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02.05.2019
Wolf Singer

No one can be different from what they are

According to Wolf Singer, Director of the Frankfurt Max Planck Institute for Brain Research, everything we think and do can be explained by neuronal processes: we should stop talking about freedom.

Issue 5/2019

We publish here, courtesy of Prof. Wolf Singer, our full translation of the article Keiner kann anders, als er ist, in Frankfurter Allgemeine, January 8, 2004.

 

SUMMARY: 1. Bio-evolutionary arguments. – 2. How knowledge comes to our head. – 3. Neuronal mental acts. – 4. Different forms of knowledge. – 5. Neuronal foundations of decision-making processes. – 6. Always the same principles. – 7. Conscious and unconscious processes. – 8. Late learning. – 9. Free and non-free decisions. – 10. A plausible answer. – 11. A more human point of view? – 12. Defense through deprivation of freedom[1].

 

Le decisioni sono il risultato di processi di analisi a cui contribuiscono molteplici motivazioni consapevoli e inconsapevoli. Sono queste che determinano il risultato, ma restano pressoché imperscrutabili nella loro totalità, sia per l’io che decide, sia per l’osservatore esterno.

I ricercatori affermano che le decisioni del cervello sono basate su processi neuronali. Devono quindi spiegare come la conoscenza sulla quale si fondano le decisioni venga rappresentata a livello neuronale, come si manifestino nel sistema nervoso le motivazioni, come siano organizzati i processi di analisi, come si formi l’“io” che vuole e che decide, e infine quali siano le conseguenze delle risposte sull’autoconsapevolezza e sulla valutazione delle decisioni sbagliate.

La certezza che la nostra volontà e le nostre decisioni si fondino su processi neuronali del cervello deriva dalla convergenza di più osservazioni indipendenti. Una delle linee di argomentazione si basa sull’evidenza biologico-evolutiva di una stretta correlazione tra il grado di differenziazione dei cervelli e le loro facoltà cognitive. Le prestazioni comportamentali degli organismi semplici sono interamente riconducibili ai processi neuronali dei rispettivi sistemi nervosi. Poiché l’evoluzione procede molto cautamente con le proprie innovazioni, sostanzialmente i cervelli semplici si differenziano dai cervelli altamente complessi solo per il numero di cellule nervose e per la complessità delle reti di collegamento. Ne consegue che anche le funzioni cognitive complesse dell’essere umano debbano essere fondate sui processi neuronali, organizzati secondo gli stessi principi che già conosciamo così come sono presenti nei cervelli degli animali.

 

1. Argomentazioni bio-evolutive.

Le argomentazioni bio-evolutive portano obbligatoriamente a trarre le stesse conclusioni: la differenziazione delle strutture cerebrali nello sviluppo individuale va di pari passo con la formazione di facoltà cognitive sempre più complesse. Questo vale anche per le facoltà mentali che contraddistinguono gli esseri umani. Passo dopo passo, il bambino acquisisce la capacità di utilizzare un linguaggio basato sui simboli, di eseguire operazioni logiche di livello superiore, di costruire la consapevolezza di sé e, in questo modo, percepirsi come attore autonomo. La maturazione delle strutture del cervello anteriore è associata alla capacità di sviluppare una teoria della mente, vale a dire di immaginare cosa un altro individuo pensa o sente, e la conquista di competenze sociali altamente differenziate. Per quando riguarda soltanto queste funzioni cognitive operazionabili, appare obbligata anche la loro dipendenza neuronale. Ma qual è il comportamento nella rappresentazione delle realtà sociali, dei sistemi di valori e convinzioni, che devono la propria nascita alle facoltà creative di sistemi sociali? Trova anch’essa espressione nei processi neuronali dei singoli cervelli?

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2. Come arriva la conoscenza nella nostra testa.

