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01.07.2020
Susanna Arcieri

Accepted the claim of the parents of the suicide inmate. The judgement of the ECHR, twenty years later

Note to ECHR, Sect. I, Citraro and Molino v. italy, Application no. 50988/13, June 4,2020

To read the Italian translation of the judgement, published on the Ministry of Justice website, click here.

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Lo scorso 4 giugno, la Prima sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha pronunciato una sentenza di condanna nei confronti dell’Italia in relazione al suicidio di Antonio Citraro, all’epoca trentenne, detenuto presso il carcere di Messina e trovato impiccato a un lenzuolo nella sua cella diciannove anni fa, nel gennaio 2001.

I genitori del detenuto, Santo Citraro e Santa Molino, all’epoca della morte del figlio avevano sporto denuncia presso la Procura di Messina, la quale aveva dato avvio alle indagini per omicidio colposo, favoreggiamento, falso per soppressione, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali nei confronti dell’allora direttrice del carcere messinese, dello psichiatra del carcere e di altri sei sottufficiali e agenti di polizia penitenziaria. Nel 2005, il Tribunale di Messina assolse lo psichiatra, e, nel 2007, tutti gli altri imputati per insussistenza del fatto.
Tanto la Corte d’appello, quanto la Corte di cassazione, respinsero le successive impugnazioni presentate dai genitori di Citraro.

Nel luglio del 2013 Santo Citraro e Santa Molino decisero di presentare ricorso alla CEDU, denunciando la violazione di norme della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo da parte delle autorità italiane.

«Risulta dal fascicolo che nel 1995 gli era stato diagnosticato un insieme di disturbi della personalità (dramatic cluster), ovvero disturbi antisociale, “borderline”, narcisistico, istrionico, ossessivo-compulsivo e paranoico. Tuttavia, l’esistenza di queste patologie non era stata ritenuta incompatibile con l’esecuzione della pena»: inizia così la ricostruzione offerta dalla CEDU nella presente sentenza, con riguardo alla storia del detenuto, il quale «nel 2000 aveva commesso atti di autolesionismo, compresi dei tentativi di suicidio».

In ragione delle condizioni di salute del detenuto, scrive ancora la CEDU, il 6 gennaio 2001 lo psichiatra del carcere aveva raccomandato «di trasferire con urgenza A.C. in OPG». Il 12 gennaio, la direttrice del carcere indirizzò al Ministero della Giustizia la relativa richiesta di collocamento in OPG, unitamente alla decisione favorevole del magistrato di sorveglianza.

Tre giorni dopo, il 15 gennaio, l’avvocato di Citraro, dopo un colloquio con il cliente, «informò la direzione del carcere che quest’ultimo era adirato e aveva danneggiato la cella a causa del suo mancato trasferimento in ospedale, e che rifiutava farmaci e cibo».

Il giorno successivo, alle ore 19:15, una guardia trovò Citraro appeso con un lenzuolo alla grata della cella.

«Quando il personale del carcere riuscì a entrare nella cella per fornire le prime cure ad A.C., quest’ultimo non reagì. Il detenuto fu trasportato d’urgenza all’ospedale civile, dove fu dichiarato morto al suo arrivo. Pochi istanti prima […] il carcere di Messina aveva ricevuto dal Ministero della Giustizia l’autorizzazione a trasferire A.C. all’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto».

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Nel proprio ricorso, i genitori del detenuto hanno prospettato, in particolare:

1. la violazione sostanziale dell’articolo 2 della Convenzione, nella parte in cui dispone che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge», in quanto, a loro avviso, le autorità nazionali non avrebbero adottato le misure sufficienti per prevenire il suicidio del figlio.

