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24.11.2020
Susanna Arcieri

Quando la verità ha un prezzo

Le minacce rivolte ai giornalisti impegnati nelle inchieste su corruzione, fatti di mafia e criminalità economica. Il panorama internazionale e quello italiano alla luce di due recenti pubblicazioni

Fascicolo 11/2020

1. Fare il giornalista investigativo non è facile, specie quando, per lavoro e per passione, si decide di avventurarsi nei terreni più fangosi e di illuminare gli angoli più bui dei diversi sistemi sociali e politici. Parlare di mafia, corruzione, reati finanziari e crimine organizzato ha un costo, spesso altissimo, per i professionisti dell’informazione, un costo che, spesso, è direttamente proporzionale a quanto la singola notizia risulti “sgradita” ai colossi dell’economia o alle grandi organizzazioni criminali coinvolte nell’inchiesta.

È quanto emerge dal recente sondaggio internazionale condotto dal centro di studi britannico Foreign Policy Centre (FPC)[1], finalizzato proprio a fare luce sulla portata dei rischi corsi e delle minacce subite dai giornalisti investigativi di tutto il mondo, per il fatto aver diffuso notizie riguardanti i grandi fenomeni di corruzione e criminalità economica che interessano i diversi paesi.

Parlare di mafia, corruzione, reati finanziari e crimine organizzato ha un costo, spesso altissimo, per i professionisti dell’informazione, un costo che, spesso, è direttamente proporzionale a quanto la singola notizia risulti “sgradita” ai colossi dell’economia o alle grandi organizzazioni criminali

Al sondaggio hanno preso parte 63 giornalisti specializzati in materia economico-finanziaria, provenienti da 41 paesi e le cui testimonianze – rese tra l’inizio di settembre e la metà di ottobre scorsi – sono state raccolte all’interno del reportUnsafe for Scrutiny”, pubblicato da FPC all’inizio di novembre 2020[2].

Oltre i due terzi dei giornalisti coinvolti (il 71%) ha affermato di aver subito almeno un episodio di minaccia o intimidazione in relazione alle indagini svolte su fatti di corruzione e criminalità finanziaria. Spesso di è trattato di aggressioni verbali, rivolte direttamente al giornalista durante un confronto faccia a faccia (l’81% di coloro che hanno dichiarato di aver subito minacce hanno riportato almeno un episodio di questo genere), o avanzate sulle piattaforme social (ne hanno fatto esperienza il 79% delle vittime) o ancora tramite lettera scritta (nel 70% dei casi). Azioni civili, lettere di diffida, campagne diffamatorie e richieste di chiarimento da parte della autorità sono state sperimentate da oltre la metà di costoro. Nella maggior parte dei casi, secondo quanto riferito dai partecipanti al sondaggio, le intimidazioni provenivano dalle grandi imprese (71%), da gruppi di criminalità organizzata e dalle stesse istituzioni governative del proprio paese (51%).

Un terzo dei professionisti vittime di minaccia (il 33%) ha inoltre affermato di aver ricevuto almeno una denuncia penale per il delitto di diffamazione.

Oltre i due terzi dei giornalisti coinvolti (il 71%) ha affermato di aver subito almeno un episodio di minaccia o intimidazione in relazione alle indagini svolte su fatti di corruzione e criminalità finanziaria

Nel 35% dei casi le predette iniziative avrebbero avuto un impatto psicologico significativo sui giornalisti coinvolti, specie nel caso delle minacce riguardanti future azioni legali nei loro confronti. Proprio le iniziative di carattere legale, hanno spiegato gli intervistati, rappresentano il tipo di condotta ritorsiva che più di ogni altra rende difficile la prosecuzione dell’attività giornalistica. Inoltre, esse risultano particolarmente insidiose, dal momento che, il più delle volte, avvengono in segreto: «di solito vengono formulate a mezzo di lettere inviate da avvocati e contrassegnate come “private e riservate” e, se riescono a raggiungere il loro scopo, il pubblico non lo verrà mai a sapere»[3].

Non a caso, oltre la metà dei giornalisti (il 56%) ha dichiarato a FPC di aver assunto un atteggiamento tendenzialmente più cauto, nell’ambito della propria attività di inchiesta, a seguito delle minacce subite.

