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19.06.2019
Stefano Lometti - Fabio Basile

Born killers?

Free will, behavioural genetics and neuroscience in a recent ruling of the Supreme Court*.

Issue 6/2019

Abstract. The progress of neuroscientific studies and behavioural genetics has, for some time, been feeding the debate on their possible repercussions on criminal law. Among the questions there are old and new questions: is there free will or not? And can new genetic and neuroscientific discoveries answer this question?

In addition to the questions just raised, these studies, because of their extreme novelty, pose additional problems in court regarding their reliability, when they are made available to the case for the purposes of the judgement of imputability.

The contribution analyses a recent ruling of the Court of Cassation that has addressed the dilemmas mentioned above, focusing specifically on the combined use of neuroscientific techniques and genetic-behavioural analysis.

 

SUMMARY. 1. The question that cyclically returns: is there free will? – 2. The Court of Cassation rules on genetic anomalies. – 3. Some conclusions (of necessity, provisional).

 

To download the judgement in question – Cass. pen., section I, 18 May 2018, (dep. 18 March 2019), no. 11897 -, click on “open file”.

 

1. Il quesito che ciclicamente ritorna: esiste il libero arbitrio?

Accade che per corsi e ricorsi della storia alcune questioni ritornino a sollecitare l’interesse, e il dibattito, dei più diversi settori della scienza, che forniscono risposte nuove a problemi vecchi, o risposte vecchie a problemi nuovi. Siffatti “corsi e ricorsi”, peraltro, non costituiscono affatto un limite dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche, bensì sono proprio il loro punto di forza: neanche un secolo fa, infatti, Karl Popper parlava della falsificabilità delle teorie scientifiche – cioè della loro intrinseca natura ad essere corroborate ovvero smentite da successive acquisizioni e da successivi esperimenti –[1] come requisito indispensabile per l’evoluzione del sapere.

Il diritto penale non è certo esente da questo inevitabile procedimento di ciclica riproposizione di domande e di (tentativi di) risposta. In particolare, negli ultimi anni sembra risorgere, dai sepolcri dov’era stato confinato, un antico quesito intorno al quale si erano interrogate le grandi Scuole Penalistiche di fine Ottocento: l’essere umano è, o non è determinato nei suoi comportamenti? In altre parole: esiste davvero il libero arbitrio?[2]

Tale quesito ha riacquistato attualità in primo luogo grazie ai recenti, impressionanti progressi delle c.d. neuroscienze, vale a dire – in estrema sintesi – un insieme di discipline volte a studiare il cervello umano e il suo ruolo nella determinazione dei comportamenti umani. Alla rivitalizzazione del quesito sul libero arbitrio ha, inoltre, contribuito la genetica comportamentale, il cui ambito di interesse principale è costituito dallo studio del genoma umano e dall’individuazione di alcuni polimorfismi genetici[3], asseritamente in grado di accentuare taluni aspetti del carattere umano (ad es., l’aggressività)[4].

L’interesse per la possibile determinazione di origine biologica del comportamento umano è d’altra parte antico, e risale almeno all’Ottocento. Al riguardo possiamo ricordare gli studi, che oggi si potrebbero definire neuroscientifici, aventi ad oggetto il caso di Phineas Gage[5]. Il signor Gage era un operaio impiegato nella costruzione di una ferrovia nello Stato del Vermont, addetto agli esplosivi, che il 13 settembre 1848, mentre piazzava una carica di polvere da sparo nella cavità di un masso che bloccava i lavori, incorse in un grave infortunio. La barra metallica utilizzata da Gage per comprimere la polvere innescò una reazione esplosiva e la barra, respinta dall’urto, trafisse il cranio di Gage causando gravissimi danni al lobo frontale del cervello. Nonostante il terribile incidente, l’operaio visse ancora per ben tredici anni e non registrò alcun tipo di menomazione fisica, ma il suo carattere subì un peggioramento evidente: da affidabile e meticoloso, Gage divenne irritabile e dissoluto. L’operaio fu a lungo oggetto di studio da parte della Harvard Medical School e di recente il suo cranio è stato sottoposto a nuovi studi, che hanno accertato come il cambiamento di carattere di Gage potrebbe essere effettivamente derivato da una lesione al lobo frontale deputato alla regolazione del comportamento sociale[6].

