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Fascicolo 10/2019

Pubblichiamo qui, per gentile concessione dell’editore, un estratto del capitolo introduttivo del volume di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giovanni Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice Edizioni, Torino, 2019 (pp. VII-XXX).

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Il libero arbitrio tra impressioni e realtà

Robert Alton Harris fu giustiziato nel 1992 per un delitto commesso in California quattordici anni prima. Aveva ucciso senza motivo due ragazzi, sparando loro alla schiena dopo averli fatti scendere dall’auto su cui viaggiavano allo scopo di procurarsi un mezzo per la rapina che progettava con il fratello. La corte considerò Harris un criminale incallito: fin da piccolo torturava gli animali per il solo piacere di farlo, aveva commesso reati minori e in precedenza picchiato a morte un vicino di casa durante una rissa (McKenna e Pereboom, 2016, pp. 1-3).

La sua esecuzione nel carcere di San Quintino fu accolta da molti come un atto di giustizia: quell’uomo si era volontariamente macchiato di un crimine orrendo e gratuito, aveva per tutta la vita dimostrato disprezzo per gli altri e non si era mai pentito. In un’esistenza costellata di comportamenti antisociali non aveva mai provato a integrarsi e lavorare onestamente rispettando il suo prossimo e le regole comuni. La società aveva dunque, secondo l’opinione comune, il diritto di punirlo: in definitiva, Harris sapeva bene ciò a cui sarebbe andato incontro.

Negli anni della sua detenzione, tuttavia, i giornali raccontarono anche altri aspetti della sua infanzia. Robert nacque prematuro a causa delle percosse che il padre inflisse alla madre incinta, accusandola di averlo tradito e sostenendo che il figlio non fosse suo. In seguito, il padre molestò sessualmente le sorelle e picchiò ripetutamente tutti i bambini di casa. La madre divenne alcolizzata e venne arrestata più volte. Il giovane Harris crebbe con problemi di apprendimento e di linguaggio, a scuola si sentiva stupido, raccontò la sorella Barbara, e veniva bullizzato dai compagni. A casa la madre non voleva che Robert la toccasse.

A quattordici anni fu condannato per furto d’auto e rinchiuso in una prigione minorile, dove venne violentato più volte dai compagni e tentò di suicidarsi tagliandosi le vene. Rilasciato diciannovenne, il bambino che aveva amato gli animali cominciò a tormentarli e a ucciderli, proseguendo un’esistenza difficile e senza sostegni.

Una volta illuminati questi aspetti della vita di Robert Harris, il giudizio su di lui può cambiare radicalmente. Ma, soprattutto, per ciò che qui ci interessa, potremmo chiederci se i suoi delitti siano stati frutto di una libera adesione a piani criminali che aveva lucidamente architettato oppure se la sua storia di sofferenza e abusi abbia “rovinato” il suo carattere – posto che tutti noi in genere non siamo violenti o sadici – o lo abbia orientato in una precisa direzione, offrendogli soltanto una certa prospettiva sul mondo nell’età critica dello sviluppo. In altre parole, la sua storia lo ha determinato a essere la persona che poi si è rivelata essere o avrebbe potuto fare altrimenti?

In una vicenda come quella di Harris sono in gioco molte delle nostre intuizioni morali e sociali più importanti, che diamo spesso per scontate ma, a un esame più attento, si rilevano ambivalenti e, a volte, persino contraddittorie. Non si tratta soltanto di casi eclatanti – omicidi e pene da infliggere –, molti aspetti delle nostre interazioni ricadono sotto la valutazione che diamo delle intenzioni e delle motivazioni che stanno dietro ai comportamenti quotidiani delle persone.

Potremmo chiederci se i suoi delitti siano stati frutto di una libera adesione a piani criminali che aveva lucidamente architettato oppure se la sua storia di sofferenza e abusi abbia “rovinato” il suo carattere – posto che tutti noi in genere non siamo violenti o sadici – o lo abbia orientato in una precisa direzione, offrendogli soltanto una certa prospettiva sul mondo nell’età critica dello sviluppo. In altre parole, la sua storia lo ha determinato a essere la persona che poi si è rivelata essere o avrebbe potuto fare altrimenti?

Mentre Robert Harris uccideva la coppia di giovani che avevano avuto la sfortuna di finire sulla sua strada, altri due eventi avrebbero potuto attrarre la nostra attenzione. All’università di Princeton due ricercatori impertinenti sottoponevano alcuni seminaristi a un esperimento di psicologia empirica, e nei pressi della sede delle Nazioni Unite a New York un funzionario sovietico veniva aiutato a non mancare a un’importantissima riunione.

