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16.12.2020
Luca Santa Maria

Asbestos/6 – Jurists got to get over it: there is no law outside of a fact

Issue 12/2020

Article originally published in Il Fatto Quotidiano, October 8, 2020, in the weekly column “Giustizia di Fatto“, by Antonio Massari.

We thank the Editor of Il Fatto Quotidiano for their kind permission.

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La credibilità del diritto penale rantola e rotola nel piano inclinato del relativismo estremo

Come è possibile che un giudice veda un consenso scientifico intorno ad A e un altro giudice veda un consenso scientifico intorno a Non A? La Cassazione che cosa fa di fronte a questo problema? Talvolta si avventura sul terreno del fatto concreto provando a suggerire ai giudici di merito schemi generali di motivazione che potrebbero essere bastevoli per superare il vaglio che la stessa Corte di Cassazione farà sulla sentenza di condanna.

Così però anche la Cassazione sconta la generale incompetenza in materia di scienza (è tutto un fiorire di retorica di dosi killer, di Selikov che è stato frainteso, di rapporto dose risposta sistematicamente usato per dire cose che il concetto epidemiologico non dice), forse se ne avvede e il più delle volte è più prudente.

La Cassazione, che dovrebbe essere titolare della cattedra nomofilattica nel sistema e quindi dovrebbe dire che cosa è diritto penale e che cosa no, salomonicamente, allora, conferma e annulla assoluzioni così come annulla e conferma condanne per lo stesso fatto, la causazione del mesotelioma dall’esposizione occupazionale frazionata nel tempo, e forse non si accorge dell’aporia, cioè della flagrante contraddizione, che così introduce nel sistema, o forse sì se ne accorge benissimo ma sostiene ch’essa deve solo stabilire se il giudice di merito abbia logicamente motivato la condanna o l’assoluzione.

Sentiero pericoloso. Se si comincia con l’accettare che un giudice possa altrettanto bene motivare A e non A si scivola nello scetticismo estremo. Il problema è come sfidare e vincere lo scetticismo che la ragione impone di coltivare.

La Cassazione, che dovrebbe essere titolare della cattedra nomofilattica nel sistema e quindi dovrebbe dire che cosa è diritto penale e che cosa no, salomonicamente, allora, conferma e annulla assoluzioni così come annulla e conferma condanne per lo stesso fatto […] e forse non si accorge dell’aporia, cioè della flagrante contraddizione, che così introduce nel sistema

La legge scientifica di copertura, l’explanans, o c’è o non c’è, e che ci sia o è vero o è falso, tertium non datur, e se è vero che la validità logica della conclusione sull’explanandum dipende dalla validità logica dell’inferenza che vien fatta a partire dalle premesse, è anche vero che la verità della conclusione dipende strettamente dalla verità dell’explanans stesso.

Due ragionamenti possono cioè essere entrambi validi ma se l’una conclusione è l’opposto dell’altra, vuol dire che in uno dei due almeno una premessa era falsa, perché solo una delle due conclusioni può essere vera.

 La Cassazione, col sindacare solo la validità del ragionamento, cioè la sua intima coerenza, la sua non contraddittorietà, tutela forse la logica, ma sposta in secondo piano la verità come scopo del processo penale, promuovendo un pericolosissimo relativismo. Non è compito della Cassazione sindacare la verità delle premesse del ragionamento del giudice di merito?

Che cosa è la verità, però? Un’opinione molto credibile. Quando un’opinione è credibile? Esiste una misura oggettiva della credibilità di un’opinione purchessia? Il diritto penale è attrezzato per accettare la soggettività e la fallibilità di ogni giudizio probabilistico?

Finora ogni tentativo di iniettare la filosofia della probabilità, cioè la logica induttiva, sul vecchio illuministico concetto del libero convincimento del giudice è fallito anche se tutti continuano a dire che il convincimento del giudice non è libero dai lacci e dai lacciuoli della logica.