Le iniziative di carattere legale […] rappresentano il tipo di condotta ritorsiva che più di ogni altra rende difficile la prosecuzione dell’attività giornalistica. Inoltre, esse risultano particolarmente insidiose, dal momento che, il più delle volte, avvengono in segreto

Quanto agli obiettivi perseguiti dagli autori delle intimidazioni, lo scopo principale delle minacce sarebbe stato, secondo la maggioranza degli intervistati (il 67%), quello di scoraggiarli dal proseguire nella propria attività investigativa; secondo altri, invece, l’intento sarebbe stato quello di compromettere la reputazione professionale del singolo professionista (20%) ovvero di distorcere i risultati di una specifica inchiesta (13%).

Lo scopo principale delle minacce sarebbe stato, secondo la maggioranza degli intervistati (il 67%), quello di scoraggiarli dal proseguire nella propria attività investigativa

Secondo FPC, la portata del fenomeno appare particolarmente drammatica nel Regno Unito, nel quale è stato registrato un numero di iniziative ritorsive, a danno dei giornalisti britannici, quasi pari a quello che ha interessato, nello stesso periodo, l’intera Europa e gli Stati Uniti messi insieme. A tal proposito, non pare casuale la circostanza che, molto spesso, la notizia o l’indagine che ha dato luogo alla minaccia abbia rivelato l’esistenza di un collegamento, diretto o indiretto, tra la condotta illecita denunciata dal giornalista e l’attività degli organismi giurisdizionali e finanziari britannici (così ha dichiarato il 61% degli intervistati).

Quale diretta conseguenza di tutto ciò, si legge ancora nel rapporto, sono pochissimi i professionisti che si sentono completamente al sicuro nel portare avanti la propria attività investigativa (solo il 6% degli intervistati). Tale, infatti, è il timore di subire ritorsioni, che, a fronte dei primi episodi di pressione o di minacce la maggior parte dei giornalisti (il 70%) ha ritenuto opportuno tornare sui propri passi, prendendo le distanze dalle notizie che essi stessi avevano pubblicato e ricorrendo a forme più o meno radicali di auto-censura. Una tendenza, questa, che molti professionisti hanno avuto modo di riscontrare anche nel comportamento dei propri colleghi (il 69% degli intervistati, infatti, ha notato un progressivo incremento delle condotte di auto-censura da parte di altri giornalisti, spaventati dalle minacce ricevute o dai rischi connessi alla pubblicazione dei risultati delle proprie inchieste).

 

2. E per quanto riguarda l’Italia?

Con riferimento ai rischi che i giornalisti del nostro paese – e, più in generale, tutti coloro che operano nel mondo dell’informazione, come i blogger e i fotoreporter – costantemente corrono a causa della propria attività di indagine e di divulgazione, una preziosa fonte di informazioni è rappresentata dai documenti predisposti dall’Osservatorio Su Informazioni Giornalistiche E Notizie Oscurate (“Ossigeno”)[4], che dal 2008 documenta e analizza, con le proprie frequenti pubblicazioni, «il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani, in particolare contro i cronisti impegnati in prima linea nelle regioni del Mezzogiorno, nella raccolta e diffusione delle informazioni di pubblico interesse più scomode e, in particolare, nella ricerca delle verità più nascoste in materia di criminalità organizzata»[5].

In particolare, secondo i dati diffusi da Ossigeno in un recente dossier, intitolato “Molta mafia, poche notizie[6], realizzato con il sostegno della Commissione Europea, su incarico del Centro Europeo per la libertà di Stampa e dei Media di Lipsia (ECPMF), la situazione dei giornalisti investigativi italiani sarebbe addirittura più critica di quella in cui versano i colleghi degli altri Stati, compreso lo stesso Regno Unito, indicato – come detto – da FPC come il paese nel quale l’attività giornalistica appare foriera di maggiori rischi di ritorsione.

