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Fascicolo 11/2021

Abstract. Il concetto di identità ereditato dalla cultura post-moderna, anche nelle sue declinazioni critiche e nei coni d’ombra delle sue involuzioni, ha radici lontane: da Hume e Locke fino a Nietzsche, Pirandello, Joyce, Musil esso si carica di una valenza ontologica e gnoseologica insieme. Essere e conoscere sembrano categorie dissolte dal progressivo spaesamento di un “io” senza approdi, maturato nel secolo scorso, lungamente studiato dalla psicanalisi e assunto dalla letteratura, dalla filosofia e dalle scienze umane del Novecento come tema centrale. Fino a porre il problema del conflitto tra natura e cultura, reale e virtuale, singolare e plurale, scavando nel profondo della struttura biologica dell’individuo, tra percezione empirica e razionalità, in quello che sembra essere diventato un impossibile tentativo di ricapitolazione dei contesti esistenziali, per mettere ordine nella propria vita. La dissoluzione dell’identità, che oscilla tra pervasività tecnologica, incertezze della scienza e divergenze della volontà, si presenta all’esordio del terzo millennio come argomento cruciale di riflessione e di scelte per il futuro.

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Sosteneva Hume che ogniqualvolta riflettiamo sulla nostra identità personale ci troviamo di fronte a una serie di percezioni che ci appartengono ma tra le quali non possiamo mai isolare quella distinta che riguarda il nostro io: «Non riesco mai a sorprendere me stesso senza percezione e a cogliervi altro che percezione»[1].

Da questa prospettiva di valutazione l’identità personale diventa una mera suggestione, l’integrità della persona una supposizione, un’entità sommativa e fittizia assoggettata alla mutevolezza anche temporale delle percezioni. Come già in Locke[2], la riflessione di Hume si muove tra empirismo e razionalismo, come derivazione del cogito cartesiano ma in una cornice più ontologica (l’essere) che gnoseologica (il conoscere), anche se in lui segue la direzione della probabilità e dello scetticismo. Credo sia questo il fondamento filosofico da cui prende corpo il tema dell’identità lungamente cercata e della sua progressiva dissoluzione, ereditato dal ‘900, attraverso Kant, Hegel e Nietzsche.

Non riesco mai a sorprendere me stesso senza percezione e a cogliervi altro che percezione

D. Hume

Uno, nessuno e centomila” è la metafora suggestiva usata da Luigi Pirandello[3] per spiegare le contraddizioni tra l’unicità della persona e la molteplicità delle sue sembianze e dei ruoli sociali che ne sono la caleidoscopica rappresentazione: indossando le maschere imposte dalle circostanze la persona diventa personaggio “in cerca d’autore”, asservito alle lusinghe o alle contraddizioni dei mutanti contesti relazionali o attore che esplicita un atto di volontà di mutevolezza o nascondimento. Mentre Cassirer è interessato non tanto alla conoscenza in sé quanto alla sua rappresentazione simbolica:

«Non possiamo cercare il vero “immediato” là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi»[4].

Ciò che interessa non è la distinzione tra il dentro e il fuori quanto «da quali punti di vista e in base a quale necessità il sapere stesso pervenga a queste distinzioni»[5]: possiamo da ciò argomentare che la sua fenomenologia della conoscenza tratteggia i connotati dell’uomo come “animale simbolico”, depositario di un continuo rimescolamento delle forme rappresentative della realtà.

Decisamente illuminante al riguardo è la lettura dello splendido, recentissimo, saggio di Giuseppe Saponaro[6]. Il ‘900 accosta alla riflessione speculativa della filosofia come luogo del rimuginamento interiore la forza dirompente dell’evoluzione tecnologica, del quotidiano, si apre ai nuovi linguaggi nella loro valenza semantica e simbolica, si incardina nel concetto di modernità e si esplicita nelle pluralità e nella molteplicità delle forme espressive.