Se al giudice non si insegna codesta logica? Che io sappia esiste un solo pionieristico manuale di epistemologia giudiziaria scritto da un processualpenalista.

La Cassazione, col sindacare solo la validità del ragionamento, cioè la sua intima coerenza, la sua non contraddittorietà, tutela forse la logica, ma sposta in secondo piano la verità come scopo del processo penale, promuovendo un pericolosissimo relativismo

Il problema immane dell’incertezza: il diritto e il processo penale, per necessità, debbono fondarsi su un’epistemologia semplice che rimuove l’incertezza

La cultura della causalità deve essere ripensata dalle fondamenta ed è impensabile che si creda che essa sia neutrale strumento dommatico nelle mani dei giudici che non hanno che usarlo.

L’unica strada è accettare il passaggio dal vecchio universo deterministico, in cui leggi universali abbastanza chiare e semplici governano il corso degli eventi, a un universo largamente incerto, che potrebbe essere deterministico ma anche no, in cui non ci sono leggi universali, ma solo correlazioni sempre incerte tra eventi più o meno plausibili.

La svolta culturale richiede ingente impegno da parte di tutti. Il giudizio di probabilità di un evento è un giudizio ex ante e quindi a rigore non è un giudizio causale che è un giudizio ex postNon avrebbe senso calcolare la probabilità di un evento che è accaduto, e che quindi aveva per definizione il 100% di probabilità di verificarsi.

Forse la probabilità bayesiana consente strade razionali per sancire alcune regole guida per una nuova forma d’imputazione adatta alla complessità del problema.

Basterà, invece, la prova che il fatto A abbia aumentato la probabilità del verificarsi di B, nell’opinione soggettiva del giudice, per poter imputare penalisticamente B ad A? Parrebbe l’unica possibile strada.

Si assegna a ogni periodo di esposizione una probabilità e si decide per convenzione che l’evento possa essere attribuito a tutti perché la probabilità – oggettiva? soggettiva? – è sufficiente.

Ma quanto deve essere aumentato il rischio perché il diritto penale possa applicarsi? Come si misura quel quantum, cioè la forza della correlazione statistica?

L’unica strada è accettare il passaggio dal vecchio universo deterministico, in cui leggi universali abbastanza chiare e semplici governano il corso degli eventi, a un universo largamente incerto, che potrebbe essere deterministico ma anche no, in cui non ci sono leggi universali, ma solo correlazioni sempre incerte tra eventi più o meno plausibili

Un epidemiologo di gran fama, Bradford Hill, diventa ancor più famoso quando individua un set di nove criteri che, secondo lui, possono aiutare a pesare l’evidenza e a stabilire quando una correlazione è anche una causa.

L’articolo in questione, scritto negli anni ’60, ha il titolo eloquente di Association or causation e dà luogo a un profluvio di produzione filosofica e scientifica che riempie le pubblicazioni nei successivi decenni (A.B. Hill, The environment and disease: association or causation?, in Proceedings of the Royal Society of Medicine, 58, 1965, pp. 295 ss.).

Potrei sbagliarmi, ma a me non consta che alcun giurista, che pure pretenda di addentrarsi nella selva del rischio e dell’aumento del rischio, abbia mai citato né Hill né i suoi più o meno autorevoli successori.

Il penalista crede di sapere che cosa sia rischio e che l’unico suo problema, da buon dommatico, sia di trovare in quale parte della teoria del reato collocarlo, se nella causalità, nel pericolo, nella colpa o in qualche zona grigia a metà strada tra l’una l’altro e l’altro ancora.

Sfugge il punto cruciale.

Il penalista non sa nulla di rischio anche perché il rischio non è solo un esoterico concetto statistico. Anche la scienza della percezione sociale del rischio fa parte della scienza del rischio, così come ne è parte essenziale la giustizia della decisione sulla procedura sociale che definisce la misura del rischio accettabile.