Secondo i dati diffusi da Ossigeno […] la situazione dei giornalisti investigativi italiani sarebbe addirittura più critica di quella in cui versano i colleghi degli altri Stati

Infatti, secondo quanto riferito dal 40% dei 25 professionisti intervistati dall’Osservatorio nel dossier (non solo giornalisti, ma anche magistrati, parlamentari e rappresentanti del governo) la portata delle minacce e delle pressioni ai danni dei giornalisti italiani parrebbe più estesa che altrove: in questo senso, anzi, proprio i sistemi anglosassoni sono stati indicati tra gli esempi più virtuosi, per quanto riguarda la disponibilità e l’efficacia di misure poste a tutela dei professionisti dell’informazione. «In quei paesi […] se un giornale rivela uno scandalo, può provocare le dimissioni di personaggi potenti. Ciò in Italia non avviene. Da noi la politica si può addirittura permettere senza problemi di attaccare i media per screditarli», ha infatti dichiarato uno dei partecipanti al sondaggio[7].

D’altra parte, sottolinea l’Osservatorio, almeno una quota parte della responsabilità per questi fenomeni sarebbe riconducibile all’atteggiamento mostrato sia dai singoli editori delle testate, sia dai relativi direttori responsabili, sia anche degli stessi cronisti vittime degli attacchi.

Almeno una quota parte della responsabilità per questi fenomeni sarebbe riconducibile all’atteggiamento mostrato sia dai singoli editori delle testate, sia dai relativi direttori responsabili, sia anche degli stessi cronisti vittime degli attacchi

Per quanto riguarda il primo aspetto – ­ si legge nel dossier ­ – agli editori viene rimproverata in particolar modo la scelta (stigmatizzata dal 67% dei giornalisti intervistati)  di avere ridotto negli anni – a partire dagli anni ’90 – la “copertura” riguardante i fatti di mafia, adducendo, come motivazione, il presunto mancato interesse da parte lei lettori per questo genere di argomenti. In questo senso, infatti, alcuni editori hanno fatto propria nel tempo la convinzione per cui «i lettori sarebbero interessati ad apprendere soltanto le più clamorose: fatti di sangue, sentenze eclatanti, operazioni di polizia con centinaia di arresti»[8] (convinzione che, però, come hanno sottolineato alcuni degli intervistati, non è stata mai suffragata da alcuna prova)[9].

Con riferimento poi alle responsabilità dei direttori dei giornali, i dati raccolti dall’Osservatorio hanno mostrato che non sono solo gli editori a porre un veto, quando si tratta di pubblicare notizie su fenomeni connessi alle mafie. Anche i direttori responsabili delle testate, infatti «dicono dei “no” a giornalisti della loro redazione e a collaboratori esterni che propongono di pubblicare inchieste o articoli di approfondimento sui fatti di mafia»[10]. Alla domanda su quali siamo le principali giustificazioni addotte per i rifiuti, il 40% degli intervistati ha indicato il presunto scarso interesse pubblico della notizia proposta per la pubblicazione, mentre secondo il 31% dei professionisti la ragione del rifiuto risiederebbe nella connivenza fra l’editore e ambienti mafiosi; infine, il restante 19% ha ritenuto che la principale causa della mancata pubblicazione risiederebbe nella paura, in capo al direttore della testata, di subire egli stesso intimidazioni, minacce, abusi e ritorsioni da parte dei soggetti riguardati dalla notizia.

Infine, come anticipato, secondo alcuni intervistati anche gli stessi giornalisti sarebbero almeno in parte responsabili degli attacchi di cui sono vittima. Alcuni professionisti, si legge infatti nel dossier, non possiedono il livello di preparazione che la materia trattata richiederebbe: «spesso l’informazione è approssimativa e sommaria. A volte i giornali fanno passare per fenomeni corruttivi fatti che con la corruzione non hanno nulla a che vedere. In questo modo si fa un’informazione poco corretta. La scarsa competenza professionale è ormai una costante. C’è molta approssimazione nei “pezzi” giornalistici»[11].

Secondo quanto riportato da Ossigeno, in soli tre anni – tra il 2016 e il 2018 – almeno 3.721 tra giornalisti, blogger, video operatori e fotoreporter italiani sarebbero stati raggiunti da minacce, intimidazioni, aggressioni, danneggiamenti, furti mirati e gravi abusi del diritto, questi ultimi rappresentati soprattutto dalla presentazione di querele e denunce contenenti gravi accuse di diffamazione a mezzo stampa, che spessissimo – nove volte su dieci – si rivelano poi, all’esito dei conseguenti procedimenti penali, del tutto infondate.

