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10.03.2021
Carla Bagnoli - Mario De Caro - Pietro Pietrini - Susanna Arcieri - Raffaele Bianchetti

Again on free will, imputability and criminal responsibility – pt. 3

Criminal law and conditioning.
Conversation with Carla Bagnoli, Mario De Caro e Pietro Pietrini

Issue 3/2021

In the long conversation we had with Carla Bagnoli, Mario De Caro and Pietro Pietrini, we discussed again about free will, moral responsibility, imputability and culpability, in order to identify, with the help of the three Authors, the main contributions of modern philosophy and neuroscience on what, in our opinion, remain some of the major contradictions of the criminal justice system today.

What does it mean to say that “the human being is free”?

 

What conditionings does the individual undergo every time he acts and thinks, and to what extent is the existence of these conditionings reconcilable with the concepts of “conscience and will” that are at the basis of the attribution of criminal responsibility?

 

Does it make sense, from the point of view of moral philosophy and cognitive science, to resort to “punishment” as we understand it today?

In the last chapter of the conversation, Carla Bagnoli, Mario De Caro and Pietro Pietrini pull the strings of the reflections carried out up to this point, proposing their own answers to our final questions: what are the major challenges that criminal law should face in the near future , in the light of the latest scientific findings? How will the ascertained influence of external influences, capable of deeply affecting the freedom of human action, be taken into consideration in assessing guilt and imputability of the of offenders?

Watch the video of the third chapter of the interview with Carla Bagnoli, Mario De Caro and Pietro Pietrini, carried out on December 4, 2020

Click here to watch the video of the first chapter of the conversation

The video of second chapter is available here

“Determinazione” o “condizionamento”? Qual è la differenza tra i due concetti, con riguardo all’agire dell’uomo?

Più in generale, abbiamo osservato in varie occasioni, su questa rivista, come i concetti penalistici di “coscienza e volontà” pongano problemi enormi rispetto ad alcune categorie di persone, come ad esempio coloro che fanno uso di droghe o i giovani in età evolutiva.

Quali prospettive evolutive si scorgono all’orizzonte e quali sono le possibili ricadute sul diritto penale nel prossimo futuro?

 

Pietro Pietrini

Sul fronte del diritto penale, ritengo che uno dei profili di maggiore interesse sia quello relativo a quanto una conoscenza più approfondita dei fattori che condizionano, o in alcuni casi addirittura determinano, il comportamento umano, possa rilevare poi ai fini del giudizio di responsabilità per il fatto di reato e dell’applicazione della pena, che, come abbiamo detto[1], non può avere solo una funzione punitiva, ma deve avere anche una funzione riabilitativa.

Occorre in questo senso chiedersi quale sia la via migliore per comprendere la criminogenesi e la criminodinamica del reato (che cosa ha generato quel fatto, se questo sia, ed eventualmente in quale misura, ascrivibile a una scelta consapevole e libera dell’individuo) e individuare, quindi, la strategia migliore per risarcire la società, da ogni punto di vista.

A mio avviso, la risposta a questi interrogativi è necessariamente legata alla comprensione del concetto di “bad or mad”: quanto più l’individuo è mad, cioè psichicamente compromesso, tanto più il nostro approccio al crimine che egli ha commesso dovrà essere modificato.

Peraltro, il confine che separa il comportamento “patologico” (mad) dalla mera condotta “criminale” (bad) può essere estremamente sfumato. Pensiamo ad esempio a un cleptomane e a un pedofilo: che cosa differenzia le due condizioni? Dal punto di vista del disvalore sociale dei comportamenti, la differenza è abbastanza ovvia; dal punto di vista scientifico, però, lo è molto meno. La risposta forse più innovativa che ho ricevuto da uno studente, quando ho rivolto questa domanda in aula, è stata che il pedofilo ha un dovere morale maggiore, rispetto al cleptomane, di cercare aiuto. Proprio in virtù del maggior disvalore sociale delle sue azioni. Capite quindi che si tratta di valutazioni estremamente soggettive.