La scienza del rischio è fatta di molte diverse scienze.

Sancire l’equivalenza tra causalità e aumento del rischio richiede aggiustamenti giganteschi nel sistema, e salti culturali immensi, perché significa accettare di far convivere il giudice con l’incertezza e la controvertibilità di qualunque conclusione, e il giudice penale non è abituato a questo esercizio, tant’è che il diritto oggi gli garantisce la finzione che egli sia giunto alla certezza BARD prima di condannare, il che non è mai vero.

Il rischio non è solo un esoterico concetto statistico. Anche la scienza della percezione sociale del rischio fa parte della scienza del rischio, così come ne è parte essenziale la giustizia della decisione sulla procedura sociale che definisce la misura del rischio accettabile

Hill stesso scrive che i suoi non sono criteri o regole di inferenza assolute. Sono solo, al più, linee guida (Idem, p. 299).

I nuovi fatti – le correlazioni probabilistiche – sono fatti di sabbia e fango, ci si affonda se non si sa come muovercisi.

Il caso dell’amianto è solo la punta visibile dell’iceberg

Stella ha messo sul tavolo il problema immane della relazione tra incertezza e diritto e processo penale, ma ha fatto l’errore di ritenere che il problema potesse essere confinato ai casi in cui il diritto penale incontra la scienza e quindi l’incertezza della scienza, mentre il problema è generale e da sempre angustia i penalisti.

Il problema è l’incertezza del mondo, che è in radicale conflitto con il bisogno di certezza del diritto penale, che quindi è condannato all’ipocrisia perché, se condanna – e la macchina è fatta per condannare, per “giustiziare” –, deve produrre illusioni di certezza a iosa, e deve difendere la cittadella con mura di finzioni credute vere per puro wishful thinking.

Formule vuote, perché tali sono la probabilità logica e BARD. All’ombra di quel vuoto, fatto di scienza che nemmeno entra nel processo – e, se entra, è come se restasse fuori, perché è il giudice che, ignaro di scienza, se ne sta fuori… – i giudici condannano e assolvono.

Il problema è l’incertezza del mondo, che è in radicale conflitto con il bisogno di certezza del diritto penale, che quindi è condannato all’ipocrisia perché, se condanna  […] deve produrre illusioni di certezza

Il problema di come si produca certezza lavorando l’incertezza, rimasto insoluto per secoli, anche se era ben noto ai giuristi antichi e ai giuristi medievali più che a quelli contemporanei, è riesploso – anche se l’esplosione non è stata ancora sentita – perché, per la prima volta, nel processo penale entrano fatti che sono tra loro molto simili (J. Franklin, The Science of Conjecture: Evidence and Probability before Pascal, John Hopkins University Press, 2001).

I fatti della scienza.

Nel passato, nel diritto penale che fu, il fatto era sempre unico e irripetibile e ogni giudice cucinava da sé la sua pietanza, cioè faceva la sua sentenza. Ora no.

Nel passato, per giudicare il fatto era sufficiente il più delle volte la normale intelligenza pratica del senso comune e il problema era che questa grande qualità non era e non è uniformemente distribuita tra tutti i giudici. Ora no.

Ora può accadere che molti giudici debbano decidere il medesimo fatto, o comunque un fatto che, alla fin fine, è analogo in molti processi penali, che sia un fatto d’inquinamento o un fatto di un’esposizione ad amianto o a sostanze tossiche o cancerogene o altro ancora.

La normale intelligenza pratica del senso comune non basta più perché dev’essere integrata quantomeno con cognizioni fondamentali di saperi specialistici che si apprendono solo con adeguata formazione.

La formazione – scientifica e tecnica – però non c’è, e ogni giudice fa quel che meglio crede e vuole, navigando nella sua inconsapevole ignoranza.

