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26.02.2020
Ugo Varnai

Il presuntuoso cervello dell’uomo

Un’interpretazione delle malattie psicosomatiche. A.T.W. Simeons, Man’s Presumptuous Brain: An Evolutionary Interpretation of Psychosomatic Disease, Longmans, Londra, 1960

Fascicolo 2/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, il presente contributo di Ugo Varnai, originariamente apparso sulla rivista Indici comunità, 95, 1961, pp. 117 ss.

Il documento, ritenuto d’interesse per i lettori di DPU in ragione dell’estrema attualità delle riflessioni ivi contenute, è stato selezionato all’interno del patrimonio archivistico riguardante la storia della Società Olivetti (Archivio Storico Olivetti), raccolto, curato e valorizzato dall’Associazione Archivio Storico Olivetti, che ringraziamo per la preziosa collaborazione.

***

Che cos’è il cervello dell’uomo, nostro massimo orgoglio biologico? Che cos’è soprattutto quella gran parte di esso, distinta come ci insegnano a scuola in materia grigia e materia bianca, la parte che pensa e ricorda e ragiona? Lì in quella calotta a ghirigori che ricopre il resto lo spirito dell’uomo, certo la sua intelligenza e la sua volontà. Quella calotta però non è in realtà il cervello originario che la natura gli aveva dato per vivere, ma sono un’appendice ingrossata, un bulbo secondario che crescendo ha incappellati e nascosto i centri nervosi che regolavano e regolano ancora in buona parte la nostra vita vegetativa.

La rispettiva importanza biologica delle due parti si può vedere considerando ciò che accadrebbe asportando ciascuna a un uomo:

«Supponiamo di amputare a un uomo gli emisferi cerebrali senza danno al resto. Se il soggetto sopravvivesse allo shock di tale mutilazione, il suo corpo continuerebbe a vivere. Non sarebbe capace di ingoiare il cibo, perché si tratta di movimenti volontari; ma versandogli il cibo nello stomaco, sarebbe capace di digerirlo, di assimilarlo, ed evacuare i residui. I reni continuerebbero a secernere urina, la vescica piena si svuoterebbe spontaneamente. Il suo seme potrebbe generare figli normali; e normali sarebbero nella donna la gravidanza e il parto. La respirazione, la circolazione del sangue, il funzionamento delle ghiandole endocrine continuerebbero come prima. Il soggetto non potrebbe muoversi volontariamente, non avrebbe coscienza di messaggi dai sensi: ma le pupille reagirebbero alla luce, le palpebre si chiuderebbero a un lampo improvviso. AI caldo suderebbe, tremerebbe al freddo».

Invece l’operazione inversa, lasciando intatti gli enormi lobi cerebrali ed estirpando i tanto più modesti centri nervosi della vita vegetativa, provocherebbe la morte immediata.

Gli emisferi cerebrali erano in origine un globetto di cellule olfattive. Così è cominciata a quanto pare la faccenda della nostra «mente» umana. Il magico cervello dell’uomo è la trasformazione di un primitivo apparecchio annusatorio. Circa duecento milioni di anni fa, una piccola specie di rettili si arrampicò o vivere sugli alberi del Carbonifero, e trovò in quell’insolito modo di vita, lì in bilico sui rami, lo stimolo ad evolversi in una direzione nuova. «Il funzionamento del cervello di un rettile è pigro, e la vista e l’udito sono rudimentali; solo l’olfatto è sviluppato a pieno. Tale schema biologico non corrisponde affatto alle esigenze di creature agili e timorose appollaiate sugli alberi. La velocità con cui il cervello traduce in azione i messaggi dei sensi diventa insufficiente, e l’acuità dell’olfatto praticamente inutile».

Il cervello del rettile è centralizzato, egregiamente adatto a controllare i movimenti sul suolo, la nutrizione, l’accoppiamento, la riproduzione e il funzionamento degli organi interni. Per ciascuna di queste funzioni c’è un centro nervoso speciale, uno per la respirazione, uno per la circolazione del sangue, uno per il sonno, e via dicendo. La percezione degli odori è localizzata in due bulbi, o globi olfattivi, congiunti al resto del cervello da un peduncolo. Il cervello è organizzato in modo che non può non reagire a tutti i messaggi dei sensi; in ciò la condotta del rettile è del tutto automatica: stimolo sensoriale, riflesso, azione.

Ora quei rettili arrampicati, quei nostri progenitori profughi sugli alberi, svilupparono per necessità di vita un meccanismo di controllo o censura delle sensazioni olfattive, che fra i troppi messaggi provenienti dal «naso» lasciasse passare soltanto i più importanti. Sede di questo ufficio di censura divenne appunto la sezione «olfattiva» del cervello del rettile. È probabile che il cambiamento avvenisse per fissazione di una variante casuale rivelatasi utile per la sopravvivenza. Sta il fatto che una volta liberato dalla tirannia degli odori il rettile arboreo cominciò a sviluppare la vista e l’udito, e insieme riuscì di nuovo a proteggere il cervello dai messaggi indiscriminati di questi altri sensi, servendosi sempre dello stesso meccanismo di controllo già esistente. Gli originari lobo olfattivi cominciarono a svilupparsi e divennero a suo tempo, nei discendenti di quelle antiche creaturine arboree gli emisferi cerebrali degli animali superiori, e infine lo «spirito» dell’uomo. È curioso riflettere che codesto nostro spirito è in origine annusamento censurato, schermo tra gli organi del senso e i centri nervosi, filtro: l’anima immortale nasce arricciando il naso.

