SUMMARY: 1. Introduction. – 2. From the moral paradigm to the health paradigm. – 2.1. Cognitive and social rehabilitation. – 2.2. Emotional qualification. – 2.3. Think with restraint, act by encouraging.
Nello scorso secolo abbiamo assistito a una progressiva diversificazione delle dipendenze patologiche. Se, ad inizio del novecento, il quadro era rappresentato quasi esclusivamente dall’alcolismo (si ricordano gli anni ‘20, caratterizzati negli Stati Uniti dall’infruttuosa esperienza proibizionista), negli anni ‘60 e ‘70 si è diffuso, nel mondo occidentale, il fenomeno della tossicodipendenza. Il secolo si è chiuso con il riconoscimento formale della prima dipendenza da comportamento, quella dal gioco d’azzardo patologico e con la comprovata consapevolezza che la dipendenza dal fumo di tabacco è la prima causa di morte evitabile.
I servizi sanitari che si occupano di dipendenze si trovano così a prendere in carico diverse tipologie di pazienti. Il presente scritto si sofferma sulla possibile radice comune di questo disagio che, in un’ottica psicodinamica, vede l’immaturità emotiva come invariante in tutte le persone che soffrono di queste, pur diverse, forme di disagio.
I modelli psicodinamici sono caratterizzati da un approccio che prevede, tra i suoi assiomi, che il passato condizioni il presente. Nelle persone affette da una dipendenza, si nota come parte della loro affettività sia caratterizzata da aspetti propri della prima età infantile. Ad esempio, questi pazienti tollerano con difficoltà la frustrazione. Per loro è impensabile dilazionare o posticipare ciò che produce piacere, sia esso una sigaretta, una serie di giocate alla slot machine o una dose di eroina; in questo rimandano all’infante, incapace di tollerare l’assenza della madre quando i suoi bisogni vitali, di nutrimento e protezione, lo spingono a cercarne prepotentemente il seno.
Riuscire ad identificare i bisogni infantili di questi adulti può aiutare curanti e professionisti, che li affiancano in percorsi di sostegno, a contrastare i conflitti che spesso si sviluppano nei percorsi di cura e assistenza a loro dedicati.
Guardare e giudicare queste persone ci protegge dal prendere coscienza che tutti noi possiamo diventare come loro
Nella seconda metà degli anni ‘50, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fronte di numerose conferme scientifiche, definì le dipendenze patologiche come “malattie croniche recidivanti”[2]. Questa stringata definizione racchiude in sé l’intera complessità di una problematica che getta sulla società un’ombra che viene spesso rimossa (basti osservare come i servizi specialistici che si occupano di questi pazienti sono spesso collocati in luoghi oculatamente scelti per la loro scarsa visibilità) oppure, talvolta, rifiutata (il paziente affetto da dipendenza viene indicizzato moralmente come “debole” o “vizioso”).
Sono passati più di cinquant’anni da questo cambio di paradigma nella lettura delle dipendenze patologiche, eppure, lo sguardo morale su questo problema è, a tutt’oggi, dominante. Sono molti i motivi che inducono la società a giudicare con una quota di superficialità e pregiudizio il dipendente patologico: vorremmo qui sottolinearne due che, a nostro avviso, generano un combinato disposto importante, che ben rappresenta tanto la parte pragmatica quanto quella complessuale di questa problematica.
Da un lato, gli aspetti caratteriali dei pazienti, uniti alle distorsioni comportamentali provocate dalla malattia stessa, spesso esitano in agiti che violano le norme atte a garantire la convivenza sociale. La concretezza degli agiti dei dipendenti patologici, spesso perpetrati in modo scomposto e provocatorio, facilita inevitabilmente reazioni avverse e maschera drasticamente la loro vulnerabilità affettiva.
