’art. 3 della legge 219/2017, possono esprimere il consenso o dissenso alle cure per il tramite degli esercenti la responsabilità genitoriale, nell’un caso, e del tutore e amministratore di sostegno, nell’altro caso.

Anche in tal caso parrebbe trovarsi nella sentenza della Corte uno sbarramento nella necessità che la persona che manifesti la volontà di ricorrere al suicidio assistito sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli in concomitanza con la fase del trattamento terapeutico terminale.

Certamente degno di analisi è il trattamento da riservare ai minori e a quei soggetti inabilitati o interdetti che ad oggi, a norma dell’art. 3 della legge 219/2017, possono esprimere il consenso o dissenso alle cure per il tramite degli esercenti la responsabilità genitoriale, nell’un caso, e del tutore e amministratore di sostegno, nell’altro caso

Eventuali considerazioni ulteriori?

Dal punto di vista teorico, per quanto ragionevole si voglia considerare questa soluzione, non può ignorarsi come la stessa possa trovare una frizione con il ruolo dell’agire medico e con obiezioni di carattere etico.

Il testo del giuramento di Ippocrate – testo che nell’arco del tempo è stato oggetto di interpolazioni e modifiche volte, evidentemente, a convogliare orientamenti etici condivisi dalla comunità scientifica ad un dato momento – recita: «giuro […] di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente»[10].

Dal punto di vista teorico, per quanto ragionevole si voglia considerare questa soluzione, non può ignorarsi come la stessa possa trovare una frizione con il ruolo dell’agire medico e con obiezioni di carattere etico

Non solo. Il Codice di deontologia medica prevede all’articolo 3 che «doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza» e, all’art. 17, che «il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte».

La soluzione della Corte parrebbe glissare il confronto con questi articoli laddove valorizza l’aspetto terapeutico della «sedazione fatale». Tuttavia, l’attuazione di questa pratica, dal momento che, comunque la si intenda, induce alla morte del paziente, stride inevitabilmente con le norme richiamate che dovranno, a mio avviso, essere adattate ad un nuovo quadro delle fonti primarie di riferimento.

Penso, quindi, che questa decisione della Corte, da me totalmente condivisa, rappresenti un punto di partenza di un viaggio ancora lungo e, probabilmente, senza punti di approdo nel difficile mondo della bioetica, mondo cui ci stiamo solo ora affacciando e che costituisce un universo ancora inesplorato.

 


 

 

* Lo scorso 25 settembre, la Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita.

[1] Il comunicato è accessibile a questo link.

[2] Nella sentenza in commento, si legge: «“dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)” (ordinanza n. 207 del 2018)».

[3] Si condivide la posizione di chi ha lucidamente affermato che la Corte ha inteso non già legittimare «un diritto a morire con dignità quanto piuttosto un diritto alla piena dignità anche nella morte e nel far ciò ha accolto la massima declinazione della tutela della dignità umana». Così C. Cupelli, Il caso Cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte, in Diritto penale contemporaneo, 3 dicembre 2018.

[4] Con particolare riferimento al dolore legato alla malattia del cancro, l’OMS ha definito le cure palliative «[…] un approccio che migliora la qualità̀ della vita dei pazienti e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie mortali, attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’impeccabile valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali. Le cure palliative: danno sollievo al dolore e agli altri sintomi che provocano sofferenza; sostengono la vita e guardano al morire come a un processo naturale; non intendono né affrettare né posporre la morte; integrano aspetti psicologici e spirituali nell’assistenza al paziente; offrono un sistema di supporto per aiutare il paziente a vivere quanto più attivamente possibile fino alla morte; offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia a far fronte alla malattia del paziente e al lutto; utilizzano un approccio di équipe per rispondere ai bisogni del paziente a della famiglia, incluso, se indicato, il counselling per il lutto; migliorano la qualità della vita e possono anche influenzare positivamente il decorso della malattia; sono applicabili precocemente nel corso della malattia insieme con altre terapie che hanno lo scopo di prolungare la vita, come la chemioterapia e la radioterapia, e comprendono le indagini necessarie per una miglior comprensione e un miglior trattamento delle complicazioni cliniche che causano sofferenza». Così, World health organization, WHO Definition of Palliative Care, 2002.

[5] Sul punto cfr. A. Vallini, Pianificazione delle cure, medicina palliativa. I nuovi paradigmi del “fine vita”, in Riv. It. di Medicina Legale, 2016, pp. 1139 ss.

[6] Il Comitato Nazionale Bioetica, facendo propria la definizione di refrattarietà del sintomo delle Raccomandazioni della SICP sulla sedazione terminale/sedazione palliative, lo definisce come quel sintomo «che non è controllato in modo adeguato, malgrado sforzi tesi a identificare un trattamento che sia tollerabile, efficace, praticato da un esperto e che non comprometta lo stato di coscienza. Tra i sintomi refrattari più frequenti ricordiamo la dispnea, il dolore intrattabile, la nausea e il vomito incoercibili, il delirium, l’irrequietezza psico-motoria, il distress psicologico o esistenziale. All’interno di questa definizione si possono rimarcare alcune condizioni indispensabili. In tutte le situazioni cliniche che richiedono la sedazione profonda è di fondamentale importanza verificare prima l’effettiva refrattarietà del sintomo valutando che: a) il suo controllo non possa avvenire attraverso un dosaggio adeguato e proporzionato di farmaci (il più basso livello di sedazione in grado di risolvere il sintomo refrattario, con le minime conseguenze collaterali negative); b) ogni diverso o ulteriore intervento terapeutico non farmacologico non è in grado di assicurare entro un tempo accettabile sollievo al paziente o un sollievo tale da rendere tollerabile la sofferenza. Da tale diagnosi dipende sia l’appropriatezza clinica sia quella etica della scelta. Pertanto lo stato di refrattarietà di un sintomo deve essere accertato e monitorato da una équipe esperta in cure palliative di cui facciano parte medici, infermieri, psicoterapeuti». Così, CNB, Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, 26 gennaio 2016, p. 7.

[7] In tal senso, si veda Società Italiana di Cure Palliative (SICP), Raccomandazioni della SICP sulla sedazione terminale/sedazione palliative, 2007, p. 10; anche CNB, Sedazione palliativa, cit., p. 7.

[8] Il CNB ha criticato l’espressione “sedazione terminale” «per l’equivocità e l’imprecisione che veicola e propone la terminologia “sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte” per indicare la somministrazione intenzionale di farmaci, alla dose necessaria richiesta, per ridurre fino ad annullare la coscienza del paziente, allo scopo di alleviare il dolore e il sintomo refrattario fisico e/o psichico, intollerabile per il paziente, in condizione di imminenza della morte». Cfr. CNB, Sedazione palliativa, cit., p. 7.

[9] Cit. S. Cacace, La sedazione palliativa profonda e continua nell’imminenza della morte: le sette inquietudini del diritto, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 2, 1 aprile 2017, p. 469.

[10] Il testo antico recitava: «non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio».

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A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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