Tutta la conoscenza che il cervello accumula risiede nella sua architettura funzionale, nei collegamenti specifici tra i molti miliardi di cellule nervose. Alla conoscenza non contribuisce solo ciò che si viene a sapere sulle condizioni del mondo, ma anche il sistema di regole secondo cui la conoscenza viene valutata per strutturare le nostre percezioni, i processi mentali, le decisioni e le azioni. Qui interviene una distinzione tra conoscenza innata e conoscenza acquisita con l’esperienza.

La prima è stata assorbita durante l’evoluzione attraverso tentativi ed errori, è memorizzata nei geni e si manifesta di nuovo ogni volta nei collegamenti cerebrali di base determinati geneticamente. La conoscenza che si aggiunge nel corso della vita modifica quindi queste opzioni di collegamento innate. Finché perdura lo sviluppo del cervello (negli esseri umani, fino alla pubertà), i processi educativi ed esperienziali plasmano la configurazione strutturale delle reti neurali all’interno di un ambiente geneticamente predefinito. Successivamente, quando il cervello è maturo, queste modifiche fondamentali dell’architettura non sono più possibili. Tutto il sapere si riduce quindi a una variazione nell’efficienza dei collegamenti esistenti. La conoscenza del mondo acquisita e aggiunta dall’inizio dell’evoluzione culturale, ovverosia la conoscenza delle realtà sociali, trova quindi la propria espressione nella caratterizzazione specifica da un punto di vista culturale dell’architettura dei singoli cervelli.

L’imprinting iniziale programma i processi cerebrali in modo quasi altrettanto permanente quanto i fattori genetici, poiché entrambi i processi si manifestano in ugual modo nella specifica degli schemi di collegamento.

 

3. Atti mentali su base neuronale.

Il fatto che anche le conoscenze acquisite per collocazione culturale abbiano un fondamento neuronale è confermato dai risultati delle neuroscienze cognitive. Azioni mentali quali partecipare al dolore altrui, avere la coscienza sporca, reprimere una reazione, provare disagio nel sentirsi socialmente esclusi o nel vedere gli altri trattati ingiustamente, tutti questi processi intrapsichici, che acquistano rilevanza solo in relazione agli altri, sono basati sull’attivazione di strutture neuronali ben definite. È vero infatti che un disturbo nella funzionalità delle regioni cerebrali corrispondenti porta alla perdita di queste facoltà. Tuttavia, è vero anche che una richiesta o un comando, null’altro che normali stimoli sensoriali, innescano l’attivazione di regioni cerebrali ben precise, che si acquietano solo quando il compito viene eseguito o dimenticato. Pertanto, gli impegni culturali e le interazioni sociali influiscono sulle funzioni cerebrali al pari di tutti gli altri fattori che agiscono sulle interconnessioni neuronali e sui modelli di eccitazione che vi si basano. Per i processi funzionali all’interno delle reti neuronali non è importante se la determinazione specifica dei modelli di interconnessione derivi da istruzioni genetiche o da processi di imprinting culturale, o se l’attività dei neuroni sia una conseguenza di normali stimoli sensoriali o segnali sociali.

 

4. Diverse forme di conoscenza.

Per la valutazione dei processi decisionali, è importante il fatto che la conoscenza trasmessa geneticamente abbia un carattere implicito, poiché non siamo in grado di ricordarne consapevolmente l’acquisizione. Lo stesso vale per l’apprendimento iniziale, in quanto le strutture cerebrali necessarie per la creazione della memoria dichiarativa maturano solo in seguito.

Per “memoria dichiarativa” si intende la capacità di ricordare consapevolmente quanto appreso e di memorizzare il contesto in cui si è inserito il processo di apprendimento. I bambini acquisiscono conoscenza dal mondo, ma non conservano un ricordo consapevole del processo di apprendimento. Si parla quindi di amnesia della prima infanzia. Ne consegue pertanto che non solo la conoscenza innata, ma anche una parte considerevole della conoscenza culturale trasmessa dall’educazione assumono il carattere di indicazioni assolute e indiscutibili, di verità e convinzioni incontestabili, non sottoponibili a relativizzazione.

