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28.10.2020
Giacomo Rizzolatti

Neuroscience and law

Complicated crossings and new perspectives

Issue 10/2020

Translation of the preface of the volume by A. D’Aloia, M.C. Errigo (Eds.), Neuroscience and Law. Complicated Crossings and New Perspectives, Springer Nature, 2020, pp. viii-xi.

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Prefazione. Le neuroscienze, oggi.

Il campo della neuroscienza è quasi sconfinato. Alcuni scienziati hanno identificato, l’esistenza di circa venti sottocategorie all’interno di questa disciplina. Tuttavia, i temi che saranno sviluppati in questa sede saranno limitate all’ambito delle cosiddette neuroscienze cognitive. In effetti, si tratta di un settore che ha suscitato interesse anche nel mondo giuridico, in particolare con riguardo ai concetti di libero arbitrio e responsabilità. Questi problemi rappresentano questioni tradizionalmente proprie al campo della filosofia e per i quali ancora oggi non è stata trovata una risposta. Alcuni filosofi interessati alle problematiche connesse ai processi decisionali dell’essere umano hanno preferito affrontare tali questioni secondo un approccio pragmatico. Nello specifico, secondo Ayer, una decisione libera significa «una decisione che nasce da dentro di me» mentre una decisione non libera è «una decisione che mi viene imposta»: le azioni sono forzate quando una persona, attraverso l’uso della forza o dell’inganno, o addirittura dell’ipnosi, obbliga un’altra persona a tenere un certo comportamento.

È anche importante sottolineare, anche se solo brevemente, che la nostra facoltà di decidere è limitata da fattori legati all’organizzazione funzionale del sistema nervoso. Uno di questi è il “condizionamento classico o pavloviano”. Il condizionamento classico si verifica quando uno stimolo intrinsecamente neutro è associato a un altro stimolo, che produce uno specifico effetto. Dopo alcune associazioni, lo stimolo neutro assume le caratteristiche dello stimolo incondizionato. Il condizionamento pavloviano è qualcosa che si verifica nella vita di tutti i giorni. Per esempio, se vediamo la pubblicità di un prodotto associato all’immagine di una bella ragazza, dopo un po’ di tempo anche il prodotto ci apparirà bello. Circa trent’anni fa, il condizionamento e la paura a esso connessa erano un tema ampiamente dibattuto, mentre oggi la questione appare in una certa misura dimenticata. In realtà, il condizionamento pavloviano è presente nella nostra società e ha la capacità di influenzare notevolmente il nostro comportamento e la nostra facoltà di scelta.

La nostra facoltà di decidere è limitata da fattori legati all’organizzazione funzionale del sistema nervoso. Uno di questi è il “condizionamento classico o pavloviano”

Un altro fattore che influenza il nostro comportamento è l’imitazione. La cultura è imitazione. Noi sono diventati “homo sapiens” perché abbiamo imparato a imitare; altri primati non hanno questa capacità, o la possiedono in misura molto ridotta. Il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran ha formulato la seguente ipotesi: l’essere umano si è differenziato dagli altri primati quando ha iniziato a imitare. Allo stesso modo, oggi, la nostra società sta cambiando, in quanto assistiamo a continui progressi basati sull’imitazione e a successive modifiche rispetto al modello originario. Questo rappresenta il lato positivo dell’imitazione. Tuttavia, è stato messo in luce anche un lato negativo, in particolare da parte del genetista Robert Dawkins, che ha parlato di “meme”. Il meme rappresenta un’unità di cultura umana auto-replicante, simile a ciò che il gene è per la genetica. In altre parole, ci sono alcuni aspetti del nostro modo di vivere ordinario che si propagano come se fossero dei virus. Alcune espressioni del linguaggio quotidiano possono essere considerati “memi”, come «portare avanti un discorso», «assolutamente sì» e «fare un passo indietro». Si tratta di espressioni estremamente pervasive; da notare che, il concetto di “meme” include anche idee più complesse, che si diffondono allo stesso modo. Pensate, ad esempio, ad alcune forme di linguaggio “politicamente corretto”.