Infatti, secondo i ricorrenti, «il gesto fatale […] avrebbe potuto essere evitato», posto che «i disturbi psichici da cui era affetto il loro figlio erano ben noti alle diverse parti in causa, il che […] avrebbe dovuto spingere la direzione del carcere ad adottare misure ragionevoli e adeguate alla situazione», tra cui in particolare un opportuno adeguamento del livello di sorveglianza alle circostanze;

2. la violazione procedurale del medesimo articolo 2, sul presupposto che «l’indagine condotta sulle circostanze della morte del loro figlio e le responsabilità in questo decesso in quanto tale indagine non sarebbe stata conforme agli obblighi di natura procedurale di tale disposizione»;

3. la violazione, infine, dell’articolo 3 della Convenzione, che pone il divieto di sottoporre un individuo a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti, in quanto «il mantenimento in detenzione del loro figlio, senza un’assistenza medica adeguata» avrebbe rappresentato, appunto, un trattamento contrario ai principi posti dalla norma suddetta.

La CEDU ha accolto solo la prima richiesta, riconoscendo ai ricorrenti una somma pari a 32.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale subito ed affermando altresì la responsabilità dello Stato italiano in relazione al suicidio del detenuto.

Ricorda infatti la Corte che, per effetto dell’articolo 2 della Convenzione, lo Stato è obbligato «non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione». Un obbligo questo, che incombe sulle autorità nazionali laddove si accerti che esse «sapevano o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che la persona interessata attentasse alla propria vita».

Non vi è dubbio che Citraro, prosegue la CEDU, «in ragione della sua privazione della libertà e dei suoi disturbi psichici», ampiamente documenti nella cartella clinica, «era particolarmente vulnerabile»; inoltre, che «prima del suo arrivo nel carcere di Messina […] era stato posto varie volte in OPG» in stato di osservazione.

Pertanto, «il rischio di suicidio di A.C., oltre a essere reale», era «anche immediato»; d’altra parte, «la Corte è convinta che le autorità fossero a conoscenza» del concreto pericolo che il detenuto «potesse commettere degli atti di autoaggressione e attentare in maniera fatale alla propria vita».

Per quanto riguarda poi le misure adottate dalle autorità per scongiurare tali rischi, la Corte non nega che queste «abbiano condotto alcune azioni» per assicurare la protezione della vita del detenuto, ma non nega, al contempo, che vi sono «diversi elementi che indicano una mancanza di diligenza da parte delle autorità», e segnatamente:

  • il fatto che siano passati dodici giorni tra gli episodi di autoaggressione, registrati già il 5 gennaio, e l’autorizzazione al trasferimento presso un OPG, pervenuta solo nel giorno del suicidio (16 gennaio). «Un ritardo di questo tipo», ad avviso della CEDU, non può «essere considerato compatibile con il carattere urgente del trasferimento in OPG, indicato nel rapporto del medico»;
  • la decisione, assunta dalla direzione il 9 gennaio – il giorno stesso in cui veniva presentata la domanda di trasferimento al magistrato di sorveglianza – di «abbassare il livello di sorveglianza» del detenuto, «nonostante una serie di episodi che testimoniano il peggioramento evidente»;
  • la circostanza che, sempre il 9 gennaio, il detenuto abbia «distrutto una parte del mobilio della sua cella», barricandosi al suo interno «danneggiando anche l’illuminazione e chiudendo le imposte […], per rimanere così nell’oscurità totale»; una condotta, secondo la Corte, indicativa di «uno stato di sofferenza e di agitazione particolarmente elevato», come confermato anche dalle testimonianze degli agenti penitenziari, che avevano riferito di «discorsi deliranti e paranoici» da parte del detenuto.

In virtù di tutti questi elementi, è dunque possibile, secondo la Corte, a) affermare che le autorità italiane non hanno adottato «provvedimenti o misure ragionevoli per ridurre il rischio di suicidio, come il trasferimento in un’altra cella dotata di illuminazione funzionale, la pulizia dei luoghi o la messa in atto di consulenze frequenti con lo psichiatra», e b) concludere che «le autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita».

Torneremo presto con ulteriori riflessioni ad occuparci della decisione in esame, in ragione dei potenziali effetti deflagranti dei principi espressi dalla CEDU con riguardo alla futura gestione della politica penitenziaria nel nostro Paese.

 

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