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01.04.2020
Lorenzo Zilletti

L’immoralità pericolosa: il carcere nel tempo del coronavirus

Fascicolo 4/2020

Pubblichiamo qui, per gentile concessione editoriale, il presente contributo di Lorenzo Zilletti, originariamente pubblicato sulla rivista Discrimen, il 26 marzo 2020.

 


 

«…È insopportabile che io, ogni anno, debba fare lo stesso resoconto;
che nulla sia cambiato; che nonostante l’evidenza drammatica di una condizione disumana, non un passo sia stato compiuto, per rendere più degna l’esecuzione penitenziaria.
 
Non ci siamo fermati sulle poltrone dell’ufficio del Direttore, ma siamo entrati
dentro le celle e dentro i loro servizi igienici, nelle docce comuni verdi di muffa,
negli spazi fatiscenti dove sopravvivono in condizioni indegne di un paese civile
centinaia di persone, uomini, donne, e purtroppo anche alcuni bambini.
 
I detenuti vivono chiusi in cella per 22 ore, salvo i pochissimi che possono
svolgere un lavoro: non si attua più la cd. sorveglianza dinamica,
dunque le celle non sono affatto camere di pernottamento,
come vorrebbe la legge, ma luoghi di permanente contenzione fisica.
 
Molte celle hanno pareti ammuffite, in molte ci sono infiltrazioni di acqua.
 
In un terzo di esse è presente il terzo letto a castello: una pratica
semplicemente vietata, e sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
 
Abbiamo visto reti metalliche installate per impedire ai calcinacci,
che si staccano regolarmente dalle facciate, di colpire chi passa sotto:
in queste condizioni sono anche i passeggi
ove i detenuti dovrebbero poter godere dell’aria.
 
Le condizioni della prima cucina, l’unica in servizio – con pozze d’acqua per terra, mattonelle sconnesse, soffitti pieni di infiltrazioni – determinerebbero l’immediata chiusura
di una qualsiasi, anche modestissima mensa aziendale.
Per raggiungere la cucina abbiamo guadato un paio di torrentelli
che attraversavano i corridoi interni: erano in corso accertamenti (lo dico senza ironia) sull’origine dell’acqua …»[1]

 

*  *  *

Parole come queste, pronunciate con coraggio nel clima paludato di una delle recenti cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario, fotografano una realtà tragicamente estendibile alla (quasi) totalità dei penitenziari italiani. Restituiscono crudamente la dimensione di un fenomeno – fatiscenza + sovraffollamento – che l’opinione pubblica maggioritaria avverte in sottofondo, senza realmente preoccuparsene[2].

Neppure oggi, quando il virus maledetto rischia di attecchire su un terreno già di per sé tanto degradato.

Prevale, nella coscienza sorda di chi, suo malgrado, sperimenta con condivisa insofferenza – in queste settimane – un assaggio di arresti domiciliari (nella versione soft, che consente le comunicazioni con l’esterno e le uscite per approvvigionamenti o lavoro), il distacco per i veri reclusi.

Si dimentica che il 30% di loro è in carcerazione preventiva: potrebbe perciò essere assolto, una volta giudicato. Possibilità che si concretizza in numero elevato di casi[3] , di cui le ingenti somme globalmente spese dallo Stato per risarcire, dalle detenzioni ingiuste, chi l’abbia domandato, sono soltanto una spia[4] .

Si dimentica che il restante 70%, benché irrevocabilmente condannato, non è stato spogliato di ogni diritto costituzionale. Meno che meno, del diritto alla salute.

A questi sentimenti distratti, si aggiunge una duplice ferocia: quella di chi declina col verbo marcire la funzione della pena e quella, più suadente e perciò più ripugnante, di chi racconta con ipocrisia che sono state adottate tutte le misure per prevenire la diffusione del covid in ambiente carcerario. E che, di fronte a una malattia che uccide alla velocità della luce, ci rassicura che “entro la fine di maggio” i numeri dei detenuti diminuiranno, pur prefigurando dati che faranno comunque permanere l’intollerabile sovrannumero.