La cultura è imitazione. Noi sono diventati “homo sapiens” perché abbiamo imparato a imitare […]; l’essere umano si è differenziato dagli altri primati quando ha iniziato a imitare. Allo stesso modo, oggi, la nostra società sta cambiando, in quanto assistiamo a continui progressi basati sull’imitazione e a successive modifiche rispetto al modello originario

Viviamo, quindi, in una società che limita la nostra libertà in virtù di una serie di fattori psicologici che sono solo indirettamente neurologici. Tuttavia, questo non significa che non vi siano anche alterazioni dirette del sistema nervoso che limitano la nostra libertà di decisione.

La storia dei rapporti tra diritto e sistema nervoso inizia con uno studio molto famoso, condotto nel diciannovesimo secolo: il caso di Phineas Gage. Gage lavorava nelle ferrovie, negli Stati Uniti, ed era sempre stato considerato una “brava persona”. Un giorno, a causa di un incidente sul lavoro, una barra di metallo gli trafisse il cranio. Miracolosamente Phineas Gage sopravvisse, ma da quel giorno il suo comportamento cambiò completamente, con manifestazioni di una natura aggressiva che pare non gli fosse mai appartenuta in precedenza. Di recente, grazie all’ausilio delle tecniche di neuroimaging, Damasio ricostruì la lesione di Gage e scoprì che l’area danneggiata era una parte della parte rostrale del lobo frontale. Si tratta di una delle zone del cervello di più recente evoluzione nell’uomo e i danni che interessano quest’area producono conseguenze drammatiche. Phineas Gage, infatti, pur essendo sopravvissuto, iniziò a comportarsi in modo differente e più aggressivo verso gli altri rispetto a prima dell’incidente.

La storia dei rapporti tra diritto e sistema nervoso inizia con uno studio molto famoso, condotto nel diciannovesimo secolo: il caso di Phineas Gage […]. Un giorno, a causa di un incidente sul lavoro, una barra di metallo gli trafisse il cranio. Miracolosamente Phineas Gage sopravvisse, ma da quel giorno il suo comportamento cambiò completamente, con manifestazioni di una natura aggressiva che pare non gli fosse mai appartenuta in precedenza

Nel campo della ricerca riguardante i rapporti tra lesioni cerebrali e comportamento antisociale, un autore che ha offerto un grande contributo è stato Adrian Raine. È stato il primo a utilizzare le tecniche di neuroimaging in questo settore, in particolare prima la PET, e poi la fMRI, una tecnica più precisa in termini di localizzazione. Raine studiò il cervello di cinquanta soggetti detenuti in carcere per omicidio e quello di altri cinquanta individui che non avevano commesso alcun reato. I risultati della sua ricerca hanno mostrato la quasi costante presenza di lesioni nel cervello dei criminali, specialmente nel lobo frontale. Un dato emblematico, se letto alla luce di altri studi che hanno dimostrato come il lobo frontale agisca da “freno” a comportamenti istintivi. Gli esseri umani, infatti, sono in grado di fermarsi, di bloccare le proprie risposte istintive, proprio grazie al funzionamento del lobo frontale.

Un altro esempio delle connessioni tra alterazioni neurologiche e comportamenti criminali, descritto da Raine, riguarda un uomo di mezza età, senza alcun precedente penale di rilievo. Un giorno, mentre si trovava alla guida della propria auto, l’uomo si imbatté in un gruppo di ciclisti; chiese strada, ma, non avendola ottenuta, accelerò la corsa e li investì uccidendo alcuni di loro. Durante il processo che ne seguì, egli non mostrò alcun segno di pentimento, sostenendo anzi di essere nel giusto: «la strada era mia e ho esercitato il mio diritto». Gli esami radiologici mostrarono l’esistenza di lesioni del lobo frontale.