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Finora, tuttavia, né le neuroscienze, né la genetica comportamentale hanno potuto fornire risposte definitive in ordine al quesito sul libero arbitrio[7]: ma il progresso di queste discipline è continuo, sicché a breve potremmo aspettarci significative novità.

Come sopra accennato, le possibili ricadute che i quesiti sul libero arbitrio e, quindi, sul determinismo del comportamento umano, possono avere per il diritto penale furono già oggetto di accesa discussione negli anni del confronto tra Scuola Classica e Scuola Positiva, allorquando ci si chiedeva: può un essere umano, in ipotesi completamente “determinato”, meritare la pena? se si nega il libero arbitrio, non bisogna poi negare anche le categorie penalistiche della colpevolezza e della capacità di intendere e di volere?[8]

Finora […] né le neuroscienze, né la genetica comportamentale hanno potuto fornire risposte definitive in ordine al quesito sul libero arbitrio

2. La Corte di Cassazione si pronuncia sulle anomalie genetiche.

Il quesito relativo al libero arbitrio ha finito per emergere, sia pur solo incidentalmente, anche in una recente sentenza della Corte di Cassazione, depositata il marzo scorso, di cui si vuole sommariamente dare conto nelle seguenti pagine[9].

La triste vicenda giudicata da tale sentenza ha avvio il 2 novembre 2014: G. A. uscì come tutte le mattine a fare jogging, quando venne raggiunta da P.A., che, accostata la macchina, si avventò contro l’inerme donna per palpeggiarla. A nulla valse l’estremo tentativo di difesa della vittima. P.A., infatti, la percosse fino a farle perdere i sensi; credendola morta, la caricò nel bagagliaio della macchina e, poco distante, la gettò in un dirupo. Qui, però, sopravvissuta alla caduta, la donna fu uccisa infine dall’imputato con una sassata alla testa.

Ancora più agghiacciante il comportamento di P.A. successivo al fatto. Questi si recò, dopo l’omicidio, a pranzo con un amico, come se nulla fosse, per poi tornare sul luogo del delitto onde depredare i gioielli della vittima ed occultarne i resti, non prima di essersi masturbato sugli stessi.

P.A. confessò i reati a lui ascritti di sequestro di persona, omicidio, furto, occultamento e vilipendio di cadavere e la sua difesa chiese l’espletamento di una perizia psichiatrica, che venne tuttavia respinta.

Ammesso l’imputato al giudizio abbreviato, il G.U.P. lo condannò alla pena dell’ergastolo. P.A., però, impugnò la sentenza in appello chiedendo la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, adducendo un parziale vizio di mente scaturito da una lesione cerebrale, provocata da un incidente stradale di cui era stato vittima diciotto anni prima e a seguito del quale avrebbe – a sua detta – sviluppato una forma di epilessia.

La Corte d’Appello accolse la doglianza della difesa di P.A. e concesse la rinnovazione dell’istruttoria, sulla scorta della mancata valutazione del giudice di primo grado, di una serie di elementi tra cui i «profili anomali delle modalità di commissione del fatto»[10], disponendo quindi una perizia psichiatrica su P.A. al fine di accertare la sua capacità di intendere e di volere al momento del fatto.

Il perito nominato procedette dunque a sottoporlo ad alcuni accertamenti: in primo luogo, ad una TAC cranio encefalica, che rivelò la presenza di una notevole lesione prefrontale, causata verosimilmente dell’incidente di cui si è detto; in secondo luogo a test psico-diagnostici, da cui emersero funzionamenti cognitivi valutabili come borderline, i quali sarebbero stati all’origine anche di comportamenti sessuali anomali antecedenti per i quali P.A. era peraltro già stato condannato.