Va osservato che la letteratura e il teatro si sono ampiamente occupati del tema dell’identità, del suo radicamento interiore e della sua connotazione sociale e culturale. Lo sfondo integratore è quel Novecento in cui l’individuo è alla perenne ricerca di una ragione di vita e di una spiegazione al senso delle cose in un contesto esistenziale in cui già prende corpo la rappresentazione plastica della precarietà esistenziale: a partire dai racconti e dalle pièces teatrali di Anton Checov[7], ma più ancora segnatamente in quello che non a torto è stato definito da Martin Esslin il teatro dell’assurdo, vera icona della vita come perenne attesa, dell’equivoco e dell’inganno, che ha in Samuel Beckett il più autorevole rappresentante (specie con “Aspettando Godot” e “Giorni felici”), insieme ad Eugène Ionesco, Harold Pinter e in parte a Thomas Bernhard, che nel “Riformatore del mondo” celebra l’ipertrofia senza freni di un egocentrismo persino miserevole[8].

E mentre attorno all’uomo e per sua mano, tra due guerre mondiali devastanti, cresce vorticosamente l’impresa tecnologica che prende il posto della rivoluzione industriale, si materializzano rappresentazioni di continuo spaesamento dell’individuo in un contesto sociale caratterizzato da assenza di radicamenti esistenziali, da ambivalenze indecifrabili e relativismo etico: ne assume le sembianze Leopold Bloom nell’“Ulisse” di Joyce[9] e ancor più l’uomo senza qualità di Musil[10], collocato al centro di una gigantesca rappresentazione iconografica da cui esce ridimensionato non per carenza di potenziali capacità ma per assenza di motivazioni e di possibilità di mettere in pratica i principi a cui vorrebbe ispirare la propria condotta, mentre mutano radicalmente i processi di identificazione sociale (a cominciare dal significato di borghesia), pervasi da un senso di decadenza, impossibilità di autorealizzazione, crescente sentimento di impotenza interiore e difficoltà di dominio della realtà.

E mentre attorno all’uomo e per sua mano, tra due guerre mondiali devastanti, cresce vorticosamente l’impresa tecnologica che prende il posto della rivoluzione industriale, si materializzano rappresentazioni di continuo spaesamento dell’individuo in un contesto sociale caratterizzato da assenza di radicamenti esistenziali, da ambivalenze indecifrabili e relativismo etico

Il tema di fondo che germina dal capolavoro incompiuto è a ben vedere quello del conflitto tra l’”io “ e il “mondo”, l’impossibilità di afferrare e dominare i processi di emancipazione della realtà, compiendo un impossibile tentativo di ricapitolazione dei contesti esistenziali, per mettere ordine nella propria vita.

Avvertiamo in questo straordinario romanzo una sorta di irrefrenabile transito dall’interno all’esterno: di una coscienza che si fa più attenta, sensibile e perspicace ma al tempo stesso debole e incerta e di un universo materiale e simbolico pervasivo, di cui sfugge il dominio. A ben vedere un’intuizione illuminante che ritroviamo nell’ampia rivisitazione di Zygmunt Bauman – a questo punto persino inflazionata, abusata e distorta da una folta schiera di replicanti e “traduttor dei traduttori” – che descrive una società liquida ed indeterminata che genera sentimenti di spaesamento, angosce e paure in un contesto puntilliforme e privo di approdi, dentro il quale l’uomo senza qualità diventa uomo senza ancoraggi[11].

Siamo nel pieno della crisi esistenziale ed ontologica dell’io pensante e della confusione e sovrapposizione di ruoli nei processi relazionali e partecipativi tipici delle moderne democrazie. Una deriva cui cerca di porre mano una visione utilitaristica della realtà e dell’universo simbolico delle relazioni – definita «dell’attore sociale»[12] –  entro cui l’individuo possa ritrovare un ruolo e una funzione a valenza costruttivista, anche in chiave di autodeterminazione personale, che ha in Goffman e in Ardigò due autorevoli interpreti[13].

Il tema di fondo che germina dal capolavoro incompiuto è a ben vedere quello del conflitto tra l’”io “ e il “mondo”, l’impossibilità di afferrare e dominare i processi di emancipazione della realtà, compiendo un impossibile tentativo di ricapitolazione dei contesti esistenziali, per mettere ordine nella propria vita

Dentro e fuori, realtà e sua rappresentazione, dimensione ontologica che muove verso il consolidamento interiore di una idea del mondo e fenomenologia simbolica come luogo del possibile: sono i temi che anticipano il dualismo che ci è più contemporaneo, quello tra reale e virtuale, tra percepibile e possibile, tra gestibile ma sfuggente e imperscrutabile perché “altrove”.