Dall’altro lato, guardare e giudicare queste persone come il Das Unheimliche di freudiana memoria, come «l’altro diverso da me»[3], ci protegge dal prendere coscienza che tutti noi possiamo diventare come loro, perché anche noi, come loro, siamo stati, nell’infanzia, dipendenti da qualcuno. Crescere da questa condizione di dipendenza fisiologica che garantisce un accudimento che filtra ansie e paure, quando non siamo ancora pronti per affrontare le asperità della vita adulta, è per l’individuo un’impresa ardua. Di fatto, rimanere entro alvei mentali in cui ci si affida a qualcuno oppure a qualcosa (nel caso dei nostri pazienti alla sostanza o al comportamento) può essere molto più semplice che trovare il coraggio per affrontare le continue sfide legate al permanere dell’indipendenza.
Sono quindi in parte i nostri stessi timori di regressione a scavare il profondo solco tra noi e le persone affette da dipendenza e questo viene ulteriormente rinforzato dall’incapacità dei dipendenti di stare, con compostezza, nelle regole definite dal mondo adulto. In altri termini, l’alterità sociale deriva da una originaria identità di vissuti emotivi di cui gli emancipati portano memoria e temono la regressione.
Pertanto, evitare, per quanto possibile, le ombre che gettano sul nostro pensiero i pregiudizi edificati dalle nostre concrete e recondite paure, può darci l’opportunità di osservare con maggiore lucidità i limiti emotivi delle persone affette da dipendenza, le loro forti fragilità: menti sature di un’affettività caratterizzata da angosce infantili imprigionate in un corpo e un cervello con capacità cognitive adulte. Persone che dovrebbero avere, ampiamente, raggiunto la maturità emotiva che permette ad una identità coesa e integrata di contenere le angosce derivanti dal costante confronto con la realtà e che invece si affidano a qualcosa che temperi le loro emozioni e ne sedi le angosce, ancora connotate da un perimetro interpretativo limitato, infantile.
Questo è uno dei motivi per cui il trattamento di questi pazienti risulta particolarmente complesso. Infatti, la cura dovrebbe raggiungere questo infante impaurito e sfiduciato, che si nasconde abilmente tra le pieghe di un adulto oppositivo e disfunzionale, per stargli vicino e aiutarlo a crescere, preternaturalmente, sino al raggiungimento della sua completa, e non solo formale, adultità.
2.1. La riabilitazione cognitiva e sociale.
La componente esortativo-educativa è sicuramente quella che prevale nelle risposte di cura a questa problematica. I sistemi che esortano il paziente ad adeguarsi a stili di vita meno autodistruttivi, nel caso di approcci a bassa soglia, o maggiormente consoni alla responsabilità adulta, nel caso di approcci ad alta soglia, sono quelli che vengono strenuamente proposti e attuati non solo dai servizi specialistici pubblici ma anche dalle numerose realtà del terzo settore che operano in questo ambito[4].
Queste buone pratiche, siano esse residenziali o ambulatoriali, utilizzino o meno strumenti farmacologici, psicologici, educativi e sociali, fanno leva sulla funzione paterna, cioè su quell’aspetto strutturale della nostra formazione individuale che poggia su indicazioni educative esplicite, verbali e dettate da una asimmetria tra emittente e ricevente. La norma paterna, sia essa emessa dal padre, dalla madre, da un familiare o da un operatore è quella riassumibile nella frase «io, in quanto portatore di una capacità adattiva maggiore della tua, ti indico un modo migliore di vivere»[5].
Va chiarito che questo approccio risulta essere, con le persone affette da una dipendenza, una risposta non solo spontanea, ma anche doverosa, visti i chiari comportamenti disadattivi dei pazienti che comportano spesso rischi, sia per il soggetto, sia per la società. Purtroppo, l’efficacia di questo approccio è parziale. Sono molti, infatti, i soggetti che rimangono dipendenti dalla sostanza, pur se agganciati e presi in carico dai servizi. Sono, per contro, poche le persone che riescono a raggiungere una stato astinenziale stabile, esito in una maturazione tout court dell’individuo.