Agli studenti di teologia fu chiesto prima di compilare un questionario circa il valore che davano alla religione e al ruolo che essa aveva nella loro vita. Successivamente, divisi in gruppi, lessero la parabola evangelica del buon samaritano o un brano sulle possibili alternative alla vocazione sacerdotale. Quindi, fu detto a tutti di recarsi in un altro edificio del campus per tenere una lezione sulle proprie materie di studio. I gruppi ebbero però indicazioni diverse: ad alcuni fu detto che erano molto in ritardo, ad altri che dovevano affrettarsi, ad altri ancora che avevano tempo. Sulla strada da percorrere, un collaboratore degli sperimentatori si fingeva ferito (come nella parabola) e chiedeva soccorso. I risultati furono i seguenti: diede aiuto il 40% degli studenti, ma se si considerano i singoli gruppi, si fermò il 63% di coloro che non avevano urgenza e solo il 10% di chi era in ritardo. Quanto alle letture, si chinò sul ferito il 53% di coloro che avevano riflettuto sul samaritano e il 29% di chi aveva affrontato un tema più neutro. Se ne può dedurre che variabili situazionali come la fretta e l’esposizione recente a un testo abbiano più peso, almeno in termini di correlazione con il comportamento, di variabili caratteriali come l’importanza della religione per la propria esistenza (Darley e Batson, 1973). Un esito che sfida le nostre convinzioni consuete, in base alle quali avremmo previsto che i seminaristi fossero ben più attenti alloro prossimo in difficoltà e meno influenzati dalle contingenze. Ma forse è la stessa vicenda narrata nel Vangelo di Luca a suggerire che dobbiamo avere una visione più aperta sulla realtà.

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Igor Vitalenko stava correndo a un incontro delle Nazioni Unite che poteva contribuire a far calare la tensione fra Unione Sovietica e Stati Uniti, con i loro missili nucleari sempre pronti all’uso. Aveva documenti importanti nella cartella che teneva sotto il braccio mentre a piedi sotto la pioggia raggiungeva il Palazzo di Vetro. Un urto tra la folla e la cartella cadde e si aprì: i preziosi fogli volarono per strada. Un uomo si precipitò fuori dalla cabina telefonica vicina e agguantò alcune carte che stavano per finite in un tombino. Il diplomatico fu sollevato per lo scampato pericolo ma, mentre riprese il cammino, si stupì dell’accaduto: a New York non gli era mai capitato di ricevere aiuto da estranei, nemmeno quando era scivolato sul ghiaccio, forse anche per il suo aspetto da straniero. In ogni caso, in cuor suo fu davvero grato a quell’uomo, gli aveva evitato un grosso guaio e, pensò, magari un giorno racconterò questa giornata e come un ignaro americano ha aiutato un sovietico ad abbassare la tensione internazionale.

In effetti, se si fosse condotta un’indagine accurata, sarebbe emersa una curiosa spiegazione. L’uomo che forse aveva dato un piccolo, involontario contributo al dialogo tra superpotenze non era affatto un modello di cortesia. Piuttosto, quando aveva riagganciato la cornetta nella cabina telefonica, un guasto dell’apparecchio aveva fatto sì che una pioggia di monete scendesse nella vaschetta sottostante, mettendo il nostro passante di ottimo umore e facendo sì che accorresse ad aiutare Vitalenko a raccogliere i suoi fogli. Che le cose vadano spesso così ce lo dice una notevole mole di studi, i quali evidenziano che le circostanze e gli eventi che caratterizzano il nostro ambiente hanno una grande influenza – senza che noi ce ne rendiamo conto – sulle nostre scelte e sui nostri comportamenti. Probabilmente, se non avesse guadagnato inaspettatamente qualche dollaro, l'”eroe” per un minuto sarebbe rimasto indifferente davanti all’incidente del funzionario sovietico e forse le relazioni USA-URSS avrebbero avuto un corso leggermente diverso in quel periodo.

In definitiva, dovremmo lodare quel passante e riconoscergli un merito, oppure no? E quale giudizio dare di un’altra persona che invece non fosse intervenuta per raccogliere i fogli caduti? Forse si deve valutare quanto è importante lo stato d’animo nel momento specifico rispetto al carattere forgiato nel tempo e ritenuto più stabile. Ma ciò equivale a chiederci se la nostra libertà sia costante o piuttosto legata in qualche misura ad aspetti contingenti e mutevoli. Se così fosse, sarebbe la libertà cui normalmente facciamo riferimento e che pensiamo di possedere?

