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17.04.2020
Paolo Oddi

Is the right in the eye of the beholder?

Ports closed, fundamental rights and pandemic

Issue 4/2020

Ho provato a immaginare di essere uno dei naufraghi salvati dalla nave Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye, unica operativa negli scorsi giorni nelle acque del Mediterraneo.

Mi sono anche immedesimato nell’operatore umanitario che ha dovuto comunicare a questo naufrago, già così provato dalle traversie della detenzione in Libia e del viaggio sul barcone, che i porti italiani – quelli verso i quali la ONG si stava dirigendo per portare a termine la sua missione di soccorso – sono di nuovo “chiusi”.

Sì, perché con un decreto dell’8 aprile scorso[1] così hanno stabilito i Ministri dell’interno, dei trasporti, degli esteri e della salute.

Fino al termine dello stato di emergenza dichiarato dal Consiglio dei ministri.

Questa volta, chiusi per emergenza Coronavirus. Chiusi cioè dal Governo italiano perché ritenuti non sicuri; non più “place of safety” (POS) ma porti insicuri per la salute, in primo luogo, dei naufraghi stessi.

I porti italiani – quelli verso i quali la ONG si stava dirigendo per portare a termine la sua missione di soccorso – sono di nuovo “chiusi”. Sì, perché con un decreto dell’8 aprile scorso così hanno stabilito i Ministri dell’interno, dei trasporti, degli esteri e della salute. Fino al termine dello stato di emergenza dichiarato dal Consiglio dei ministri

Mi sono immaginato e mi sono immedesimato e, subito, ho riflettuto sul paradosso e sull’ingiustizia di questa scelta.

Il paradosso ruota tutto attorno alla fase emergenziale che stiamo vivendo.

Siamo in lockdown, le frontiere sono chiuse per pandemia, siamo noi i più colpiti, siamo uno dei Paesi più colpiti al mondo. Tutto il nostro sistema sanitario è impegnato a far fronte alla gravissima situazione. Così, il decreto, in premessa.

Conseguenza: «non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri senza compromettere la funzionalità delle strutture sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e di cura ai pazienti Covid-19»[2].

Il luogo comune del profugo untore è archiviato!

Qui si sostiene un altro concetto non realistico (e paradossale), ovvero che l’Italia non sarebbe sicura per i profughi perché troppo impegnata a tenere salda la barra della funzionalità dell’intero sistema volto a contenere il virus e a curare gli ammalati.

Ma di che cosa stiamo parlando?

Ad esempio, di quali numeri? Quanti sono i sopravvissuti delle traversate della disperazione, fuori dalle acque italiane, specie negli ultimi mesi, in una quasi totale assenza di navi delle ONG, messe a dura prova dal trattamento subìto ad opera del precedente governo?

Conosciamo il numero (sempre più basso) dei naufraghi soccorsi dalle organizzazioni umanitarie. Parliamo di poche centinaia di uomini, donne e bambini. Da ultimo parliamo di 149 persone[3].

Si sostiene […] che l’Italia non sarebbe sicura per i profughi perché troppo impegnata a tenere salda la barra della funzionalità dell’intero sistema volto a contenere il virus e a curare gli ammalati

È di queste ore la notizia di un tentato suicidio a bordo della Alan Kurdi[4].

La scelta di non fare attraccare le navi è riferita a quelle non battenti bandiera italiana che abbiano prestato soccorso in acque internazionali. Solo a loro, e quindi all’Alan Kurdi, è rivolto questo nuovo divieto di sbarco.

Di queste navi e del loro dolente carico dovranno, e ci risiamo, farsene carico gli Stati di bandiera.

La scelta di non fare attraccare le navi è riferita a quelle non battenti bandiera italiana che abbiano prestato soccorso in acque internazionali. Solo a loro, e quindi all’Alan Kurdi, è rivolto questo nuovo divieto di sbarco

Per chi batte bandiera italiana e per chi arriva alla spicciolata con barchini di fortuna vengono invece riservate apposite navi per la quarantena, come prevede un altro decreto, questa volta del Capo del Dipartimento della Protezione Civile[5].

Dunque, ci risiamo.

I due decreti si pongono in netto contrasto con la normativa internazionale che, come più volte ribadito dalla magistratura, impone ai soccorritori di condurre i naufraghi nel più vicino porto sicuro.

Ce l’hanno insegnato le numerose battaglie condotte lo scorso anno.