Rientrano in questo bagaglio di conoscenze implicite i modelli di pensiero e le strategie comportamentali innati ed educativi, ma anche i sistemi di valori e le convinzioni religiose. Per lo stesso motivo, è plausibile che anche i contenuti della nostra percezione di sé possiedano la stessa natura assoluta. Impariamo presto che ci viene richiesto di essere agenti autonomi e liberi nelle proprie decisioni e azioni, responsabili del proprio agire e quindi sanzionabili. Frasi quali «se lo fai…» presuppongono la possibilità di una libera scelta tra due opzioni comportamentali.

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Non conserviamo alcun ricordo nemmeno dell’acquisizione delle convinzioni che traiamo dal comportamento altrui nei nostri confronti. Lo stesso vale per il processo di costruzione della nostra consapevolezza dell’io attraverso l’osservazione di come le nostre azioni si ripercuotono sugli altri, attraverso il riflesso nella cognizione del prossimo. Diventa consapevolezza esplicita solo la conoscenza del mondo, acquisita dopo la formazione delle funzioni della memoria dichiarativa, quindi nel corso del tempo. Ricordiamo il processo di apprendimento, siamo in grado di richiamare consapevolmente questa conoscenza e di trasformarla verbalmente in argomentazioni.

 

5. Fondamenti neuronali dei processi decisionali.

A seguito dell’adeguamento evolutivo, il cervello è configurato per ricercare continuamente le opzioni comportamentali ottimali. A tal fine vengono applicate strategie di elaborazione registrate nell’architettura cerebrale tramite indicazioni genetiche e/o impresse tramite l’esperienza. Per giungere alla decisione, queste strategie sfruttano un numero sconfinato di variabili: segnali dell’ambiente e del corpo attualmente disponibili come pure tutte le conoscenze memorizzate, tra cui rientrano anche le valutazioni emotive e motivazionali. In decine di regioni cerebrali, separate nello spazio, ma strettamente interconnesse, vengono confrontati tra loro i modelli di eccitazione, ne viene verificata la compatibilità e, in caso di conflitto, vengono sottoposti a un processo competitivo che restituisce un vincitore. Si impone il modello di eccitazione che corrisponde maggiormente ai vari attrattori. Questo processo di competizione distributivo si svolge in assenza di un arbitro superiore. Si organizza autonomamente e perdura fino all’instaurarsi di una condizione stabile, che assume quindi per l’osservatore la parvenza di intenzione comportamentale o azione. Quale sarà il prossimo modello di eccitazione, tra tutti quelli possibili, ad avere il sopravvento, viene determinato dall’interazione specifica e dallo stato cerebrale dinamico generale immediatamente precedente. Se le condizioni consentono il passaggio a più condizioni successive ugualmente probabili, possono entrare in azione anche delle oscillazioni casuali nella trasmissione dei segnali che contribuiscono a far prevalere una condizione piuttosto che un’altra.

Questo scenario ci appare plausibile per le decisioni che prendiamo involontariamente, ossia per le tante decisioni inconsapevoli che ci accompagnano durante la giornata. Invece, per le decisioni basate sull’analisi consapevole delle variabili e che percepiamo come volontarie, il nostro intuito richiede altro. Tendiamo ad adottare un’istanza indipendente dai processi neuronali e antecedente a essi: un’istanza in grado di rendersi consapevole dei segnali sensoriali e dei contenuti memorizzati, di trarne conclusioni, di identificare un’opzione come volontaria e quindi di metterla in pratica. Questo punto di vista si articola su due fronti.