Tutto ciò, ovviamente, pone un problema per il diritto: che cosa dobbiamo fare di questo individuo? Merita di essere condannato all’ergastolo o dovremmo invece “riabilitarlo” e, in questo caso, in che modo? Naturalmente, occorre mettere un limite alla sua libertà, dal momento che si tratta di una persona pericolosa; tuttavia, è un dato di fatto che egli, per circa quarant’anni, non abbia mai tenuto comportamenti veramente pericolosi, anche egli era descritto come personaggio sgradevole e rissoso

Tutto ciò, ovviamente, pone un problema per il diritto: che cosa dobbiamo fare di questo individuo? Merita di essere condannato all’ergastolo o dovremmo invece “riabilitarlo” e, in questo caso, in che modo?

Allo stesso modo, significativo è anche il caso di un quarantenne che fu condannato dopo aver aggredito una ragazza. Gli esperti si resero conto che qualcosa, nel suo cervello, non funzionava correttamente, e fu sottoposto a un lungo percorso di riabilitazione. Dopo aver portato a termine con apparente successo la riabilitazione, l’uomo fu rilasciato, ma a distanza di poco tempo aggredì nuovamente un bambino. Furono svolte indagini più approfondite e si scoprì che l’uomo era affetto da un tumore che interessava un’area del cervello cruciale per quanto riguarda l’inibizione degli impulsi aggressivi. Il tumore fu rimosso. Dieci anni dopo, l’uomo cominciò nuovamente a tenere i medesimi comportamenti criminali. Si scoprì che il tumore era ricresciuto.

Interessante è il caso degli adolescenti. È stato recentemente accertato che il lobo frontale continua a svilupparsi durante tutta l’adolescenza; dunque un ragazzo di quattrodici/diciassette anni ha di gran lunga meno freni inibitori rispetto a una persona di quarant’anni anni.

Gli studi di Adrian Raine hanno anche dimostrato che alcuni soggetti responsabili di omicidio possono presentare lesioni in altre aree del cervello (diverse dal lobo frontale), come ad esempio l’amigdala. In questi casi, l’autore di reato è poco sensibile alla paura. L’attivazione dell’amigdala, infatti, è responsabile del senso di paura e se questo “centro” non funziona come dovrebbe, il soggetto prova meno timore e non è in grado di riconoscere la paura negli altri individui.

Il problema ha assunto dimensioni maggiori negli ultimi anni, includendo molteplici casi che riguardavano i veterani tornati dal Vietnam. Alcuni di questi si sono adattati alla vita civile, altri invece hanno mantenuto una tendenza a comportamenti violenti. Riguardo a questi ultimi, la ragione è dovuta alla presenza di traumi che hanno determinato deficit neuropsichiatrici evidenti. Alla luce di questi problemi, è pertanto necessario individuare: 1. Metodi di riabilitazione scientificamente fondati; 2. Metodi efficaci per il controllo del comportamento.

Interessante è il caso degli adolescenti. È stato recentemente accertato che il lobo frontale continua a svilupparsi durante tutta l’adolescenza; dunque un ragazzo di quattrodici/diciassette anni ha di gran lunga meno freni inibitori rispetto a una persona di quarant’anni anni

Un fenomeno da tenere a mente è quello della presenza di empatia. Noi siamo in grado di capire gli altri in due modi diversi: (a) fenomenologicamente: l’azione dell’altro è “vissuta” dalla persona che la osserva. Ad esempio, se un individuo entra in un bar e vede un’altra persona prendere un bicchiere di birra, comprende immediatamente questo gesto, in virtù dell’attivazione di alcuni neuroni che codificano quell’azione ​(i neuroni specchio). È come se fosse lui (o lei) a compiere personalmente l’azione osservata, e (b) logicamente; il che significa che siamo capaci di comprendere l’azione di un altro soggetto mediante un ragionamento inferenziale.