In soli tre anni – tra il 2016 e il 2018 – almeno 3.721 tra giornalisti, blogger, video operatori e fotoreporter italiani sarebbero stati raggiunti da minacce, intimidazioni, aggressioni, danneggiamenti, furti mirati e gravi abusi del diritto, questi ultimi rappresentati soprattutto dalla presentazione di querele e denunce contenenti gravi accuse di diffamazione a mezzo stampa

In particolare, le iniziative di natura legale costituirebbero il 40% del totale delle azioni ritorsive poste in essere nel triennio a danno dei giornalisti; maggiori sarebbero invece i casi di vere e proprie condotte di violenza (il 50% circa), mentre più contenuta sarebbe la percentuale rappresentata dalle “pressioni informali” (tra cui, ad esempio, il divieto di partecipare a conferenze stampa, insieme ad altre condotte discriminatorie ­– pari al 10% del totale).

Nell 91% dei casi, le predette iniziative, di qualsiasi natura, sarebbero rimaste impunite. Per contro, come già si è detto, non è raro che le querele per diffamazione conducano all’avvio di procedimenti penali a carico del professionista. Stando alle informazioni riportate dall’Osservatorio, infatti, ogni anno le Procure italiane aprono circa settemila fascicoli relativi a indagini per asseriti fatti di diffamazione a mezzo stampa, e il numero è in crescita costante (con un aumento medio pari all’8% ogni anno). Oltre che numerosi, i predetti procedimenti sono anche estremamente lunghi (la fase del primo grado processuale dura mediamente tra due e sei anni, rileva Ossigeno).

Nell 91% dei casi, le predette iniziative, di qualsiasi natura, sarebbero rimaste impunite. Per contro […] non è raro che le querele per diffamazione conducano all’avvio di procedimenti penali a carico del professionista

Inoltre, nonostante la maggior parte di essi si concluda con un provvedimento di archiviazione o con una sentenza di proscioglimento, «ogni anno 155 imputati (in gran parte giornalisti) subiscono condanne a pene detentive per complessivi 103 anni di reclusione»[12]. Vale infatti la pena di ricordare, a tal proposito, che ad oggi la pena prevista – tanto dal codice penale[13] quanto dalla normativa speciale[14] – per il delitto di diffamazione a mezzo stampa è appunto quella della reclusione, che solo nel caso della disciplina codicistica è alternativa alla multa. La predetta disciplina, peraltro, è stata oggetto di numerose critiche nel corso degli anni, ed  è molto probabile che finirà con l’essere modificata nel prossimo futuro, dal momento che, proprio a seguito di alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione al trattamento sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa[15], lo scorso giugno la Consulta – ricorrendo nuovamente alla medesima tecnica decisoria già utilizzata nel cd. “caso Cappato”[16] – ha espressamente invitato il legislatore a intervenire sulla materia al fine di «approvare una nuova disciplina» per la fattispecie in parola, e sulle relative pene in particolare, operando un (nuovo) bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione, il quale tenga conto tra l’altro «della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni»[17].

In ogni caso – si precisa nel dossier di Ossigenoanche quando i procedimenti a carico dei giornalisti si concludono con una pronuncia di condanna, le pene rimangono perlopiù sospese; ciononostante, esse producono un significativo impatto sulla libertà di espressione del singolo professionista. Infatti, si legge ancora nel dossier, «in Italia le denunce penali e le cause civili per risarcimento danni da diffamazione per diffamazione a mezzo stampa sono un’arma usata al pari delle minacce per dissuadere giornali e giornalisti dalla pubblicazione di notizie sgradite. Sono un vero flagello. L’unico modo certo di prevenire questi processi è l’autocensura, la rinuncia a pubblicare notizie sgradite. Ed è quel che molti fanno silenziosamente, soprattutto di fronte alla prospettiva di pubblicare notizie su fatti di mafia e corruzione»[18].

In Italia le denunce penali e le cause civili per risarcimento danni da diffamazione per diffamazione a mezzo stampa sono un’arma usata al pari delle minacce per dissuadere giornali e giornalisti dalla pubblicazione di notizie sgradite. Sono un vero flagello. L’unico modo certo di prevenire questi processi è l’autocensura

Quanto alle ragioni alla base delle ritorsioni, i risultati raccolti dall’Osservatorio mostrano che oltre un terzo degli attacchi (vale a dire il 38%) trova la propria causa nella pubblicazione, da parte del professionista coinvolto, di notizie riguardanti condotte e fatti di mafia.