Il primo è quello dualistico che, per l’istanza dell’io che postula un direttore d’orchestra immateriale, utilizza il substrato neuronale solo per informarsi sul mondo e trasformare le proprie decisioni in azioni. Questa posizione deve fare i conti con il problema della causalità e risulta inconciliabile con alcune note leggi della natura. Assume lo stato delle convinzioni inconfutabili. Il secondo fronte parte dal presupposto che anche le cosiddette “decisioni libere” vengano prese dal cervello, ma che i processi sottesi possano derivare da motivazioni non meglio identificate sul determinismo neuronale.

 

6. Principi sempre uguali.

Da un punto di vista neurologico, anche questa lettura non soddisfa. Se si riconosce che la gestione consapevole di argomenti sia basata sui processi neuronali, allora deve essere soggetta al determinismo neuronale al pari delle decisioni inconsce per le quali è riconosciuto. Ciò consegue alla plausibile cognizione che i processi neuronali si svolgano nella corteccia cerebrale secondo principi sempre uguali, e che sia le decisioni consapevoli, sia quelle inconsapevoli si fondino su processi così strutturati. Tuttavia, in tal caso, per quale motivo allora assegniamo alle decisioni consapevoli uno stato diverso da quello involontario, perché riteniamo che le prime siano soggette alle nostre intenzioni e valutazioni, e siamo disposti ad assumerci per esse una responsabilità specifica? Cosa differenzia i processi neuronali consapevoli e quelli involontari?

 

7. Processi consapevoli e inconsapevoli.

I processi neuronali si dividono come segue: quelli che non hanno sostanzialmente accesso al livello consapevole, quelli che possono discrezionalmente raggiungere il livello consapevole e quelli fondamentalmente consapevoli.

Tra i processi esclusi dalla consapevolezza si annoverano molte delle cosiddette funzioni autonome, che provvedono al regolare funzionamento di tutti gli organi, tra cui il cervello stesso.

Solo pochi dei processi potenzialmente esclusi dalla consapevolezza possono simultaneamente raggiungere il livello consapevole ed essere trattenuti nella memoria a breve termine. In generale si rendono consapevoli solo i segnali sensoriali oggetto di attenzione, e raggiungono il livello consapevole solo i contenuti della memoria oggetto di attenzione durante il processo di memorizzazione e appresi consapevolmente. L’attribuzione di attenzione è a propria volta soggetta a competizione organizzata in modo distributivo, che si struttura in una rete ampiamente ramificata e non viene gestita da un direttore d’orchestra a livello centrale. Uno stimolo forte o inaspettato focalizza automaticamente l’attenzione su di sé, ma anche il cervello assegna delle priorità, spesso inconsapevolmente. Cerca di ricordare un nome, non lo trova, l’attenzione passa al problema successivo e all’improvviso affiora nella coscienza il nome che cercava. Un esempio tra i tanti per spiegare che, dopo l’insorgenza di un bisogno, il nostro cervello è in grado di frugare nella memoria, di verificare la corrispondenza tra quanto ricercato e quanto trovato e di portare il risultato al livello consapevole, apparentemente senza il nostro contributo “consapevole”.

E poi esistono i processi obbligatoriamente consapevoli, a cui appartengono tutti i processi espressi verbalmente. Pertanto, i processi consapevoli si differenziano da quelli inconsapevoli principalmente perché possono essere oggetto di attenzione, possono essere fissati nella memoria a breve termine, possono essere archiviati nella memoria dichiarativa e possono essere espressi verbalmente.

 