Alla luce di questi problemi, è pertanto necessario individuare: 1. Metodi di riabilitazione scientificamente fondati; 2. Metodi efficaci per il controllo del comportamento

Un classico esperimento, realizzato tramite la risonanza magnetica funzionale, spiega bene questa dicotomia. Durante l’esperimento, ai soggetti sottoposti a scansione furono inizialmente mostrati alcuni filmati in cui un uomo, un cane o una scimmia eseguivano la stessa azione: mordere. Un’azione che, si noti, viene compiuta in natura da tutte e tre le specie. Nella seconda parte del medesimo esperimento, i gesti mostrati nei filmati erano diversi: l’uomo leggeva un giornale (la voce, tuttavia, non si sentiva), la scimmia “schioccava le labbra” (un gesto che ha un significato sociale di «non sono un tuo nemico») e il cane abbaiava. I risultati furono chiarissimi: nel primo caso, indipendentemente da chi avesse compiuto l’azione, si osservò nei partecipanti un’attivazione del sistema dei neuroni specchio, compresi i neuroni premotori, che normalmente entrano in gioco quando siamo noi stessi a compiere l’azione. In altri termini, i soggetti dell’esperimento avevano compreso, in modo fenomenologico, diretto, le azioni della scimmia e del cane. Al contrario, le attivazioni corticali risultarono completamente diverse quando i partecipanti osservavano gesti che non appartenevano al repertorio motorio delle tre specie. Se una persona vede qualcun altro leggere, si attiva l’area di Broca, una zona del cervello collegata alla linguaggio; invece, in colui che osserva un cane che abbaia, si attivano solamente le aree visive. Gli esseri umani non sanno “fenomenologicamente” cosa significa “abbaiare”; è qualcosa che abbiamo imparato, ma che rimane estranei a noi e non fa parte del nostro comportamento.

Esistono dunque due modi di comprendere gli altri. Inizialmente questa scoperta ha riguardato solamente azioni prive di contenuto emotivo, le cosiddette cold actions, “azioni fredde”, (ad esempio afferrare un oggetto). Ricerche successive hanno dimostrato che tutto ciò valeva anche per le hot actions, le “azioni calde”, cioè gesti che presentano un contenuto emotivo.

In particolare, si scoprì che nella parte più anteriore dell’insula vengono codificati alcuni movimenti ingestivi. Infatti, tramite l’utilizzo di microelettrodi rimovibili, è stato possibile osservare che, stimolando questa porzione dell’insula nel cervello di una scimmia, questa compiva atti di masticazione e deglutizione. Se però la stimolazione veniva eseguita, sempre nell’insula anteriore, ma pochi centimetri più in basso, la scimmia tendeva a rifiutare qualunque cibo le venisse offerto. Questa parte dell’insula è deputata al controllo del disgusto. È sufficiente stimolarla per provocare un senso di disgusto che induce la scimmia a rifiutare persino gli alimenti di cui è più ghiotta. Lo stesso esperimento è stato condotto su un gruppo di pazienti chirurgici e ha permesso di confermare che l’insula anteriore rappresenta l’area in cui è rappresentato il disgusto.

Il risultato della stimolazione dell’insula ci ha permesso di interpretare meglio gli esiti di uno studio precedente, condotto mediante risonanza magnetica funzionale, in cui i partecipanti, sottoposti a scansione cerebrale, erano inizialmente esposti ad alcuni odori sgradevoli; in un secondo momento, furono loro mostrati diversi filmati connessi alle emozioni del disgusto e del piacere, insieme ad altri a contenuto emotivamente neutro.

L’analisi dei dati mostrò che l’insula ventro-rostrale, la cui stimolazione provoca una sensazione di disgusto, era attivata sia quando il soggetto era disgustato a causa di un odore sgradevole sia quando osservava l’espressione di disgusto sul volto di un attore. In altre parole, quando vediamo il disgusto nell’espressione di un altro, lo sentiamo dentro di noi. Lo stesso fenomeno è stato osservato anche in relazione al dolore, sebbene con riferimento ad aree cerebrali differenti.