P.A., inoltre, venne sottoposto a uno screening genetico, dal quale emerse l’esistenza di «fattori costituzionali e, verosimilmente, anche ambientali, che, non rilevanti ai fini medico-legali, potevano favorire lo sviluppo di comportamenti socialmente aggressivi e aberranti»[11].

La perizia concludeva sottolineando che la presenza dei “polimorfismi genetici” rilevati sull’imputato, in unione con la suddetta lesione cerebrale, secondo recenti studi neurologici avevano potuto incidere sulla sua aggressività e sul comportamento antisociale.

In altre parole il perito osservò che, poiché la lesione cerebrale investiva l’area, secondo i più recenti studi, inibitrice delle pulsioni aggressive e violente, e considerato altresì che P.A. presentava una predisposizione genetica all’aggressività, il terribile mix delle due anomalie riscontrate fu almeno in parte all’origine del comportamento tenuto dell’imputato, avendo tali anomalie contribuito a diminuire grandemente la sua capacità di intendere e di volere (comprimendo, si potrebbe dire, la possibilità di determinarsi in modo differente). Insomma, un nuovo Phineas Gage.

Tali conclusioni furono interamente accolte dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma, la quale, riconosciuta l’attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 c.p., considerata equivalente alle contestate aggravanti, riformò la pesante pena irrogata dal giudice di primo grado nella più blanda condanna ad anni venti di reclusione.

Il perito osservò che, poiché la lesione cerebrale investiva l’area […] inibitrice delle pulsioni aggressive e violente, e considerato altresì che P.A. presentava una predisposizione genetica all’aggressività, il terribile mix delle due anomalie riscontrate fu almeno in parte all’origine del comportamento tenuto dell’imputato

I ricorsi in Cassazione che hanno dato esito alla sentenza in commento sono stati promossi dal Procuratore Generale di Roma e dalle Parti Civili.

I ricorrenti censuravano, in sintesi, lo stato ancora embrionale degli studi neuroscientifici e genetici applicati al caso di P.A. e adducevano alcuni elementi di fatto contrastanti con un asserito deterioramento dei comportamenti sociali dell’imputato, quali ad esempio la circostanza che lo stesso si fosse sposato dopo il sinistro e avesse continuato la propria professione lavorativa senza incorrere in particolari problematiche.

Le Parti Civili, poi, osservavano che le neuroscienze e gli studi genetici non godono ancora di accreditamento presso la comunità scientifica, né sono in grado di connettere con certezza le lesioni cerebrali, o le anomalie genetiche, con i comportamenti tenuti dal soggetto in cui si riscontrano; ma al più possono individuare una delle probabili cause.

La difesa dell’imputato, dal canto suo, sosteneva la correttezza delle motivazioni fatte proprie dal giudice del gravame, sottolineando peraltro come lo stesso abbia svolto adeguatamente il proprio ruolo di custode della prova, valutando correttamente l’attendibilità scientifica delle tecniche utilizzate dal perito.

Il giudice di legittimità, nel rigettare le doglianze dei ricorrenti, ha, da un lato, approvato la logicità del ragionamento seguito dalla Corte d’Assise d’Appello in merito all’attendibilità delle tecniche scientifiche utilizzate, sottolineando come il giudice del gravame abbia esaurientemente messo in luce «la completezza della indagine, scientificamente supportata, statisticamente verificata e nel concreto riscontrata dalle altre risultanze processuali, e la sua resistenza a fronte di soccombenti obiezioni e rilievi contrari»[12]; dall’altro lato, ha ritenuto esente da contraddizioni, contrariamente a quanto sostenuto dai consulenti di parte civile, il ragionamento del giudice d’appello laddove ha ritenuto che la perizia non sarebbe giunta a sostenere una sorta di negazione del libero arbitrio desumendola dall’equazione «danno, più predisposizione genetica, uguale necessaria infermità di mente»[13], né tantomeno la perizia avrebbe rinvenuto un’origine esclusivamente biologica del comportamento di P.A.