Il confine che separa il comportamento “patologico” (mad) dalla mera condotta “criminale” (bad) può essere estremamente sfumato. Pensiamo ad esempio a un cleptomane e a un pedofilo: che cosa differenzia le due condizioni?

Pietro Pietrini

C’è ancora molto da fare su questo punto; esistono molteplici situazioni differenti, che portano con sé diversi margini di libertà di azione per la persona, e tutte queste situazioni vanno studiate e comprese a fondo. Da un estremo c’è la condizione di colui che soffre, ad esempio, di tic nervosi, o di patologie come la sindrome di Tourette, a causa delle quali è in preda a comportamenti che sono sicuramente incontrollabili e del tutto automatici. È evidente che in tali casi non potremmo ritenere quella persona colpevole dei suoi comportamenti e punirla servirebbe solo ad aggravare la sua situazione.

All’estremo opposto c’è il comportamento che definiremmo “completamente libero”, quello cioè posto in essere da una persona che non presenta alcuna alterazione cerebrale o patologia psichica. Eppure, anche in questo caso, a fronte della commissione di un fatto che costituisce reato, occorre verificare quali siano le condizioni concrete dell’azione: ad esempio, una condotta violenta può trovare origine in una interpretazione distorta di un certo dato della realtà da parte dell’agente. Solo attraverso la comprensione di tutte le variabili in gioco sarà infatti possibile produrre giudizi ponderati in materia di imputabilità e colpevolezza penali.

Centocinquant’anni anni fa il paziente epilettico veniva considerato un indemoniato, e in alcuni paesi del mondo è ancora così. Oggi invece sappiamo che l’epilessia è legata al malfunzionamento di un gruppo specifico di neuroni. Ecco, questa è l’evoluzione che la scienza e le neuroscienze portano ai fini della comprensione dei comportamenti umani e delle cause a essi sottostanti.

A fronte della commissione di un fatto che costituisce reato, occorre verificare quali siano le condizioni concrete dell’azione […]. Solo attraverso la comprensione di tutte le variabili in gioco sarà infatti possibile produrre giudizi ponderati in materia di imputabilità e colpevolezza penali

Pietro Pietrini

Carla Bagnoli

Vorrei tornare su un paio di punti toccati dal Prof. Pietrini. Innanzitutto, non bisogna trascurare che bad e mad sono due concetti valutativi. I criteri atti a definire non solo la distinzione tra un criminale e un sociopatico (o una persona solo momentaneamente incapacitata a prendere decisioni consapevoli), ma anche gli ideali alla base del corretto funzionamento della mente, hanno carattere normativo. Si tratta di una precisazione che ha implicazioni importanti dal punto di vista filosofico: (p.e., quali intrecci vi sono tra fatti e valori?) ma credo debba essere fatta oggetto di riflessione anche da parte della scienza. Del resto, la scienza stessa impiega, più o meno consapevolmente, ideali normativi. Il carattere valutativo di certe definizioni è dunque un problema al quale occorre prestare attenzione, specialmente nell’ottica di un lavoro interdisciplinare. Un ambito in cui questo problema emerge in modo evidente è quello sperimentale. Se ci interroghiamo sull’epistemologia degli esperimenti tesi a dimostrare se e quanto siamo effettivamente capaci di esercitare un controllo sulle nostre azioni, dobbiamo necessariamente fare ricorso a concetti come “impulso”, “deliberazione”, “desiderio” oppure “istinto naturale”. Esiste una letteratura filosofica rilevante su tutti questi concetti che può aiutare a chiarire qual è l’impatto degli esperimenti sul carattere determinato dell’esperienza soggettiva.