Il limite è dato da un’evidenza fisiologica: il padre viene dopo la madre. Possiamo quindi avviare una riabilitazione, che utilizzi in modo pienamente efficace la funzione paterna, solamente dopo aver soddisfatto bisogni più antichi, legati alla funzione primaria, quella materna. Parliamo, in questo caso, di abilitazione e non di riabilitazione perché, per perscrutabili o imperscrutabili motivi il paziente non ha mai avuto, o non è stato capace di ricevere, qualcosa di così impalpabile eppur così tenace da costituire il plinto affettivo da cui spiccare il rischioso salto verso l’adultità.
2.2. L’abilitazione emotiva.
Il legame affettivo primario è quello che ci introduce e ci accompagna al primo, fondante, adattamento ontogenetico. È la madre, con la sua vicinanza corporea e mentale, che accompagna l’infante al superamento del trauma della nascita ed ai primi adattamenti all’ambiente quali il rispetto del ritmo circadiani e, in seguito, lo svezzamento. In questa fase la madre pensa per due fornendo al bambino il tempo necessario alla prima maturazione sinaptico-neuronale del suo cervello.
È questo un periodo in cui l’infante è legato in modo simbiotico alla madre; infatti, senza il seno materno che lo nutre, senza il calore materno che lo rassicura, senza il pensiero materno che lo protegge, sarebbe in completa balia di intense ed ineludibili angosce. È possibile che proprio in questa fase della crescita emotiva, nei soggetti che in seguito sviluppano una dipendenza patologica, la spinta vitale alla indipendenza si blocchi parzialmente e, benché il processo di sviluppo cognitivo prosegua, qualcosa di indefinibile rimanga ancorato a quel bisogno di dipendere da qualcos’altro che, idealmente, protegga e rassicuri.
Se lo sviluppo emotivo si interrompe così precocemente, la cura del dipendente dovrebbe prevedere anche l’esercizio della funzione materna. I registri di questa funzione sono preverbali, liberi dal giudizio, onnicomprensivi, accudenti, contenenti e senza alcuna censura emozionale. In altri termini, la madre si offre, in modo emotivamente autentico, per soddisfare i bisogni dell’infante.
È evidente che l’operatore non riuscirà mai a svolgere piena funzione materna. Con le parole di Khan, «il compito dell’analista non è di essere o diventare la madre. Solo con un atto di pensiero magico possiamo convincerci di poterlo fare. Ciò che in realtà possiamo offrire al paziente sono alcune funzioni materne come quelle di scudo protettivo e di Io ausiliario».[6]
In altri termini, l’operatore riesce a fornire quote rilevanti di funzione materna al paziente se è interessato a lui, lo aiuta a pensare ed è autentico nella relazione emotiva, non sottraendosi nel riconoscere, come parte della relazione clinica, anche le reazioni emotive avverse. Per contro, l’operatore non è di alcun aiuto al paziente quando risponde in modo simbiotico alle richieste adesive del paziente che, pur se in modo scomposto, cercano di ricomporre una dinamica a due ove lui parassita il pensiero dell’altro.
2.3. Pensare contenendo, agire esortando.
Proviamo a dare concretezza a quanto detto sinora.
L’approccio di cura a questi pazienti non può che essere esortativo: sono infatti persone adulte che nutrono una fragilità celata spesso anche a se stessi. Come detto, spingerli verso comportamenti non autodistruttivi e adattivi è una urgenza non solo clinica ma anche sociale. Tuttavia, la funzione paterna ha maggiori possibilità di embricare nel pensiero del paziente se, almeno in parte, viene assolto il vacuum di funzione materna. È necessario, pertanto, affiancare alle buone pratiche riabilitative alcune attenzioni relazionali che, ineluttabilmente, poggeranno sulla lucidità dell’operatore. Questa dovrà essere così solida da permettere lui di raggiungere il massimo punto di vicinanza relazionale con il dipendente senza che questo esondi in simbiosi. Come detto, il pericolo del vortice simbiotico è sempre vivo con la persona affetta da dipendenza patologica. Infatti, molto spesso queste persone, proprio a seguito dei loro bisogni primari insoddisfatti, riescono ad elicitare negli operatori reazioni emotive forti, che possono strutturarsi in legami duali, esclusivi. In questo caso il pericolo di manipolazione dell’operatore da parte dell’assistito è molto alto.