Questo meccanismo di rispecchiamento, che si colloca in diverse aree cerebrali, è molto importante perché rappresenta il meccanismo attraverso il quale io, come essere umano, sento quando un altro essere umano soffre. Sapere che alcune persone hanno sofferto, perché lo troviamo scritto all’interno di un giornale, è ben diverso dallo scoprire la sofferenza quando, lasciata la nostra casa, vediamo una persona con la faccia insanguinata per un incidente stradale. In questo ultimo caso, l’emozione mi coinvolge personalmente, mentre nel primo, la situazione viene “gestita” come un’informazione cognitiva.

Questo meccanismo di rispecchiamento […] è molto importante perché rappresenta il meccanismo attraverso il quale io, come essere umano, sento quando un altro essere umano soffre. Sapere che alcune persone hanno sofferto, perché lo troviamo scritto all’interno di un giornale, è ben diverso dallo scoprire la sofferenza quando, lasciata la nostra casa, vediamo una persona con la faccia insanguinata per un incidente stradale

I sistemi biologici sono duttili, non fissi. Immaginiamo che un individuo, per ragioni culturali o ideologiche, presenti una compromissione del sistema mirror, che è alla base della sua capacità di comprensione fenomenologica. È persino possibile ipotizzare, in alcuni casi, che sia la cultura stessa a pregiudicare questo meccanismo biologico naturale. Cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a convincermi di determinate posizioni ideologiche alterando quei meccanismi? Pensiamo a ciò che è accaduto in Germania negli anni ‘30. In una delle nazioni più civili nel mondo, un genio della propaganda come Goebbels è stato in grado a far passare l’idea che un gruppo di individui fosse responsabile della sconfitta militare della Germania nella prima guerra mondale. Questi individui non appartenevano alla razza ariana e non erano neppure del tutto umani, erano degli “untermenschen”. Le tragiche conseguenze di questa narrazione, e in particolare il senso di irresponsabilità e di autoassoluzione di coloro che hanno perpetuato crimini contro coloro che non consideravano neppure esseri umani, sono state poste in evidenza da Hannah Arendt. Nel suo libro “La banalità del male”, ella presenta il caso di Adolph Eichmann. Quando gli fu chiesto di giustificare il proprio comportamento, nell’organizzazione del trasporto degli ebrei verso i campi di sterminio, rispose: «come ci sentiamo autorizzati ad abbattere gli alberi per produrre la legna e a uccidere gli animali per nutrirci, così ci sentiamo moralmente giustificati per aver ucciso dei primati sub-umani».

È persino possibile ipotizzare, in alcuni casi, che sia la cultura stessa a pregiudicare questo meccanismo biologico naturale. Cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a convincermi di determinate posizioni ideologiche alterando quei meccanismi? Pensiamo a ciò che è accaduto in Germania negli anni ‘30

Come è evidente, arrivati a questo punto, si pone un problema molto serio di empatia. Empatia, in infatti, non significa “essere buoni”, ma significa “entrare nel medesimo stato emotivo degli altri”. Un gruppo di ricercatori di Chicago ha studiato i criminali sadici, quelli che hanno commesso crimini con modalità crudeli e ne hanno esaminato le aree responsabili dell’empatia. Hanno scoperto che queste zone si attivavano quando i criminali assistevano a scene caratterizzate da crudeltà. Un dato che appare logico, dal momento che questi individui traggono piacere dal dolore altrui e, pertanto, devono essere in grado di capire che le altre persone soffrono. In conclusione, il sadico possiede una capacità empatica esattamente come una persona normale; ciò che cambia è il modo in cui queste informazioni vengono utilizzate.

Il proposito di rafforzare l’empatia attraverso fattori culturali e ambientali (nel senso di «ama il prossimo come te stesso») è dunque una necessità, che permette di eventi tragici e disastrosi come quelli che si sono già verificati nel secolo scorso.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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