Infatti, come osservato dal perito, l’insieme, da un lato, della lesione cerebrale, dall’altra della predisposizione genetica non può essere considerato da solo sufficiente a causare il comportamento antisociale. Al contrario, è l’amalgama sia delle dette cause organiche, sia di fattori predisponenti (quali il contesto famigliare, ambientale, lavorativo, etc.) che consente all’anomalia genetica e cerebrale di manifestarsi in un comportamento antisociale.

Ed è proprio l’avverarsi di tutti i fattori, biologici e ambientali, che ha quindi probabilmente condotto P.A. al proprio comportamento criminale, ingenerando in lui un’incapacità «a governare la propria volontà, viziata dal danno cerebrale riportato»[14].

Rimane, infine, da sciogliere il dubbio espresso dalle Parti Civili: come è dimostrabile che l’azione criminale sia stata proprio l’avveramento proprio della lesione cerebrale e dell’anomalia genetica, se il loro influsso sul comportamento antisociale è determinato da una pluralità di fattori difficilmente apprezzabili nella loro totalità in sede di giudizio?[15]

Il giudice di legittimità dà risposta anche a tale quesito osservando che il riconoscimento della in-imputabilità o della semi-imputabilità non sottostà allo standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 c.p.p., bensì – producendo un beneficio per l’imputato – segue il canone garantistico in dubio pro reo, per cui è sufficiente «un ragionevole livello di probabilità del vizio di mente secondo la regola di giudizio “più probabile che non”, che nella specie è confortato dalla riscontrata combinazione nell’imputato dell’alterazione genetica e del danno cerebrale e da una serie di elementi concordanti e logicamente valorizzati, pertinenti alla condotta dello stesso antecedente e successiva all’omicidio, con i quali sono state confrontate le tesi recepite e che hanno fatto propendere il perito, e poi la Corte, per il vizio parziale di mente per incapacità di volere, o che comunque hanno insinuato il dubbio sulla sua sussistenza»[16].

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3. Alcune conclusioni (di necessità, provvisorie).

La sentenza in commento rappresenta una delle prime della Corte di Cassazione che affronta – seppur in maniera molto sintetica – la tematica inerente l’attendibilità delle tecniche di analisi di genetica comportamentale, unite a tecniche neuroscientifiche, e la connessa questione riguardante l’asserito determinismo sotteso a tali teorie[17].

La conclusione del confronto è chiara: le suesposte anomalie genetiche e cerebrali non sono in grado di negare l’esistenza del libero arbitrio, ma possono rilevare come fattori che, uniti ad una pluralità di condizioni di tipo sociale, possono fondare un giudizio di assenza o diminuita capacità di intendere e volere.

Alla luce di ciò, non resta che domandarsi quale possa essere il futuro delle indagini genetiche e delle connesse analisi neuroscientifiche nei procedimenti penali, soprattutto in considerazione del fatto che – come chiaramente afferma la Cassazione in questa sentenza – la prova della mancanza o della diminuita imputabilità non necessita già della certezza, bensì si accontenta “solo” di un probabile nesso eziologico tra anomalie genetiche, lesioni cerebrali e azione criminale.

Ciò permette di non ritenere peregrino che le indagini genetiche, insieme alle tecniche neuroscientifiche, possano divenire in un prossimo futuro utile strumento in grado di assistere il giudice nel giudizio di imputabilità.

Da altro punto di vista permane però la problematica sull’attendibilità scientifica di tali tecniche. La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha, infatti, potuto limitarsi a ritenere esente da vizi logici la motivazione della Corte d’Assise d’Appello, assolvendo così il compito del giudice di legittimità, chiamato non già alla verifica dell’attendibilità o meno della tecnica scientifica, quanto a controllare la correttezza argomentativa svolta dal giudice di merito[18].

La sentenza di cui sopra, quindi, non esenta il giudice di merito ad operare in futuro il vaglio di attendibilità delle tecniche caso per caso. A maggior ragione in presenza di metodologie come quelle sinora esaminate, la cui già sottolineata novità, unita alla loro ancora embrionale capacità esplicativa dei comportamenti umani, necessita di particolare attenzione, onde consentire l’accesso nel processo solo a quelle conoscenze che siano scientificamente attendibili[19].

