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Fascicolo 10/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, un estratto dell’introduzione del volume di Antonio Salvati, La penna e la forca, pubblicato da Intrecci Edizioni, 2020, pp. 30 ss.

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«… Anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per
tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi
diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?»[1].
Leonardo Sciascia

 

«La pietà è la legge principale,
forse l’unica vera legge dell’esistenza umana»[2].

 

Fedor Dostoevskij
«Quando diventarono criminali,
allora istituirono la giustizia
e si imposero interi codici per difenderla,
e per garantire l’osservanza dei codici inventarono
la ghigliottina»[3].
Fedor Dostoevskij

 

Certamente l’esigenza – sollevata da diversi scrittori – di una ri­progettazione dei sistemi penali resta attuale, come ha con forza so­stenuto autorevolmente anche il papa Giovanni Paolo II (i giuristi sono chiamati «a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività»), assegnando portata fondamentale al fine del recupero di chi abbia trasgredito la legge («Siamo ancora lontani dal momento in cui la nostra coscienza potrà essere certa di aver fatto tutto il possibile … per offrire a chi delinque la via di un riscatto e di un nuovo inserimento positivo nella società»).

Nel pensiero del Papa emerge altresì una critica molto netta della centralità tradizionalmente assegnata alla detenzione («I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della de­linquenza. Anzi, in vari casi i problemi che crea sono maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione»), critica con la quale viene, dunque, ac­colta la prospettiva di un ricorso al carcere in termini di rigorosa sussidiarietà (o extrema ratio) e promossa l’introduzione di pene alternative[4].

Senz’altro alcuni degli autori presi in considerazione possono essere annoverati nel filone della “letteratura impegnata”. Si tratta di uomini di lettere che hanno desiderato esprimere una letteratu­ra strettamente legata alla politica e alle sue battaglie. Lo scritto­re impegnato desidera che il suo impegno appaia nella letteratura stessa, anzi che la letteratura sia parte integrante del dibattito poli­tico. Assai emblematico è il caso francese con scrittori “engagés” come Sartre, Camus, Malraux e Bernandos che si preoccupavano della loro epoca e combattevano a colpi di “pamphelet” e di mani­festi per difendere le loro idee e i loro ideali.

Certamente l’esigenza – sollevata da diversi scrittori – di una ri­progettazione dei sistemi penali resta attuale, come ha con forza so­stenuto autorevolmente anche il papa Giovanni Paolo II (i giuristi sono chiamati «a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività»)

Diversi studiosi hanno sottolineato come l’“impegno” espresso da alcuni letterati francesi nel periodo che immediatamente precede e segue la seconda guerra mondiale è il risultato di un lungo percorso, che ha avuto le sue fi­gure tutelari (filosofi e scrittori che vanno da Pascal a Victor Hugo) e i suoi momenti fondatori. Un’opera importante, Se questo è un uomo di Primo Levi, resta a tutti gli effetti un capolavoro, con le sue incalcolabili e benefiche implicazioni pedagogiche, proprio perché in quel libro, vi sono una lingua e un’idea della verità come testi­monianza[5], seppur l’autore precisa che

«per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».

Se analizziamo con uno sguardo complessivo questi scritti, ve­diamo che tutti gli autori considerati assumono, verso la pena, ver­so la legge penale, verso le istituzioni giuridiche, un atteggiamento quanto meno critico: un approccio che va da forme di diffidenza, di scetticismo, di critica moderata in vista di una riforma, a modalità più decise di condanna radicale (è il caso, ad esempio, di Tolstoj).

Alcuni degli autori trattati hanno fatto esperienza del carcere ma­turando rabbia e nello stesso tempo voglia di raccontare, come ben esprime uno dei maggiori poeti russi Osip Mandel’stam:

«Toglien­domi i mari, la corsa e il volo e dando al piede l’appoggio di una terra coatta, che cosa avete ottenuto? Bel calcolo: non potevate amputarmi le labbra che si muovono».

Se analizziamo con uno sguardo complessivo questi scritti, ve­diamo che tutti gli autori considerati assumono, verso la pena, ver­so la legge penale, verso le istituzioni giuridiche, un atteggiamento quanto meno critico: un approccio che va da forme di diffidenza, di scetticismo, di critica moderata in vista di una riforma, a modalità più decise di condanna radicale

Come nel caso di Pasternak, la vita e le opere di Mandel’stam, nato nel 1891, hanno testimoniato le difficoltà della vita al tempo di Stalin. La poesia suddetta è stata scritta durante un periodo di confino. È stato condannato a diversi anni di lavori forzati per “attività controrivoluzionarie. Muore nel 1938 durante il trasferimento verso un campo di lavoro in Siberia. Non a caso, del suo tempo, del suo secolo scrisse:

«Mio secolo mio, mia belva, chi potrà/guardarti dentro gli occhi/ e saldare con il suo sangue/ le vertebre di due secoli?»[6].

In realtà i toni, i modi, gli ac­costamenti al tema del diritto e della pena di morte sono diversi nei vari autori, ma a tutti è comune una visione e una preoccupazione di fondo: si tratta della preoccupazione per la difesa della dignità umana, troppo spesso nella storia conculcata in molti sistemi penali e indifesa di fronte l’arbitrio politico. Inoltre, l’accettabilità morale e la ragionevolezza della risposta ai reati è fatta chiaramente dipen­dere da una valutazione dei loro contenuti e dei loro fini, escludendo qualsiasi riferimento a una pretesa giustizia intrinseca della pena retributiva, cioè concepita, in sostanza, come riproduzione per ana­logia del male commesso.