Non bisogna trascurare che bad e mad sono due concetti valutativi. I criteri atti a definire non solo la distinzione tra un criminale e un sociopatico […], ma anche gli ideali alla base del corretto funzionamento della mente, hanno carattere normativo […]. Del resto, la scienza stessa impiega, più o meno consapevolmente, ideali normativi

Carla Bagnoli

A mio avviso, l’intera questione della relazione tra libero arbitrio e imputabilità dovrebbe essere riletta alla luce della consapevolezza del fatto che (anche) la scienza contiene degli elementi valutativi e normativi, degli ideali normativi in ordine al “normale” funzionamento del cervello, delle emozioni, oppure ai criteri per ritenere che certe disfunzionalità sono “determinate”. Si tratta di scelte normative, che non possono essere interamente dettata da statistiche – le quali sono costruite in maniera molto complessa, il che pone l’ulteriore problema della loro opacità e di come certi “dati” vengono in realtà “costruiti” e come dovrebbero essere utilizzati.

Un altro aspetto che mi preme mettere in luce riguarda i valori morali che dovrebbero guidare le scelte razionali: tali valori, a mio avviso, non sono assoluti, cioè sciolti da ogni contingenza, ma sono il frutto di tradizioni, culture, storici. In questo senso, non esiste un progresso lineare della storia, che al contrario procede per salti. Basta pensare alla discussione sulla pena di morte: la legislazione del Granducato di Toscana è migliore di quella attualmente in vigore in USA. Dare una giustificazione oggettiva dei valori e delle scelte razionali non significa ignorare che tali valori sono sorti all’interno di una certa dimensione storica.

D’altra parte, vorrei anche precisare che le norme costitutive hanno poco a che vedere con la morale in realtà, bensì si ricollegano all’idea che le norme servono a garantire una risposta all’incertezza e quindi, di fatto, riducono l’incertezza. Si tratta di una tesi sostenuta, ad esempio, da Jules Coleman a proposito del contratto, così come da Michael Bratman riguardo a diverse tipologie di scelta collettiva e da Scott Shapiro proprio a proposito del diritto.

Quando parliamo di norme costitutive, facciamo riferimento a un insieme di norme abbastanza generali da poter organizzare qualsiasi azione coordinata e cooperativa. Non si tratta di due concetti equivalenti: il coordinamento può rispondere a logiche strumentali, la cooperazione prevede invece una disposizione, se non all’altruismo vero e proprio, quantomeno a prendere in considerazione le intenzioni, i fini, e i bisogni dell’altro. Credo che sia importante stabilire un collegamento tra la nozione di progresso e queste due funzioni delle norme, di cooperazione e di coordinamento, su cui si è fondata la sopravvivenza stessa dell’essere umano, che è un essere finito e limitato, ma anche capace di educazione e di socializzazione. È plausibile sostenere che l’imputabilità è questione interna a pratiche sociali governate da norme di reciprocità, mutuo rispetto e riconoscimento. La pena è giustificabile, quando lo è, all’interno di pratiche sociali governate da tali norme.

L’imputabilità è questione interna a pratiche sociali governate da norme di reciprocità, mutuo rispetto e riconoscimento. La pena è giustificabile, quando lo è, all’interno di pratiche sociali governate da tali norme

Carla Bagnoli

Mario De Caro

Sono perfettamente d’accordo su quanto detto finora; aggiungo solo qualche ulteriore considerazione a partire dalle vostre domande.

Per quanto riguarda il rapporto tra determinazione e condizionamento, e in particolare quest’ultimo concetto, credo che qui la vera sfida sia quella lanciata dell’epifenomenismo. Se cioè dovessimo concludere che il nostro prendere coscienza di ciò che dovremmo fare non conta niente dal punto di vista causale, perché non siamo in alcun modo in grado di incidere sul corso degli eventi, ecco allora che non avrebbe più nessun senso parlare di libertà o di attribuzione di responsabilità per le azioni compiute.

I risultati delle ricerche condotte nel campo delle scienze cognitive, tuttavia, ci offrono un quadro diverso, che ci consente di uscire dalla logica dell’epifenomenismo. Un quadro, cioè, nel quale tutti noi siamo molto meno responsabili di quanto ci piacerebbe pensare e tuttavia, almeno in una certa misura, possiamo esserlo a tutti gli effetti.