8. Apprendimento tardivo.

Parimenti, i contenuti sottesi alle decisioni consapevoli si differenziano talvolta da quelli che entrano in azione per le decisioni involontarie. Per definizione, le decisioni consapevoli si basano sui contenuti delle percezioni consapevoli e sui ricordi archiviati come conoscenza esplicita nella memoria dichiarativa. Le variabili delle decisioni consapevoli riguardano quindi principalmente apprendimenti tardivi: conoscenze culturali enunciate esplicitamente, collocazioni etiche, leggi, regole discorsive e norme comportamentali concordate. Strategie di analisi, valutazioni e contenuti di conoscenza impliciti pervenuti nel cervello tramite indicazioni genetiche, imprinting infantile precoce o processi di apprendimento inconsapevoli, che quindi si sottraggono alla presa di coscienza, non sono pertanto disponibili come variabili per le decisioni consapevoli. Tuttavia, essi intervengono sui comportamenti e influenzano i processi decisionali consapevoli. Guidano il processo selettivo che definisce quali tra le variabili consapevoli debbano di volta in volta approdare al livello consapevole, stabiliscono le regole secondo le quali vengono gestite tali variabili e partecipano in modo determinante alla loro valutazione emotiva.

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9. Decisioni libere e non libere.

Potrebbe essere quindi questa la risposta alla seguente domanda: perché definiamo alcune decisioni condizionate e altre libere, sebbene entrambe siano basate su processi neuronali ugualmente deterministici?

Evidentemente dipende dalla natura delle variabili e da come vengono gestite. Definiamo libere le decisioni che si basano sull’analisi consapevole delle variabili, cioè sulla gestione razionale dei contenuti consapevoli. Le decisioni prese in questo modo sono imputate interamente a noi stessi. Viene semmai verificato se l’individuo, al momento dell’analisi, fosse in grado di rendersi conto delle variabili in questione e di gestirle con consapevolezza lucida. Questa posizione attribuisce alla consapevolezza una funzione di ultima istanza, oppure mette sullo stesso piano l’individuo responsabile e la sua consapevolezza.

Si definisce “libera” quella parte del processo decisionale di cui l’individuo è consapevole. Si tratta di un’interpretazione condivisibile, in quanto la percezione di sé e degli altri suggerisce proprio questo. Tutto ciò che riusciamo a percepire dagli altri come ragione comportamentale è ciò di cui divengono consapevoli e che può essere comunicato. Non è diverso per il soggetto che agisce. Anch’esso percepisce esclusivamente le motivazioni consapevoli e poiché si tratta delle sue, se ne sente responsabile. Il soggetto si percepisce a ragione come artefice della decisione presa. Chi altro potrebbe esserlo?

Le motivazioni consapevoli non devono tuttavia in nessun caso essere state decisive, anche se l’occhio interiore, che vede solo ciò che è consapevole, ritiene che le argomentazioni consapevoli siano motivazioni sufficienti e complete. Raramente sorgono dei dubbi, poiché di norma nella competizione dei processi decisionali vince la condizione caratterizzata dalla massima corrispondenza di tutte le variabili, inconsapevoli e consapevoli. Può tuttavia accadere che le soluzioni derivanti dalla gestione consapevole delle argomentazioni e di per sé coerenti entrino in conflitto con i processi di analisi inconsapevoli e ne escano battute. E allora si dice: «l’ho fatto anche se non volevo veramente farlo, oppure, anche se avevo una brutta sensazione».

L’io consapevole ammette di essere soggetto a forze diverse. Talvolta addirittura inventa delle argomentazioni, al fine di poter successivamente giustificare le proprie decisioni, le cui motivazioni non gli risultavano accessibili.

L’io consapevole ammette di essere soggetto a forze diverse. Talvolta addirittura inventa delle argomentazioni, al fine di poter successivamente giustificare le proprie decisioni, le cui motivazioni non gli risultavano accessibili.

10. Una risposta plausibile.

È possibile fornire a un individuo istruzioni comportamentali senza che ne sia consapevole. Se l’individuo esegue l’azione e deve successivamente motivarla, nella maggior parte dei casi fornisce una risposta plausibile, razionalmente ben motivata con un formato intenzionale: «l’ho fatto perché ho voluto così». In questi casi, le ragioni addotte sono per propria natura inappropriate e sono state ideate solo dopo avere agito. L’individuo che agisce è comunque convinto della giustezza e della natura causale delle ragioni addotte, e considera l’azione come voluta. Sembra che il cervello sia predisposto a creare coerenza tra le argomentazioni presenti a livello consapevole e le azioni e decisioni del momento. Se non vi riesce perché a livello consapevole non compaiono le argomentazioni adatte, per amor di coerenza le inventa ad hoc. E nessuno sa dire quanto grande sia questa parte fittizia nelle decisioni quotidiane “auto-responsabili”.