Peraltro, questo specifico tema è stato ampiamente ripreso da diversi soggetti intervistati da Ossigeno. È il caso ad esempio di Elisabetta Cosci, vice Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, la quale ha sottolineato che «certamente la mafia ha un ruolo molto attivo, ma non si deve dimenticare che molte minacce hanno una matrice ben diversa. Ad esempio, quella politica»[19].

Una considerazione, questa, ripresa anche dal Senatore Vito Crimi, parimenti coinvolto nel sondaggio condotto dall’Osservatorio: «le minacce provengono anche dalla politica, dal mondo imprenditoriale e professionale, da altri soggetti che a vario titolo ritengono di utilizzare strumenti ritorsivi nei confronti dei giornalisti per metterli a tacere. Tutto ciò dice che non è la mafia la ragione principale delle minacce ai giornalisti italiani»[20].

Si tratterebbe, dunque, di un fenomeno più complessivo, che «non si spiega soltanto con la mafia», ha spiegato il giornalista d’inchiesta Nello Trocchia all’Osservatorio. Al contrario, «l’alto numero di intimidazioni e violenze contro i giornalisti […] è dovuto a un problema più generale: la delegittimazione del ruolo del giornalista da parte della politica e dell’imprenditoria. Il ruolo sociale dei giornalisti è riconosciuto sempre meno»[21].

Oltre un terzo degli attacchi (vale a dire il 38%) trova la propria causa nella pubblicazione, da parte del professionista coinvolto, di notizie riguardanti condotte e fatti di mafia

3. Sorge allora spontaneo chiedersi, a fronte di un simile scenario, tanto nostrano quanto internazionale, quali strumenti – normativi, politici, sociali – possano essere messi in campo dalle diverse Nazioni per contrastare, o quantomeno contenere, la portata di questo pericoloso fenomeno, dalla portata sempre più globale.

Secondo l’84% dei giornalisti coinvolti nel sondaggio realizzato da FPC, la principale risorsa che consentirebbe loro di portare avanti la professione, nonostante le pressioni e le minacce e tutti i rischi connessi, è rappresentata dai servizi di assistenza e consulenza legale. Anche il sostegno editoriale (menzionato dal 72% dei professionisti) e quello finanziario (60%), unitamente al ricorso a misure di protezione in materia di whistle-blowing (54%) costituirebbero, ad avviso degli intervistati, validi strumenti di tutela contro le condotte ritorsive commesse a loro danno.

Questo però è vero in teoria, posto che, nei fatti – come sottolineano gli intervistati – molto spesso sia l’accesso all’assistenza legale (49%), sia il sostegno economico (51%), sia i meccanismi di protezione degli informatori (35%) non sono adeguatamente garantiti a livello istituzionale.

Per ovviare alle carenze segnalate dagli intervistati, FPC formula dunque una serie di raccomandazioni puntuali, rivolte sia agli Stati, sia alle istituzioni giuridiche e agli organismi di regolamentazione interni ai singoli paesi[22], invitandoli ad intervenire contestualmente su tre fronti distinti: 1) quello della prevenzione delle condotte intimidatorie, 2) quello della protezione dei professionisti maggiormente esposti ai rischi di minaccia e 3) quello della repressione dei comportamenti posti in essere dagli autori delle pressioni. Così, sotto quest’ultimo profilo, si raccomanda che ciascuno Stato provveda ad «assicurare che tutte le violazioni poste in essere a danno dei giornalisti sottoposte a indagini tempestive, esaustive, indipendenti ed effettive, di modo che gli autori e gli istigatori siano assicurati alla giustizia»[23].

Per ovviare alle carenze segnalate dagli intervistati, FPC formula dunque una serie di raccomandazioni puntuali, rivolte sia agli Stati, sia alle istituzioni giuridiche e agli organismi di regolamentazione interni ai singoli paesi, invitandoli ad intervenire contestualmente su tre fronti distinti

Parimenti, all’esito di quanto emerso dalle testimonianze rese dai professionisti coinvolti nel sondaggio, anche il dossier predisposto dall’Osservatorio Ossigeno contiene alcune indicazioni finalizzate a combattere gli abusi e le ritorsioni ai danni dei giornalisti italiani[24].