Lo hanno ribadito i numerosi provvedimenti giudiziari[6], laddove hanno chiarito che si configura come un vero e proprio adempimento di un dovere quello in capo al comandante di una nave di condurre nel porto sicuro più vicino i naufraghi, farli sbarcare e lì garantire i diritti fondamentali di cui sono titolari, tra i quali e non da ultimo il diritto di chiedere asilo.

Vale qui la pena citare la sentenza di Cassazione sul caso Rackete, per l’assoluta chiarezza di quanto sancito.

«Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative. […] Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali” (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale»[7].

Numerosi provvedimenti giudiziari […] hanno chiarito che si configura come un vero e proprio adempimento di un dovere quello in capo al comandante di una nave di condurre nel porto sicuro più vicino i naufraghi, farli sbarcare e lì garantire i diritti fondamentali di cui sono titolari

Un porto non può dirsi insicuro a causa della pandemia, perché in gioco vi sono appunto altri e non sacrificabili diritti fondamentali dei profughi, primo tra tutti quello alla vita. C’è in ballo la tutela della salute di autoctoni e di naufraghi. Tutti devono essere messi in sicurezza. Sul territorio di sbarco.

Abbiamo le condizioni per tutelare tutti, italiani e profughi, dal rischio contagio.

Mettendo in campo quanto stiamo già facendo.

Ma non possiamo legittimamente sostenere che per i profughi soccorsi non ci sono le condizioni di sicurezza per accoglierli.

Se non violando nuovamente i diritti umani fondamentali.

Non possiamo legittimamente sostenere che per i profughi soccorsi non ci sono le condizioni di sicurezza per accoglierli. Se non violando nuovamente i diritti umani fondamentali

Post scriptum.

È di queste ore la notizia dell’imminente sbarco di 146 dei 149 naufraghi (tre erano già stati prelevati per motivi di salute) su una nave civile della Compagnia italiana di navigazione approntata per la quarantena[8]. Il trasferimento dovrebbe avvenire nelle acque di fronte a Palermo, dove l’Alan Kurdi è all’ancora. Per evitare di violare il decreto in commento, sarebbe questa la soluzione individuata dal Governo.

Una resipiscenza? Che comunque elude le questioni qui sollevate.

Con altrettanta apprensione seguiremo la sorte del 36 migranti salvati dalla Aita Mari, della ONG basca Salvamento Maritimo Humanitario, soccorsi mentre la nave – non in missione – stava dirigendosi da Siracusa alla Spagna, ora fermi a sud di Lampedusa e in attesa dell’assegnazione di un POS dopo che Malta ha negato l’approdo[9].

 

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[1] Il testo del decreto è disponibile a questo link.

[2] Idem (p. 2 del file PDF).

[3] Cfr., tra le molte notizie diffuse sulla stampa, l’articolo di E. Terranova, Capo missione “Alan Kurdi”: “Situazione sempre più difficile, governo ci aiuti”, in Adnkronos, 14 aprile 2020.

[4] Tentato suicidio a bordo della Alan Kurdi, in Adnkronos, 16 aprile 2020.

[5] Cfr. il testo dell’art. 1, c. 1, del decreto del Capo Dipartimento n. 1287 del 12 aprile 2020, Nomina del soggetto attuatore per le attività emergenziali connesse all’assistenza e alla sorveglianza sanitaria dei migranti soccorsi in mare ovvero giunti sul territorio nazionale a seguito di sbarchi autonomi nell’ambito dell’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.

[6] Trib. Agrigento, Uff. GIP, ord. 2 luglio 2019, giud. Vella; Trib. Trapani, sent. 23 maggio 2019, giud. Grillo, entrambe commentate da P. Oddi, Soccorrere è un dovere. Commento e riflessioni sull’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Agrigento sul caso Sea Watch 3 (Carola Rackete), in questa rivista, 10 luglio 2019.

[7] Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020, Il testo delle motivazioni è pubblicato in Giurisprudenza penale, 21 febbraio 2020, a questo link.

[8] Migranti, “episodi di autolesionismo e un tentato suicidio sulla Alan Kurdi”. Mit: “Pronta nave per la quarantena, venerdì il trasbordo”, ne Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2020.

[9] L’Aita Mari con 43 migranti a bordo chiede un porto sicuro: “il mare peggiora”, in Rai News, 14 aprile 2020.

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