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Issue 7-8/2019

We receive and publish this reflection, which is a response to the article by Pietro Buffa, Il suicidio del personale del Corpo di Polizia penitenziaria, [The suicide of Penitentiary Police employees], published in this journal on 03 July 2019.


 

C’è da dire che non meraviglia affatto che si continui a parlare del tema dei suicidi penitenziari a partire da palesi e innegabili pregiudizi, nei quali incappano sicuramente molti di coloro che affrontano questo tema, indipendentemente dal lato che occupano sulle barricate (poiché ce ne sono diverse, di barricate). Il tema è stato trattato di recente da un articolo[1] e c’era da sperare che lo si trattasse evitando tali pregiudizi. Lo si poteva sperare per diversi motivi. In primo luogo l’articolo è comparso su una invitante testata, che si ripropone di riflettere di giustizia penale a partire dal suo fondamento umano (troppo umano). In secondo luogo il sottotitolo dell’articolo («un tentativo di uscire dal procedere a tentoni nella nebbia della sofferenza umana») ha ulteriormente alimentato la speranza. In terzo luogo perché l’Autore ha dichiarato apertamente, nel primo paragrafo dell’articolo, di volere evitare accuratamente le trappole della «affabulazione» affidandosi strettamente al «rigore scientifico», individuando i pericoli dell’affabulazione nelle posizioni di chi è intento a portare avanti delle rivendicazioni sindacali o delle proposte ideologiche sulla gestione della materia penale. L’ultimo motivo è costituito dal fatto che Pietro Buffa, Autore dell’articolo, non è “esterno” al sistema penitenziario, ma è parte integrante del suo ingranaggio, visto che è stato fino a ieri il Direttore Generale dell’Ufficio del Personale del DAP e anche uno degli estensori del protocollo per la prevenzione del suicidio in carcere (è vero: al di là delle sbarre).

Ottimi motivi, dunque, per leggere l’articolo con fiducia. Specie perché Pietro Buffa, nei paragrafi che seguono il primo, manifesta la ferma intenzione di attenersi al metodo «scientifico» nell’analisi del fenomeno. E, sulla scia di questo metodo scientifico, si arriva al quinto paragrafo, che analizza «l’incidenza del fenomeno nell’ambito del Corpo e rispetto alla popolazione generale». L’Autore intende infatti sfatare quella che ritiene una sorta di “leggenda metropolitana”, vale a dire che i suicidi si registrino fra i poliziotti penitenziari in misura significativamente superiore rispetto alla popolazione generale. Analizzando infatti i dati ufficiali del DAP sui suicidi della Polizia Penitenziaria da un lato e, dall’altro lato, i dati ISTAT relativi alla popolazione generale, l’Autore arriva a concludere che:

«[…] l’incidenza riferita al nostro campione [di pol. pen. suicidi] è tra le 2,4 e le 12,7 volte minore rispetto a quella della popolazione generale»[2].

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Non abbiamo una specifica competenza statistica. Ma abbiamo una lunghissima consuetudine col carcere e con il Corpo della Polizia Penitenziaria. Abbiamo scritto diverse volte sul tema, a partire dalla esperienza e dalla specifica competenza professionale (siamo psichiatri psicoanalisti). Siccome, anche recentemente[3], trattando l’argomento abbiamo segnalato dati del tutto opposti a quelli di Pietro Buffa, siamo andati a riguardare quei dati. A partire dai numeri forniti da Ristretti Orizzonti (che peraltro li aveva ricavati da dati DAP) avevamo scritto quanto segue:

«[…] dal 1997 ad oggi sono 144 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita (12 suicidi all’anno di media). Tre si sono suicidati dall’inizio del 2019. Il loro numero è di certo minore rispetto a quello dei suicidi dei detenuti: 1.063 solo dal 2000 ad oggi. Considerando comunque che i poliziotti penitenziari sono 46.411 e che, almeno rifacendosi ai dati del 2015, in Italia si suicidano in un anno 6,5 persone ogni 100.000 (3,0 ogni 46.411), risulta chiaramente che, fra i poliziotti penitenziari, il tasso dei suicidi è quattro volte superiore rispetto alla media della popolazione generale».