[…] I toni, i modi, gli ac­costamenti al tema del diritto e della pena di morte sono diversi nei vari autori, ma a tutti è comune una visione e una preoccupazione di fondo: si tratta della preoccupazione per la difesa della dignità umana, troppo spesso nella storia conculcata in molti sistemi penali e indifesa di fronte l’arbitrio politico

Purtroppo, da alcuni anni le percezioni sulla giustizia sono attraversate da ondate emozionali: processi spet­tacolarizzati, morbosità sui dettagli di cui la stampa è piena, magi­strati o avvocati come star televisive, dibattiti accesi sulle sentenze. Il bisogno di sicurezza appare come la nuova medicina davanti allo spaesamento e alla paura. Anche il dibattito sulla pena di morte sof­fre di tali eccessi, e qualcuno prova a rievocarla. Sicuramente non appare più così scandalosa come solo qualche anno fa […].

Pascal si soffermò a lungo sull’irriducibilità totale fra giu­stizia e diritto. Anzi, l’esistenza stessa del diritto sembra essere prova dell’impossibilità per l’uomo di realizzare la giustizia. L’incapacità della nostra cultura, giuridica ma non solo, di fare i conti con questi temi fondativi è testimoniata dalla sfasatura evidente fra le risposte insufficienti che vengono date allo statuto della pena e l’attività giu­risdizionale, che procede come se tutto fosse già stabilito. Il modello correzionalista e quello preventivo sono in crisi, vittima di quella che Nietzsche definì l’origine economica e contrattualista della legge e della pena, da ricercarsi nel rapporto fra creditore e debitore e nella promessa della restituzione.

Pascal si soffermò a lungo sull’irriducibilità totale fra giu­stizia e diritto. Anzi, l’esistenza stessa del diritto sembra essere prova dell’impossibilità per l’uomo di realizzare la giustizia

Una ricostruzione genealogica che alla fine si basa sul piacere della sofferenza dell’altro, nel momento in cui chi contrae il debito offre come pegno il proprio corpo, la pro­pria donna o la propria libertà e finanche la propria vita. Secondo la pensatrice francese Simone Weil il rischio è quello di considerare l’imputato non un essere umano ma un oggetto. Cosa che capita se si prescinde da un’impostazione religiosa: senza un riferimento a Dio la prospettiva che si delinea non può essere altro che infernale[7].

Queste preoccupazioni, che stanno al fondo del pensiero di tutti gli autori trattati, ci mostrano che i giuristi possono avere spesso da imparare dai letterati: l’insegnamento che molti scrittori possono dare ai giuristi consiste nell’indicazione che troppo spesso le istitu­zioni giuridiche (e di riflesso l’opinione pubblica nel suo comples­so) ottengono il risultato opposto a quello che si prefiggono, che la difesa della certezza del diritto e della dignità dell’uomo deve essere oggetto di una continua e gelosa attenzione, e che è cosa assai dif­ficile costruire il diritto – soprattutto il diritto penale – in modo che sia realmente a misura dell’uomo.

[…] I giuristi possono avere spesso da imparare dai letterati: l’insegnamento che molti scrittori possono dare ai giuristi consiste nell’indicazione che troppo spesso le istitu­zioni giuridiche […] ottengono il risultato opposto a quello che si prefiggono […], e che è cosa assai dif­ficile costruire il diritto – soprattutto il diritto penale – in modo che sia realmente a misura dell’uomo

Del resto nessun sistema creato dall’uomo è perfetto, e il sistema dell’oppressione non fa eccezione. E alcune pagine sembrano mostrare che l’inferno è creato dall’uo­mo e che è l’uomo stesso a governarlo, come sostiene il poeta iraniano Reza Baraheni:

«Essendo uscito da quell’inferno, so che non ha nulla di so­prannaturale. È un inferno creato da un uomo per un altro uomo, e dovrebbe essere distrutto dall’uomo»[8].

 

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[1] Cfr. Leonardo Sciascia, Gli zii di Sicilia, Adelphi Milano, 1992.

[2] Cfr. Fedor Dostoevskij, L’idiota, Einaudi Torino, 1991.

[3] Cfr. Fedor Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, in Fedor Dostoevskij, Racconti, Mondadori, Milano 2001, p. 827.

[4] Cfr. Messaggio del sommo Pontefice Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle carceri, 9 luglio 2000, Libreria Editrice Vaticana 2000, p. 8.

[5] Cfr. Massimo Onofri, Tra la letteratura e il potere, la forza d’urto della verità, Avvenire, 1 maggio 2011.

[6] Cfr. Osip Mandel’stam, Quaderni di Voronež, Ottanta poesie, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2009.

[7] Vedi Roberto Righetto, Da Pascal a Simone Weil. Il dilemma della giustizia, Avvenire del 15 novembre 2019.

[8] Il brano è riportato in AA.VV., Scrittori dal carcere, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 19.

Altro

Un incontro di saperi sull’uomo e sulla società
per far emergere l’inatteso e il non detto nel diritto penale

 

ISSN 2612-677X (sito web)
ISSN 2704-6516 (rivista)

 

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