L’approccio di cura a questi pazienti non può che essere esortativo: sono infatti persone adulte che nutrono una fragilità celata spesso anche a se stessi. Spingerli verso comportamenti non autodistruttivi e adattivi è una urgenza non solo clinica ma anche sociale.
La prima contromisura per arginare lo sviluppo di questa simbiosi è l’azione clinica in equípe: questa permette infatti la diluizione del transfert emotivo del paziente che viene così accolto da più operatori.
La seconda misura è quella legata alla consapevolezza dei bisogni del paziente; se l’operatore ne è consapevole, non correrà il rischio di credersi sua madre perdendo così la necessaria lucidità per svolgere appieno il contenimento di cui questi pazienti hanno bisogno.
In conclusione, è bene che qualsiasi persona che sviluppi una relazione professionale con un paziente affetto da dipendenza, sia esso un operatore sanitario, sociale o legale (si pensi non solo alle figura dell’avvocato ma anche a quella dell’amministratore di sostegno), curi il mantenimento della giusta distanza relazionale con l’assistito. È prudente non essere ignari dei pericoli e osservarsi costantemente durante l’operatività con queste persone: difendersi con relazioni troppo fredde e distaccate potrebbe reiterare nell’assistito vissuti antichi, che possono sviluppare avversione e contrarietà in lui; concedersi a relazioni troppo accudenti può avvolgere l’operatore nel vortice simbiotico e manipolativo.
Mantenere l’attenzione sui propri vissuti, non solo rispetto la distanza relazionale, ma anche rispetto ai momenti di frustrazione che inevitabilmente assalgono chi cerca di aiutare persone affette da dipendenza, risulta fondamentale per evitare il burn-out. Infatti, anche la robustezza interiore, al pari di ogni altra cosa del nostro mondo, è cangiante. E può essere caduca. Se vogliamo aiutare altri in difficoltà è bene ricordarsi di dare costante attenzione critica al nostro equilibrio e alle nostre capacità di pensiero.
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[1] M.M.R. Khan, Lo spazio privato del sé, Boringhieri, 1974, pp. 51 ss.
[2] A.T. Mc Lellan, D.C. Lewis, C.P. O’Brien, H.D. Kleber, Drug dependance, a chronic medical illness: implications for treatment, insurance and outcomes evaluation, in JAMA, 284, 13, 2000, pp. 1689 ss.
[3] S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere, vol. 9, L’io e l’es (1917-1923), Boringhieri, 1989.
[4] Come spiega Nizzoli, «se si rappresentasse il complesso sistema dei Servizi tramite una piramide, il bassa soglia è la base mentre l’estremamente specialistico», ossia l’alta soglia, «il vertice; se […] si usasse come immagine una linea, il bassa soglia sarebbe sul punto vicino al consumatore attivo» (cfr. U. Nizzoli, Il Dipartimento per le Dipendenze Patologiche (DDP) ed il Dipartimento aziendale di Salute Mentale (DASM). L’esperienza dell’Azienda Sanitaria di Reggio Emilia, in A. Lucchini (a cura di), La diagnosi nei disturbi da uso di sostanze, FrancoAngeli, 2001, pp. 398 ss.). I trattamenti a bassa soglia sono caratterizzati dalla loro alta fruibilità, la loro contiguità con il sociale, la loro flessibilità. I trattamenti ad alta soglia sono definiti da regole e protocolli e preservano il setting.
[5] A. Vegliach, Funzioni materne e paterne in psicoterapia, in Riv. Psyche nuova, CISSPAT, 2012-2013, pp. 61 ss.
[6] M.M.R. Khan, Lo spazio privato del sé, cit., pp. 65 ss.