È curioso riflettere che codesto nostro spirito è in origine annusamento censurato, schermo tra gli organi del senso e i centri nervosi, filtro: l’anima immortale nasce arricciando il naso.

Non so quanto incontroversa possa essere questa versione dell’evoluzione del cervello che ho cercato di riassumere alla meglio, resistendo come ho potuto alla tentazione di divagare che questo genere di cose suscita talvolta nel profano quasi irresistibilmente. È esposta in un libro intitolato «Il presuntuoso cervello dell’uomo». Ora in un libro che dà del presuntuoso all’uomo e al suo cervello, non credo che possa mai essere del tutto sprecato: questo poi, oltre al merito di quell’apprezzamento espresso fin dal titolo, ne ha anche altri. L’autore è A.T.W. Simeons, un medico sessantenne, londinese d’origine, laureato in Germania, esperto in medicina tropicale, vissuto in India per quasi vent’anni, e poi a Roma. Si tratta di un libro a tesi, apertamente polemico («per lo più le mie idee sono contrarie a quelle correnti tra i medici»), ma scritto in modo divulgativo. Uno dei suoi pregi è appunto la presentazione di fatti e concetti biologici e fisiologici con semplicità ed efficacia. La storia dell’evoluzione del cervello dai rettili ai mammiferi e ai primati, per esempio, mi pare un modello di come si potrebbero insegnare certe cose a scuole.

Il libro ha per tema le cosiddette malattie psicosomatiche, che considera causate da uno sfasamento tra quella che chiama la sfera «corticale» (ossia cosciente e civilizzata) della nostra vita, e quella «diencefalica» o della vita vegetativa. L’uomo moderno, circondato dai prodotti della sua civiltà, ossia in definitiva della sua corteccia cerebrale, dimentica o non capisce che il suo corpo, agli ordini del diencephalon, funziona ancora nel modo che era normale prima dell’inizio della civiltà. Le nostre reazioni sembrano alla nostra presuntuosa coscienza corticale altrettanti sintomi di malattia. Né è ormai da sperare che ci evolviamo fisicamente, in modo da aggiustare tra loro la parte più nuova e quella più antica del nostro sistema nervoso. Da almeno trentamila anni abbiamo finito di evolverci, ed è improbabile che ci siano stati cambiamenti organici nel cervello umano. Le differenze tra noi e l’uomo paleolitico non sono questioni di biologia, ma di pura disciplina «corticale». Forse se fosse durato più a lungo – centomila anni sarebbero probabilmente bastati – quel periodo di ristagno succeduto alla civiltà classica («la calma corticale del Medioevo») il funzionamento delle due sezioni del nostro cervello si sarebbe armonizzato a sufficienza; ma ormai è troppo tardi. Una sostanziale evoluzione biologica dell’uomo è ormai impensabile, perché, invece di adattarsi all’ambiente, come ogni altro animale, l’uomo ha imparato ad adattare l’ambiente a sé. L’evoluzione naturale per noi è finita.

L’uomo moderno […] dimentica o non capisce che il suo corpo […] funziona ancora nel modo che era normale prima dell’inizio della civiltà. Le nostre reazioni sembrano alla nostra presuntuosa coscienza corticale altrettanti sintomi di malattia.

Il punto centrale della presente situazione dell’uomo riguarda i suoi istinti fondamentali. L’uomo è per eccellenza un animale pusillanime, molto vicino al grado infimo della scala che va dai più coraggiosi ai più vili. Appartiene a quel gruppo di animali specializzati nella fuga, nei quali la paura determina automaticamente una serie di reazioni preparatorie alla fuga stessa. In presenza di un pericolo, vero o presunto, il cuore batte più in fretta, per portare più sangue ai muscoli che dovranno esercitarsi più violentemente nella corsa imminente; cresce la pressione del sangue, cresce il suo contenuto zuccherino; s’arrestano le secrezioni gastriche e passa come d’incanto la fame, perché l’animale che deve pensare a correre non si attardi a mangiare. L’intestino si svuota, alleggerendo il fuggiasco; i muscoli si tendono per essere pronti allo scatto. È come una mobilitazione generale che prelude all’atto fondamentale da cui può dipendere la sopravvivenza, la fuga o rompicollo. Questi e altri simili sono i ritrovati nella natura stessa, filtrati attraverso secoli di selezione, per renderci più atti – quando vivevamo in branchi inermi – a sfuggire alla minaccia dei grossi animali da preda.

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L’intinto più caratteristico dell’uomo è la paura: il coraggio è una tardiva menzogna corticale. La virtù naturale dell’uomo è saper scappare. Probabilmente tra i nostri antenati del paleolitico mostrarsi prode sarebbe stato un vizio pericoloso e spregevole. Non è vero che l’uomo primitivo fosse l’audace cacciatore che spesso s’immagina. L’audacia, l’eroismo sono probabilmente da annoverare tra quelle «pessime istituzioni neolitiche» a cui appartengono anche i pasti regolari (quando è palese che l’uomo è per natura un mangiucchione): e del resto «anche oggi, quando spunta l’eroismo (se non sia per questioni relative al sesso) conviene domandare se il vero movente non sia la paura di far brutta figura». Forse è il senso della proprietà, sviluppatosi in seno al clan, che ha introdotto nella specie umana il culto innaturale del coraggio, come vi ha certo introdotto l’omicidio. Ammazzarsi tra sé, salvo che per il sesso, è infatti tra tutti gli animali, sgradevole prerogativa dell’uomo, e recente.

Forse è il senso della proprietà, sviluppatosi in seno al clan, che ha introdotto nella specie umana il culto innaturale del coraggio, come vi ha certo introdotto l’omicidio

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