I risultati delle ricerche condotte nel campo delle scienze cognitive […] ci offrono un quadro […] nel quale tutti noi siamo molto meno responsabili di quanto ci piacerebbe pensare e tuttavia, almeno in una certa misura, possiamo esserlo a tutti gli effetti

Mario De Caro

Quanto poi alla valutazione circa la portata della responsabilità individuale, occorre tenere in considerazione i fattori attenuanti, così come le ragioni che ci esonerano del tutto da responsabilità (come nei casi in cui realizziamo un comportamento che apparentemente è un actus reus ma manca la mens rea). Conosciamo molti casi di questo tipo. Un ottimo esempio, che il Prof. Pietrini conosce molto bene, è un caso che si è verificato negli Stati Uniti d’America e che ha per protagonista un uomo, con una vita integerrima alle spalle, che a oltre 60 anni cominciò a mostrare comportamenti pedofiliaci. Fu arrestato e il giorno prima del processo si sentì malissimo, tanto da essere portato di corsa in ospedale. Lì i medici scoprirono che aveva un tumore al cervello. Rimosso il tumore, le sue tendenze pedofiliache scomparvero, fino a quando, un paio d’anni dopo, il tumore si ripresentò, e con esso anche le tendenze pedofiliache.

Da esempi come questo, si capisce chiaramente – come ha osservato anche Giuseppe Sartori, che ha spesso collaborato con Pietro nell’attività peritale nell’ambito dei processi penali relativi a questo genere di vicende – che maggiore è l’atrocità del crimine, più forte è la nostra volontà di punirne l’autore, ma minore dovrebbe essere, invece, la nostra propensione a ragionare in chiave prettamente punitiva. Vale a dire: i crimini più orrendi spesso sono compiuti da persone che non sono nel pieno controllo di ciò che fanno.

Maggiore è l’atrocità del crimine, più forte è la nostra volontà di punirne l’autore, ma minore dovrebbe essere, invece, la nostra propensione a ragionare in chiave prettamente punitiva. […] I crimini più orrendi spesso sono compiuti da persone che non sono nel pieno controllo di ciò che fanno

Mario De Caro

Questo non significa, ovviamente, che non ci si debba preoccupare di proteggere la società da tali individui; occorre però modificare la base della filosofia della pena. Bisogna sì proteggere la società, ma non bisogna punire le persone che non erano in grado di controllare se stesse quando hanno compiuto delitti, per quanto quei delitti possano essere orribili. Piuttosto, dobbiamo cercare di curare quei soggetti o, quantomeno, dobbiamo sì proteggere la società confinando quelle persone, ma senza causare in loro inutili sofferenze.

In questo quadro, qual è la miglior definizione di pena? A mio avviso, è quella che ci hanno offerto Hart e Rawls, i quali propongono una visione che tiene insieme sia gli aspetti utilitaristici, sia quelli del retributivismo cosiddetto “negativo”. Innanzitutto, la pena deve essere utile: occorre, cioè, vedere sempre un’utilità nella pena che intendiamo infliggere, soprattutto nella prospettiva del recupero sociale dell’individuo.

Ma non basta: in secondo luogo, una volta individuate le situazioni in cui la pena è effettivamente in grado di produrre un risultato utile, la applicazione della pena dovrà essere circoscritta ai soli autori di reati che effettivamente meritano la punizione.

C’è dunque un duplice controllo, secondo una forma di garantismo forte – condivisa, oltre che da Rawls e Hart, in parte anche da Bobbio – che rappresenta oggi, a mio parere, la concezione più adeguata della pena.

 

(Fine)

 

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[1] Si veda la seconda parte della conversazione con C. Bagnoli, M. De Caro, P. Pietrini, Un diritto penale incoerente?, in questa rivista, 24 febbraio 2021.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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