Sussistono pertanto ragioni comprensibili per cui distinguiamo tra processi di analisi inconsapevoli e consapevoli, e percepiamo questi ultimi come soggetti al nostro libero arbitrio, anche se in entrambi i casi il processo decisionale si basa su processi neuronali deterministici. Se tuttavia tutte le decisioni sono basate su processi neuronali ugualmente condizionati, perché l’evoluzione ha sviluppato un cervello con due livelli decisionali?

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Un’ovvia supposizione è che la gestione consapevole delle variabili offra maggiori vantaggi rispetto ai processi decisionali inconsapevoli. Un beneficio palese potrebbe essere rappresentato dalla comunicabilità delle motivazioni. Anche se le ragioni esprimibili sono solo frammentarie, la loro comunicabilità consente una valutazione molto più differenziata delle inclinazioni comportamentali rispetto a quanto sarebbe possibile solo con l’osservazione del comportamento. Presumibilmente, la comunicabilità ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo e alla stabilizzazione dei sistemi sociali, in quanto fornisce l’opportunità di valutare le dichiarazioni sulle decisioni prese, di interpretare le decisioni come atti intenzionali, di assegnare la responsabilità delle decisioni e di prevedere le conseguenze delle decisioni indesiderate. Non sorprende quindi che vengano definite decisioni libere soltanto quelle consapevoli che possono essere giustificate con motivazioni comunicabili. Un ulteriore vantaggio delle decisioni consapevoli è che le variabili possono essere gestite in base a regole discorsive razionali. Il processo di analisi può essere strutturato in modo più differenziato perché può poggiare su regole apprese di logica argomentativa.

Tuttavia, questo procedimento relativamente recente dal punto di vista evolutivo presenta anche degli svantaggi. Le decisioni razionali assunte consapevolmente presentano limiti su due fronti: da un lato per l’esiguo numero di variabili che possono essere mantenute contemporaneamente a livello consapevole, e dall’altro per il precedente processo selettivo che determina quali variabili debbano raggiungere il livello consapevole. Risulta pertanto estremamente probabile che nei processi decisionali inconsapevoli vengano messe a confronto tra loro molte più variabili rispetto ai processi consapevoli. Si suppone comunque che le analisi inconsapevoli seguano regole più semplici e competitive rispetto alle decisioni consapevoli strutturate in base a un sistema di regole apprese. Entrambe le strategie, quella consapevole e quella inconsapevole, presentano quindi vantaggi e svantaggi, e non pare scontato che quelle consapevoli siano sempre le migliori.

L’“occhio clinico” del medico esperto risulta talvolta più preciso dell’analisi razionale di elementi necessariamente incompleti.

 

11. Un punto di vista più umano?

Visti i processi neuronali sottesi, la distinzione di uso corrente nella prassi del vivere quotidiano, tra decisioni completamente non libere, parzialmente libere e completamente libere, appare contestabile. Sono diverse solamente l’origine delle variabili e il modo in cui vengono gestite: fattori genetici, imprinting precoce, processi sociali di apprendimento e fattori scatenanti del momento, tra cui rientrano anche comandi, desideri e argomentazioni altrui, concorrono in modo inscindibile alla determinazione del risultato, indipendentemente se le decisioni siano dovute a motivazioni inconsapevoli o consapevoli. Determinano congiuntamente lo stato dinamico delle reti nervose “decisionali”.