Essere e apparire sono la rappresentazione binaria dell’identità cangiante fino a palesarsi come transito verso la sua dissoluzione. Scavando nel profondo la psicanalisi offre contributi decisivi di studio e spiegazione al tema dell’identità di genere, oggi estremamente attuale sul piano culturale e rispetto alle declinazioni normative applicabili al concetto di autodeterminazione identitaria. In un interessante saggio Magioncalda e Vassallo considerano il tema dell’identità di genere che definiscono:

«Uno dei fattori psicosessuali che insieme con l’identità sessuale, l’orientamento ed il comportamento sessuale, vanno a costituire, nel contesto generale della personalità, la sessualità dell’individuo. L’identità di genere è la sensazione soggettiva e profondamente radicata che ognuno ha di essere uomo o di essere donna e che generalmente corrisponde al sesso biologico della persona»[14],

soffermandosi peraltro nella considerazione dei cd. “disturbi dell’identità di genere” il cui presupposto scaturisce dalla distinzione biologica dei sessi al punto che – nell’ampia disamina dei casi – viene citata la legge14 aprile 1982, n. 164, vigente in Italia, che reca le “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, successivamente modificata dall’art. 10, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.

La dissoluzione dell’identità è una deriva che esprime una vistosa accelerazione agli inizi di questo terzo millennio: essa matura in un contesto caratterizzato dall’obsolescenza delle ideologie, sostituite spesso da non convincenti e mutevoli opinioni fino al negazionismo, passa attraverso la società globalizzata che va perdendo il valore del radicamento nella storia e del genius loci, subisce l’intorbidamento del relativismo etico, l’esplosione delle nuove tecnologie e la spinta verso la digitalizzazione come modello di comunicazione e di scambio di relazioni affidate ad algoritmi e a codici alfanumerici.

Il mondo sta perdendo la consapevolezza culturale degli archetipi: essi non saranno mai compensati dalle più avanzate conquiste tecnologiche, specie se esse generano un conflitto con “madre natura”: la pandemia che flagella il mondo è conseguenza di una ribellione alla distruzione del pianeta. Affidiamo alla tecnica – in un continuo passaggio dall’interno all’esterno –  la fantasia creatrice, il pensiero divergente, l’immaginazione.

La dissoluzione dell’identità è una deriva che esprime una vistosa accelerazione agli inizi di questo terzo millennio: essa matura in un contesto caratterizzato dall’obsolescenza delle ideologie, sostituite spesso da non convincenti e mutevoli opinioni fino al negazionismo

Stiamo perdendo la correlazione tra manualità e pensiero (e viceversa) affidandoci alle “macchine”: nelle scuole in Finlandia è stato abolito il corsivo e introdotto il tablet, quei ragazzini crescendo useranno solo la firma digitale, mai quella manuale, persa per sempre[15]. La connotazione biologica, il DNA che ci caratterizza viene assoggettato alla valutazione discrezionale di una sensazione del momento, destinata ad essere cangiante: «oggi mi sento uomo», «oggi mi sento donna», non sono lui, non sono lei, chiamatemi “loro”.

Il cosplay (travestimento) è l’epifenomeno di una insicurezza interiore oppure la scelta di annullare la certezza dell’identità in una sorta di nichilismo inafferrabile, privato di una stabile conversione.

Se questo pensiero debole comincia a prender corpo in famiglia e nella scuola rischiamo di crescere una generazione di soggetti ibridi e defedati, deboli e soccombenti alla mutevolezza del momento, istrionici e forse fraudolenti verso se stessi. Il timore è che le donne e i minori paghino il prezzo più salato, la discriminazione più pervasiva, sia essa connotata da violenza fisica o mascherata da perbenismo.