A tal fine, come noto, la giurisprudenza di legittimità ha segnalato al giudice di merito la via per assolvere tale compito, accogliendo anche nella giurisprudenza italiana i criteri enunciati nel 1993 dalla sentenza della Suprema Corte degli Stati Uniti Daubert (sottoposizione della teoria a verifiche ed esperimenti, e in particolare a tentativi di falsificazione; sottoposizione della teoria a peer review; conoscibilità del relativo tasso di errore, accertato o potenziale; infine ed eventualmente il grado di consenso scientifico riscosso)[20].

La genetica comportamentale, così come le neuroscienze, appaiono dunque oggi un nuovo banco di prova per testare la capacità del giudice, nel suo ruolo di custode della prova, di selezionare tecniche scientifiche funzionali all’accertamento processuale, che presentino adeguata attendibilità, avvalendosi dei criteri anzidetti.

Che cosa aspettarsi, quindi?

Di certo, lo spettro di un pieno determinismo biologico appare essere per ora “allontanato” dalla rassicurante idea che altri fattori, quali quelli sociali e ambientali, agiscono necessariamente in combinazione con le anomalie genetiche. Tuttavia, l’idea che il comportamento criminale possa essere (anche) determinato dalla genetica e dal cervello, rimane, secondo il giudice di legittimità, una probabilità plausibile a determinate condizioni: si insinuano, così, seri dubbi sulla capacità di determinarsi liberamente del soggetto.

Per altro verso, riguardo l’attendibilità scientifica delle tecniche in questione, non si può che rimanere in attesa di future pronunce chiamate al difficile compito di vagliare caso per caso la loro ammissibilità, “determinando” la loro futura fortuna nelle aule giudiziarie.

 

BIBLIOGRAFIA

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P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in Diritto penale e processo, fasc. 11, 2011, pp. 1341 ss.

_____________________________________

 

* Il presente lavoro è frutto di comune discussione e riflessione da parte di entrambi gli Autori. Ad ogni modo, nelle sedi ove ciò possa assumere rilievo, il paragrafo 1 va attribuito a Fabio Basile e i paragrafi 2 3 a Stefano Lometti.

[1] K. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della coscienza scientifica, Edizione italiana di G. Pancaldi, Il Mulino, 2009.

[2] Il quesito sul libero arbitrio e sulla sua considerazione a livello legislativo è stato di recente risollevato da un articolo di due psicologi statunitensi, J. Greene, J. Cohen, For the Law, Neuroscience changes Nothing and Everything, in Philosophical Transactions of the Royal Society, n. 352, 26 novembre 2004, pp. 1775 ss. Tale articolo ha suscitato un ampio dibattito anche in Europa e in Italia: nella nostra letteratura, v. ad esempio A. Nisco, Il confronto tra neuroscienze e diritto penale sulla libertà di volere, in Diritto penale e processo, n. 4, 2012, pp. 499 ss.; F. Basile, G. Vallar, Diritto penale e neuroscienze, in Giornale Italiano di Psicologia, n., 4, 2016, pp. 799 ss.; O. di Giovine, Prove di dialogo tra neuroscienze e diritto penale, ivi, pp. 719 ss.; C. Grandi, Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappicchelli, 2017.

[3] Per “polimorfismo di geni” possiamo intendere la «presenza, nella popolazione di una specie, di più alleli di uno stesso gene: per convenzione, si considerano polimorfismi genetici solo le forme che si presentano con una frequenza maggiore dell’1%»: così M. Capocci, voce Polimorfismo di geni, in Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Treccani, 2008.

[4] Lo studio del DNA ha permesso di isolare alcuni geni coinvolti nella regolazione dei neurotrasmettitori del sistema nervoso, deputati alla regolazione del comportamento e dell’umore, come la melatonina e la seratonina. In argomento, all’interno di un’ampia letteratura specialistica, v. ad es. S. Pellegrini, Il ruolo dei fattori genetici nella modulazione del comportamento: le nuove acquisizioni della biologia molecolare genetica, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori, Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, 2012, pp. 70 ss.