Le raccomandazioni, in questo caso, sono riconducibili a due diverse tipologie di intervento. Da un lato, si segnala la necessità di promuovere la cooperazione tra i diversi editori e, dall’altro lato, viene posto l’accento sull’importanza di potenziare gli strumenti di protezione dei professionisti già esistenti e introdurne di nuovi (tra delle proposte formulate in tal senso, si ricordano ad esempio quella di contestare sistematicamente il reato di calunnia aggravata nei confronti di coloro che ricorrono pretestuosamente alle querele per diffamazione a danno dei giornalisti e quella di istituire procure specializzate per i reati commessi contro i giornalisti, al fine di ridurre l’impunità).

Le raccomandazioni [formulate dall’Osservatorio Ossigeno] sono riconducibili a due diverse tipologie di intervento. Da un lato, si segnala la necessità di promuovere la cooperazione tra i diversi editori e, dall’altro lato, viene posto l’accento sull’importanza di potenziare gli strumenti di protezione dei professionisti già esistenti e introdurne di nuovi

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[1] Per maggiori informazioni, si consulti il sito istituzionale di FPC.

[2] Si veda S. Coughtrie (a cura di), Unsafe for Scrutiny: Examining the pressures faced by journalists uncovering financial crime and corruption around the world, The Foreign Policy Centre, novembre 2020.

[3] Cfr. p. 12: «Usually they are communicated through letters from lawyers marked ‘private and confidential’ and, if successful in achieving their aim, the public will never know».

[4] Si consulti, per ulteriori dettagli, il sito internet dell’Osservatorio.

[5] Cfr. la sezione “chi siamo” del sito di Ossigeno.

[6] Ossigeno per l’informazione, Molta mafia, poche notizie. L’influenza della criminalità organizzata e della corruzione sulla cronaca e sui giornali. Il sistema di protezione dei giornalisti minacciati. Rapporto sulla missione di accertamento dei fatti svolta a dicembre 2018 in Italia, 2018.

[7] V. p. 19 del dossier.

[8] V. p. 13 del dossier.

[9] Ad esempio, si è espresso in questi termini il Procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, il quale ha dichiarato all’Osservatorio: « Non riesco proprio a capire – ha detto – su quale monitoraggio, su quale tipo di statistica o altra rilevazione seria si sia fondata questa scelta. È vero proprio il contrario: la conoscenza delle mafie consente di contrastarle meglio»; . v. p. 14 del dossier.

[10] V. p. 15 del dossier.

[11] Così ha dichiarato il Senatore Vito Crimi all’Osservatorio (v. p. 17 del dossier).

[12] V. p. 7 del dossier.

[13] L’art. 595 c.p. prevede infatti, al comma 3, che qualora la condotta diffamatoria venga realizzata, tra l’altro, a mezzo della stampa, si applica la pena «della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro».

[14] Il riferimento è all’art. 13 della legge sulla stampa (l. n. 47 del 1948), ai sensi del quale «nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000».

[15] Cfr. Trib. Salerno, ord. 9 aprile 2019, n. 140, e Trib. Bari, ord. 16 aprile 2019, n. 149.

[16] Come noto, infatti, nella suddetta occasione (ordinanza n. 207 del 2018) la Corte costituzionale ha inaugurato un meccanismo decisorio consistente nel “rinviare” la decisione sul merito delle questioni di legittimità sollevate dai giudici a quibus (in quel caso, il tema era quello del fine vita) tramite l’emissione di un’ordinanza dal contenuto – almeno formalmente – interlocutorio, con la quale rivolgeva un monito al Parlamento affinché provvedesse a riformare la legislazione in materia entro un termine fissato dalla stessa Corte.

[17] Cfr. Corte cost., ord. 9 giugno 2020 (dep. 26 giugno 2020) n. 132.

[18] V. p. 9 del dossier.

[19] V. p. 91 del dossier.

[20] V. p. 22 del dossier.

[21] V. p. 93 del dossier.

[22] Per l’elenco complete delle raccomandazioni, si vedano le pp. 7 e 8 del report di FPC.

[23] «Ensure all violations against journalists are promptly, thoroughly, independently and effectively investigated, with the perpetrators and instigators brought to justice »; cfr. p. 7 del report di FPC.

[24] Alle proposte operative è dedicata l’intera parte III del dossier (pp. 26 ss.).

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