Intanto nel buco nero del web, un universo simbolico che ha molte vie di accesso e poche certezze di ritorno, vengono carpiti i dati dei profili social, costruite improbabili identità mentre si consumano violenze e inganni in danno dei più deboli ed indifesi, si istiga al male e all’autodistruzione, la vita stessa è un accidente storico privo di valore, uno scherzo del tempo nello spazio.

Da qualche tempo percepiamo una sorta di ossessione compulsiva verso i concetti di identità e di normalità, ciò che viene descritto per genere definito è avversato come espressione di discriminazione sessista: sia esso il jack di una prolunga del PC o il maschio-femmina di una spina elettrica.

Girano sul web immagini di uomini incinti come aspirazione conclusiva di un percorso di mutazione genetica: forse aiutato, forse immaginato dalla scienza intesa come strumento di delegittimazione della natura.

Se questo pensiero debole comincia a prender corpo in famiglia e nella scuola rischiamo di crescere una generazione di soggetti ibridi e defedati, deboli e soccombenti alla mutevolezza del momento, istrionici e forse fraudolenti verso se stessi

Qualora vengano assunti provvedimenti legislativi che incentivano la trasformazione identitaria per autopercezione si rischia di non tener conto dei diritti e delle esigenze dei minori, essi sono espunti da qualsivoglia legittimazione delle scelte degli adulti. Spesso ne sono vittime, in quanto soggetti non interpellati, più deboli, estranei alla nuova realtà che viene a determinarsi. E insieme a loro soccombono in genere le donne quando sono fatte oggetto di violenza.

Urge un profondo ripensamento alla luce della ragione e della scienza.

La percezione dell’identità in David Hume, pur se velata da uno scetticismo razionale, perfino dalla diffidenza come metodo di conoscenza, avrebbe meritato un esito più rassicurante.

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[1] D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, 1982, vol I, pp. 263-266.

[2] J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, 2007.

[3] L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi, 2014; id. Sei personaggi in cerca d’autore, Einaudi, 2014.

[4] E. Cassirer, Filosofia delle forme simbolicheIntroduzione, Pgreco,  2015, p. 372.

[5] Idem, pag. 356.

[6] G. Saponaro, Per Ernst Cassirer, Aracne, 2019.

[7] A. Checov, Teatro, Garzanti, 2014.

[8] Per approfondimenti v. S. Beckett, Teatro, Einaudi, 2013; E. Ionesco, Il rinoceronte, Einaudi, 1981; H. Pinter, Teatro, 1°e 2° vol., Einaudi, 2010; T. Bernhard, Teatro. Vol. 1: ­Il riformatore del mondo, Einaudi, 2015.

[9] J. Joyce, Ulisse, La nave di Teseo, 2020.

[10] R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1997.

[11] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011.

[12] V., in proposito, A. Ardigò, La sociologia dell’attore sociale di fronte alla sfida dell’ipercomplessità, in Studi di Sociologia, 3, 1989, pp. 267 ss.; Inoltre v.  L. Gallino, Il mancato sviluppo di una teoria dell’attore nella sociologia italiana, in Quaderni di Sociologia, 70-71, 2016, pp. 209 ss.; P. Ceri, Movimenti sociali: analitici e concreti. Sulla teoria di Alain Touraine, in Quaderni di Sociologia, 20, 1999, pp. 119 ss.; S. Vergati, Le aspettative da dimensioni soggettive a fattori dell’azione sociale, in Studi di Sociologia, 1, 2010, pp. 17 ss.

[13] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, 1997; A. Ardigò, La Sociologia dell’attore sociale di fronte alla sfida dell’ipercomplessità societaria, Vita e pensiero, 1989.

[14] P. Magioncalda, L. Vassallo, Il disturbo dell’identità di genere, in Psychiatry online, 22 dicembre 2012.

[15] H. Russel, Signing off: Finnish schools phase out handwriting classes, in The Guardian, 31 luglio 2015, che riporta le dichiarazioni del Presidente dell’Istituto Nazionale per l’Educazione Finlandese, Minna Harmanen: «I bambini non hanno tempo per diventare veloci a scrivere in corsivo, pertanto non è utile per loro» («Children don’t have time to become fast at cursive writing, so it’s not useful for them»).

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