Così l’invisibile diventa visibile. Ogni giudice decide lo stesso fatto ora nel modo X ora nel modo non X, oppure nel modo Y o nel modo Z. Dipende. Da che dipende? Chi sa rispondere a questa domanda?

La normale intelligenza pratica del senso comune non basta più perché dev’essere integrata quantomeno con cognizioni fondamentali di saperi specialistici che si apprendono solo con adeguata formazione […]. La formazione – scientifica e tecnica – però non c’è

Vecchie distinzioni che non servono più perché non distinguono nulla più

La materia in cui così difficoltosamente proviamo a camminare ci porta a fare altre scoperte. Si è soliti distinguere rigidamente quaestio facti e quaestio iuris, ma la distinzione non regge più.

Il metodo col quale il giudice ha sciolto la cosiddetta quaestio facti, cioè il metodo col quale in questo caso ha costruito il fatto nel processo, è quaestio iuris ovvero il metodo o la mancanza di metodo nell’inferire conclusioni dalle prove è allo stesso tempo questione di fatto e questione di diritto.

Dobbiamo rassegnarsi all’idea che non c’è diritto alcuno al di fuori di un fatto, e che l’uno e l’altro si compenetrano a vicenda, in modi non sempre comodi da distinguere.

Spesso il giudice delinea ex post i termini della quaestio iuris per poter far stare nei confini della fattispecie astratta il fatto concreto, perché ha già deciso ex ante la questio facti in modo da farla corrispondere alla fattispecie astratta.

Il giudice si fa la domanda di cui già conosce la risposta, perché ha deciso già come rispondere, prima di farsi la domanda.

Forse è inevitabile, e proprio per questo dev’esser detto.

Il positivismo logico è entrato in crisi proprio quando ci siamo accorti che, alla fine, non c’è fatto che non sia carico di valore, cioè di soggettività, e non c’è valore al di fuori di un fatto concreto del cui valore o disvalore si possa sensatamente parlare.

Entrare in questo mondo dalla porta principale significa mettere in questione quasi tutto, e innanzitutto, la stessa distinzione tra diritto penale e processo penale.

I positivisti logici sostenevano che la definizione di un fatto è il metodo della sua verificazione empirica, il che sarebbe come dire che la definizione di qualunque concetto giuridico – causalità, ma non solo – è il metodo della sua provabilità nel processo. Non c’è differenza allora tra fatto e prova del fatto?

Il positivismo logico è entrato in crisi proprio quando ci siamo accorti che, alla fine, non c’è fatto che non sia carico di valore, cioè di soggettività, e non c’è valore al di fuori di un fatto concreto del cui valore o disvalore si possa sensatamente parlare

Non è qui il caso di procedere oltre su questa strada – finiremmo troppo oltre – anche se, come abbiamo visto, nella sentenza Franzese, la Cassazione ha già cominciato a picconare il dogma della separazione tra diritto fatto e prova, quando ha trattato la definizione giuridica della causalità con il concetto di probabilità logica che manifestamente attiene alla prova, cioè al grado di persuasività razionale di una proposizione sulla causalità e non alla definizione astratta della causalità.

Probabilità logica equivale a probabilità soggettiva. Continuare a tener separati i campi della definizione di un dato concetto e della provabilità processuale della sua verificazione è un gravissimo limite culturale del diritto penale che impedisce di vedere che definizioni di concetti non provabili nel processo sono il nulla, meri flatus vocis.

Uno dei tanti limiti.

La summa divisio tra fatto e (dis)valore è inattuale perché non c’è fatto che non sia fatto carico anche di (dis)valore e non c’è (dis)valore disancorato dal fatto.

Diritto penale e politica non sono affatto mondi separati. Che cos’è il diritto, allora? Dov’è?

 

 

(6/Continua)

Diritto penale e politica non sono affatto mondi separati. Che cos’è il diritto, allora? Dov’è?

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ISSN 2612-677X (website)
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