[5] G. Rolls, Casi classici della psicologia, Edizione italiana a cura di L. Piccardi, S. D’Amico, Springer-Italia, 2011, pp. 186 ss. Sull’argomento anche P. Pietrini, V. Bambini, Homo Ferox: Il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori, Manuale di neuroscienze, cit., pp. 41 ss.

[6] H. Damasio, T. Grabowski, R. Frank, A. Galaburda, A.R. Damasio, The return of Phineas Gage: clues about the brain from the skull of a famous patient, in Science, n. 264, 1994, pp. 1102 ss.; in questo studio si è ricostruito, con un modello tridimensionale, il cranio dello sfortunato Gage e si è così dimostrato che lo stesso riportò una lesione piuttosto ampia alla porzione orbitale del lobo frontale.

[7] Sul punto, v. ad esempio il parere reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 17 dicembre 2010, Neuroscienze ed osservazioni sull’uomo: osservazioni bioetiche, disponibile a questo link.

[8] Si veda quanto scrive in proposito, ad esempio, F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, IX ed., CEDAM, 2015, p. 630: «l’imputabilità sottintende l’ipotesi della libertà di volere, essendo questa la premessa logica sottostante alla distinzione tra soggetti meritevoli di pena (perché normali, intimidibili) e non meritevoli (perché anormali, non intimidibili) e come pure alla concezione della responsabilità umana».

[9] Cass. pen., sez. I, 18 maggio 2018, (dep. 18 marzo 2019), n. 11897.

[10] Idem, par. 7, p. 5.

[11] Idem, par. 7.1, p. 6.

[12] Idem, par. 3.5.1, p. 19.

[13] Idem, Par. 3.4.2, p. 18.

[14] Ibidem.

[15] Si ricordi in proposito il principio di diritto espresso da Cass., Sez. Un., 8 marzo 2005, n. 9163, Raso, in De Jure: «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa».

[16] Cass. pen., sez. I, 18 maggio 2018, cit., par. 3.5.4, p. 21.

[17] Diverse, invece, le sentenze di merito che in passato hanno affrontato queste problematiche: per una panoramica delle stesse si veda F. Basile, G. Vallar, Neuroscienze e diritto penale: le questioni sul tappeto, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n., 4, 2017, pp. 269 ss.; C. Grandi, Diritto penale e neuroscienze, in questa rivista, 2 aprile 2019.

[18] Così si è espressa la stessa sentenza in commento: «[…] non dovendo la Corte di cassazione, in tema di prova scientifica, stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica», facendo sostanzialmente propri i dettami compendiati nella celebre sentenza Cozzini (Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n.43786, in De Jure).

[19] Si osservi che, ad esempio, recentemente la Corte di Cassazione ha avallato la decisione della Corte D’Appello di Salerno di negare rilevanza ad indagini neuroscientifiche, in quanto non dotate della necessaria condivisione nel panorama scientifico, Cass. pen., sez. I, 7 febbraio 2018, n. 26895, in De Jure; per un commento v. C. Grandi, Diritto penale e neuroscienze, cit. Il tema sui criteri di valutazione dell’attendibilità della tecnica scientifica è affrontato ampiamente in letteratura, per ragioni di sintesi si rinvia, senza pretesa di esaustività, a P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in Diritto penale e processo, fasc. 11, 2011, pp. 1341 ss.; C. Intrieri, Le neuroscienze ed il paradigma della nuova prova scientifica, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori, Manuale di neuroscienze forensi, cit., pp. 192 ss.; F. Basile, L’utilizzo nel processo penale di conoscenze scientifiche, tra junk science e legittima ignoranza del giudice, in Studium Juris, n. 2, 2018, pp. 172 ss.; C. Grandi, Diritto penale e neuroscienze, cit.

[20] La tematica dei criteri di valutazione dell’attendibilità della nuova tecnica scientifica è affrontato ampiamente in letteratura, per ragioni di sintesi si rinvia senza pretesa di esaustività a P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert, cit..; C. Intrieri, Le neuroscienze ed il paradigma, cit.; C. Grandi, Diritto penale e neuroscienze, cit.

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