Forse si deve valutare quanto è importante lo stato d’animo nel momento specifico rispetto al carattere forgiato nel tempo e ritenuto più stabile. Ma ciò equivale a chiederci se la nostra libertà sia costante o piuttosto legata in qualche misura ad aspetti contingenti e mutevoli. Se così fosse, sarebbe la libertà cui normalmente facciamo riferimento e che pensiamo di possedere?

A questo punto possiamo svelare che i tre fatti raccontati non sono contemporanei: l’esperimento di Princeton è stato condotto alcuni anni prima del delitto di Harris, mentre l’episodio del diplomatico sovietico è inventato da noi, anche se l’esperimento cui si ispira è reale e risale proprio agli anni Settanta del secolo scorso (Isen e Levin, 1972). Il quadro che emerge ci aiuta a entrare nel dibattito contemporaneo sul libero arbitrio, sempre più caratterizzato dalla presenza di dati scientifici, provenienti dalla psicologia e dalle neuroscienze. Un dibattito che però ha una storia lunghissima, perché il “mistero” del libero arbitrio ha radici antiche quanto la filosofia e non sembra essersi diradato con le nuove conoscenze empiriche.

La stessa definizione di libertà di scelta e azione in senso individuale (cioè non sociale o politica) o di libero arbitrio (free will), secondo il termine più tecnico, è controversa e non trova accordo pieno tra gli studiosi. In prima istanza, per circoscrivere il concetto in fase introduttiva, si può dire che il libero arbitrio è quella capacita, tipica degli esseri umani, di avere un (senso di) controllo sulle proprie azioni tale da giustificare la responsabilità morale, un controllo che ha a che fare con la “sorgente” causale dell’azione (tipicamente deve essere interna all’agente). Si tratta di una definizione densa con fortissime implicazioni, come vedremo (tra le quali che il controllo sia consapevole). A essa, secondo molti, va aggiunta la condizione di avere aperta davanti a sé più di una possibilità di azione in ogni momento in cui prendiamo una decisione (la possibilità di fare altrimenti). E poi va considerato se la decisione sia in qualche modo razionale, cioè non puramente casuale.

In base a questa definizione, Robert Harris era apparentemente libero, perché avrebbe potuto sparare o non sparare ai due ragazzi e di tale scelta ha pagato le conseguenze. Lo stesso vale per i seminaristi che hanno soccorso o meno il ferito e per il passante che ha aiutato il diplomatico. Ma da sempre la prima obiezione a questa apparenza di libertà è stata quella suscitata dall’idea del determinismo fisico, in contraddizione con la libertà umana.

Un'antica controversia

Se la volontà degli uomini fosse libera, cioè ognuno potesse agire come gli talenta, tutta la storia sarebbe una serie di casi fortuiti slegati. Se anche un solo uomo fra milioni di uomini nel corso di un millennio avesse la possibilità di agire liberamente, e cioè a suo talento, evidentemente un solo libero atto di quell’uomo, contrario alle leggi, annienterebbe la possibilità dell’esistenza di qualsiasi legge per tutto il genere umano. Se invece esiste una sola legge che governa le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell’arbitrio, poiché la volontà degli uomini deve essere soggetta a questa legge. In questa contraddizione consiste il problema del libero arbitrio, che dai tempi più remoti ha preoccupato i maggiori ingegni dell’umanità, e da sempre è stato posto in tutto il suo significato[1].

Così Lev Tolstoj, dopo aver narrato la Russia di inizio Ottocento e la guerra contro Napoleone, sintetizza nell’epilogo di Guerra e pace la sua poderosa riflessione su ciò che muove i protagonisti delle vicende umane. Un compendio del sapere del suo tempo concluso con il riconoscimento che è «necessario rinunciare a un’inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo»[2].

[È] necessario rinunciare a un’inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo

L. Tolstoj, Guerra e pace, Mondadori, Milano, 1951, tomo IV, p. 382

[…] Se siamo davvero liberi resta una domanda a cui non risulta legittimo dare risposte apodittiche, nell’una o nell’altra direzione. È nostro auspicio, però, che la lettura di questo volume riesca a fornire qualche nuovo elemento di riflessione a chi da tempo è alla ricerca di una soluzione; e che possa anche fare riflettere chi, sino a ora, tale problema non s’era mai posto.

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[1] L. Tolstoj, Guerra e pace, Mondadori, Milano, 1951, tomo IV, p. 382 [ed. or. 1863-1869].

[2] L. Tolstoj, Guerra e pace, cit., p. 402.

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