I nostri dati, con ogni evidenza, sono opposti a quelli di Pietro Buffa. Una verifica si è dunque imposta, specie a partire da quell’analisi disaggregata dei dati sollecitata dallo stesso Buffa. Ci siamo infatti chiesti: è mai possibile che i nostri pregiudizi ci abbiano portato così lontani dalla realtà? Già: perché solo dei pregiudizi possono indurre a un ribaltamento così netto del “grezzo” (e incontestabile) dato statistico, inducendoci a enfatizzare, in modo indebito, un fenomeno che andrebbe invece valorizzato per tutt’altre ragioni (secondo i dati statistici, stando alla lettura che ne dà il Dottor Buffa, il mestiere di poliziotto penitenziario eserciterebbe anzi un effetto protettivo rispetto al rischio di suicidio!).

I nostri dati, con ogni evidenza, sono opposti a quelli di Pietro Buffa. Una verifica si è dunque imposta, specie a partire da quell’analisi disaggregata dei dati sollecitata dallo stesso Buffa. Ci siamo infatti chiesti: è mai possibile che i nostri pregiudizi ci abbiano portato così lontani dalla realtà?

Abbiamo quindi analizzato in dettaglio i dati statistici che anche Pietro Buffa ha usato per giungere alle sue conclusioni. L’Autore indica[4] che, fra il 2008 e il 2017, si sono suicidati 74 poliziotti penitenziari, con una media di 7,4 suicidi per anno. Sempre fra il 2008 e il 2017, il numero totale degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria è oscillato fra le 41.058 e le 37.164 unità, con una media di ≈37.800. Poiché l’ISTAT (come tutte le altre agenzie statistiche internazionali) riporta il numero di suicidi ogni 100.000 abitanti per la popolazione generale, questo significa che, se i poliziotti penitenziari fossero stati in totale 100.000 e non 37.800, il numero dei poliziotti suicidi sarebbe stato di 19,5. Ora, se si prendono i dati ISTAT cui fa riferimento lo stesso Autore[5], nella popolazione generale il numero dei suicidi maschi fra i 25 e i 64 anni (è questa la fascia di età che interessa) registrati nel 2009, è stato in media di 11,3 ogni 100.000 abitanti.

Ci chiediamo allora come l’ex Direttore Generale del Personale del DAP abbia potuto asserire, in maniera di cui non ritroviamo il fondamento a partire proprio dai dati da lui richiamati, che «[…] l’incidenza riferita al nostro campione [di pol. pen. suicidi] è tra le 2,4 e le 12,7 volte minore rispetto a quella della popolazione generale»!

Basandoci su dati non disaggregati per età, noi avevamo asserito che l’incidenza dei suicidi nella polizia penitenziaria era quattro volte maggiore rispetto alla popolazione generale, mentre invece è, all’incirca, maggiore solo di poco meno che due volte. Un aumento del 72,5 % è altissimamente “significativo” dal punto di vista statistico! Da psichiatri psicoanalisti ci domandiamo quanto sia “significativo”, invece, ribaltare questo dato scientifico nel suo contrario. Un errore così lapalissiano dovrebbe fare almeno riflettere chi intende dare lezioni sull’influenza dei pregiudizi.

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[1] P. Buffa, Il suicidio del personale del Corpo di Polizia penitenziaria, in questa rivista, 3 luglio 2019.

[2] Idem, p. 9.

[3] G. Brandi, M. Iannucci, I suicidi dei poliziotti penitenziari, in Persona e Danno, 8 giugno 2019.

[4] P. Buffa, Il suicidio, cit., Tab. 2, p. 9.

[5] ISTAT, I suicidi in Italia: tendenze e confronti, come usare le statistiche, 8 agosto 2012. Cfr., in particolare, il Prospetto 2 a pag. 4. Abbiamo considerato i dati del 2009 perché quelli riferiti all’anno più recente preso in esame dai dati disaggregati usati da Buffa. Il numero dei suicidi della popolazione generale, negli anni successivi, è addirittura diminuito.

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