A questi sentimenti distratti, si aggiunge una duplice ferocia: quella di chi declina col verbo marcire la funzione della pena e quella, più suadente e perciò più ripugnante, di chi racconta con ipocrisia che sono state adottate tutte le misure per prevenire la diffusione del covid in ambiente carcerario

In queste settimane, tutto il mondo del diritto si è mosso, per reclamare soluzioni reali ed efficaci: lo hanno fatto – per primi – gli avvocati penalisti dell’UCPI; alcuni straordinari giudici di sorveglianza; qualche corrente della magistratura; i professori di diritto penale; l’ANM; perfino, il CSM.

Il mondo della politica non può, impunemente, voltarsi dall’altra parte: chi crede nei valori della Costituzione deve attivarsi al più presto, rinunciando a squallidi calcoli elettorali e predisponendo rimedi drastici e incisivi. Chi detiene il potere di incarcerare, lo usi davvero solo come extrema ratio, praticando il diritto costituzionale oltre che predicarlo.

In queste settimane, tutto il mondo del diritto si è mosso, per reclamare soluzioni reali ed efficaci: lo hanno fatto – per primi – gli avvocati penalisti dell’UCPI; alcuni straordinari giudici di sorveglianza; qualche corrente della magistratura; i professori di diritto penale; l’ANM; perfino, il CSM

Molti, in questi giorni terribili, auspicano che, domani, l’esperienza toccataci in sorte sia il motore per un rinnovamento della società, delle nostre abitudini di vita. Sul fronte della galera, facciamo che la battaglia contro il virus maledetto costituisca il primo passo per concretare i nobili pensieri di Alessandro Margara: «… la violenza dell’istituzione non rende innocenti i colpevoli che ospita (anche se essi si sentono vittime, e lo sono soggettivamente e sovente anche oggettivamente). Ma la violenza che hanno espresso con i loro delitti…non giustifica mai la violenza della comunità, dello Stato, che non dovrebbe aggiungere alla forza necessaria per realizzare la reclusione alcun additivo di violenza gratuita, quando non compiaciuta»[5].

 

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[1] È un estratto dell’intervento pronunciato da Luca Bisori, presidente della Camera penale di Firenze, il 26 gennaio 2019, presso quella sede giudiziaria. Il testo è reperibile in www.camerapenalefirenze.it

[2] Sulla deprecabile assenza di una rappresentazione comune di prigione e pena, si veda R. De Vito, Il vecchio carcere ai tempi del nuovo colera, in Questionegiustizia.it, 11 marzo 2020. L’Autore è presidente di Magistratura Democratica, oltre che valoroso magistrato di sorveglianza a Sassari

[3] Ha recentemente calcolato che, nel nostro Paese, ogni otto ore un innocente finisce in carcere, M. Feltri, Ogni otto ore, in La Stampa, 10 dicembre 2019.

[4] I dati ufficiali attestano che dal 1992 al 31 dicembre 2017, quindi in 25 anni, lo Stato ha versato complessivamente oltre 656 milioni di euro a coloro (26.412 persone) che hanno attivato con successo la procedura di cd. RID. Il fenomeno dell’indebita carcerazione preventiva è certamente più vasto, considerando che non tutti gli assolti pongono domanda. Se a questi numeri si sommano gli “errori giudiziari” in senso stretto (es., le condanne definitive poi annullate a seguito di processo di revisione), il numero delle vittime del processo sale fino a 26.550; contemporaneamente, si impenna anche la cifra del risarcimento, che supera i 768 milioni di euro.

[5] A. Margara, Memoria di trent’anni di galera. Un dibattito spento, un dibattito acceso, in Il Ponte, 7/9, 1995, p. 112 e s.

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