Questa visione si ripercuote sulla valutazione dei comportamenti erronei. Un esempio: un individuo compie un’azione, palesemente in tutta consapevolezza e ne viene dichiarato interamente responsabile. Casualmente viene poi individuato un tumore nelle strutture del cervello anteriore che servono a richiamare le regole sociali apprese e a rendere disponibili i processi decisionali. La persona verrebbe quindi trattata con indulgenza. Lo stesso “difetto” può tuttavia avere anche cause neuronali non visibili. La predisposizione genetica può avere generato interconnessioni che rendono difficoltoso memorizzare o richiamare le regole sociali, oppure le regole sociali non sono state impresse puntualmente o sufficientemente in profondità, oppure sono state apprese regole che si discostano dalla norma, oppure la capacità di analisi razionale non si è caratterizzata in modo sufficiente a causa di un imprinting errato. L’elenco potrebbe allungarsi praticamente all’infinito. Nessuno può essere diverso da quello che è.

Questa cognizione potrebbe portare a una valutazione più umana e meno discriminante dei nostri simili che hanno avuto la sfortuna di essere divenuti adulti con un organo la cui architettura funzionale non consente loro di tenere comportamenti adeguati. Giudicare negativamente o reputare cattive le persone con disposizioni comportamentali problematiche significa né più né meno giudicare il risultato di uno sviluppo ineluttabile di un organo che determina il nostro essere.

Se il comportamento erroneo supera il limite di tolleranza, vengono minacciate sanzioni. Interessante notare come queste misure diventino tanto più drastiche quanto più riteniamo che il reo fosse consapevole delle variabili su cui si è basata la decisione. A quanto pare, vengono punite in modo particolarmente severo le infrazioni commesse ai danni di quanto esplicitamente noto, quindi contro ordini di valori ancorati nella memoria dichiarativa tramite i processi educativi. Ciò viene motivato attribuendo alle decisioni consapevoli un certo grado di libertà e ne deduciamo imputabilità, responsabilità e necessità di ripercussioni.

Nessuno può essere diverso da quello che è. Questa cognizione potrebbe portare a una valutazione più umana e meno discriminante dei nostri simili

12. Difesa tramite privazione della libertà

Poco cambierebbe in questa prassi una visione maggiormente differenziata dei processi decisionali imposti dalle cognizioni neurobiologiche. La società non deve desistere dalla valutazione dei comportamenti. Naturalmente, deve perseverare nel tentativo di influenzare i processi decisionali attraverso educazione, ricompensa e sanzioni in modo che le decisioni indesiderate diventino meno probabili; deve garantire al reo l’opportunità di prendere decisioni più adeguate tramite l’apprendimento e, se ogni tentativo si dimostra vano, deve difendersi con la privazione della libertà. Solo la linea argomentativa risulterebbe diversa. Terrebbe conto delle cognizioni neurofisiologiche, sostituirebbe l’assegnazione conflittuale di responsabilità e “libertà” graduata con i processi consapevoli e inconsapevoli, aprendo così la strada al giudizio e alla valutazione di comportamenti “normali” e “anomali” senza pregiudizi. Verrebbe così superata la dicotomia difficilmente documentabile di un individuo in componenti liberi e non liberi.

Verrebbe sempre chiesto conto all’individuo nel suo complesso di ciò che sente, pensa e compie, e questa valutazione comprenderebbe in egual modo i fattori inconsapevoli e consapevoli. Questo approccio terrebbe conto della semplice nozione secondo cui un individuo compie le azioni che compie perché nel momento in questione non avrebbe potuto agire diversamente, dato che altrimenti avrebbe fatto altro.

Poiché nel caso specifico non è possibile avere una visione completa degli elementi che possono determinare una decisione, la giurisprudenza si orienterà sempre secondo sistemi di regole pragmatici. Potrebbe tuttavia rivelarsi utile verificare la coerenza della prassi vigente alla luce delle conoscenze provenienti dalla ricerca sul cervello.

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[1] The summary, as well as the images and passages in bold in the body of the text, have been added by the Editorial Staff.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

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