«C’era una volta». Questo l’incipit di Rosso mafia. La ’ndrangheta a Reggio Emilia, scritto da Nando dalla Chiesa e Federica Cabras, edito da Bompiani (2019).
Autori del libro sono due attenti studiosi del fenomeno della criminalità organizzata: Nando dalla Chiesa, professore ordinario di Sociologia della criminalità organizzata, docente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano dove dirige anche Cross – l’Osservatorio sulla criminalità organizzata, nonché autore di numerosi libri dedicati all’analisi e alla denuncia del fenomeno mafioso; e Federica Cabras, giovane dottoranda in Studi sulla criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano e collaboratrice di Cross.
Risultato di un’accurata ricerca scientifica sull’arrivo e sul consolidamento della criminalità organizzata in Emilia, tutto il libro è un viaggio attraverso i paradossi e le contraddizioni di questo fenomeno, in cui i due Autori non si limitano a raccontare quello che è accaduto, tra affreschi storici e cronache giudiziarie, ma si fanno portatori di tanti scomodi interrogativi, primo tra tutti: cos’è la ‘ndrangheta? Questo tabù impronunciabile oggetto di esorcismi e rimozioni. E cosa la unisce a Reggio Emilia?
Il libro prende le mosse da una ricerca sollecitata dalla presidente dell’Istituto Cervi di Gattatico, provincia di Reggio Emilia, la ex senatrice Albertina Soliani, che suggerisce di affidare a Cross una ricerca sulla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna.
La ricerca dei due Autori parte, allora, da lontano, dalle strade di un piccolo comune crotonese, Cutro, in realtà la roccaforte del clan ‘ndranghetistico al centro della storia “criminale” emiliana. Un paese del versante ionico di appena diecimila abitanti, storico granaio della Calabria, a 229 metri sul livello del mare, circondato da distese di terra coltivata a grano che cambiano tonalità a seconda delle stagioni: «a Cutro ci sono i banditi» scrisse negli anni Cinquanta Pasolini, «ma sono vittime invisibili, persone escluse dal benessere e dai diritti che uno Stato democratico avrebbe dovuto garantire».
Il libro prende le mosse da una ricerca sollecitata dalla presidente dell’Istituto Cervi di Gattatico, provincia di Reggio Emilia, la ex senatrice Albertina Soliani, che suggerisce di affidare a Cross una ricerca sulla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna.
Cutro rappresenta da decenni il regno di Nicolino Grande Aracri, boss carismatico e sanguinario, che nel giro di pochi anni e senza alcun lignaggio mafioso alle spalle, ha saputo scalare i vertici della ‘ndrangheta. Si è fatto da sé Don Nicola (è questo un aspetto inedito della vicenda, ben messo in luce dagli Autori), così come da zero era partito negli anni Settanta il fondatore della ‘ndrangheta cutrese, Antonio Dragone, per tutti a Cutro, “il bidello della scuola del paese”.
Come emerge dalla narrazione, quella del clan Grande Aracri è la storia della recente intraprendenza criminale dei suoi fondatori, e non di una dinastia secolare; si tratta di boss di medio livello, non radicati come in altre zone della Calabria, in una genealogia familiare complessa. Nonostante la sua indubbia giovinezza, la ‘ndrangheta cutrese nel giro di quasi quarant’anni è tuttavia riuscita a conquistare enormi spazi di potere, dalla sponda ionica alle terre bagnate dal Po, e anche oltre.
La lente di ingrandimento dei due Autori sul caso Reggio Emilia è puntata su un profilo specifico e poco convenzionale: cosa ha spinto la ‘ndrangheta da Cutro a mettere casa proprio nel territorio emiliano?
I luoghi comuni sulla criminalità organizzata vengono smontati. Non siamo più davanti ad un fenomeno che nasce, cresce e si sviluppa in territori socialmente degradati, con scarsa qualità dei servizi, asfissia occupazionale, bassa soglia di istruzione e di reddito. La ‘ndrangheta a Reggio Emilia ne è la prova. Siamo nella terra dei fratelli Cervi, il cuore della Resistenza, provincia del Tricolore, la “città esemplare”, che offre benessere economico, ottime opportunità lavorative, buona istruzione, la città delle biciclette e dell’integrazione ben regolata. All’indomani degli omicidi eccellenti di matrice mafiosa del 1979-1983, furono proprio le scuole della provincia emiliana, incoraggiate e sostenute dalle istituzioni locali, a mobilitarsi per far conoscere il fenomeno mafioso.
E allora, le mille argomentazioni solite di questi frangenti lasciano il posto alla meraviglia e allo stupore, che induce i due Autori a domandarsi: come è stato possibile che l’immagine di una Emilia sicura e incontaminata inizi a vacillare? Perché gli “anticorpi” emiliani al cospetto della ‘ndrangheta sono letteralmente crollati?
La “conquista” dell’Emilia avviene dal basso, non colpisce la finanza, né investe in borsa, la violenza è di norma a bassa intensità. Ma il modello emiliano viene lentamente scardinato. Le aziende calabresi conquistano i subappalti, ma si integrano bene con note realtà imprenditoriali emiliane diventando loro socie e alleate.
In questo contesto, gli Autori rilevano altresì come addirittura importanti esponenti politici interagiscono con i mafiosi, o sospetti tali, e vanno a tenere i comizi elettorali fino a Cutro, perché una quota dei loro grandi elettori abita proprio lì. Cambia perfino la gerarchia di importanza dei riti religiosi: la processione più importante a cui partecipare per acquisire voti diventa quella del Santissimo Crocifisso, che si tiene nel piccolo comune di Cutro, a scapito delle tante processioni locali della provincia reggiana. Ed ecco che una civilizzazione svuota l’altra, le si sovrappone fino a farla scomparire. L’antica, radicata politica emiliana di denuncia contro i padroni viene sostituita dal silenzio, dalla accondiscendenza, dall’omertà. La provincia per anni a fianco dell’antimafia siciliana piano piano si è fatta divorare dalla mafia calabrese.
La ‘ndrangheta cutrese ha goduto a Reggio Emilia degli appoggi di un intorno impensabile. Di un intorno senza il quale l’attività colonizzatrice della ‘ndrangheta non sarebbe mai stata possibile. Un intorno mimetizzato nei salotti buoni, che ha costituito la forza del clan e che gli ha consentito di agire indisturbato, tanto nella casa madre, quanto in trasferta. E sono queste tesi scomode e poco accomodanti che i due Autori sostengono e mettono in luce, per dimostrare, ancora una volta, che «la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia».
Il metodo di indagine e la successiva narrazione del prof. dalla Chiesa e della giovane Federica Cabras è scientifico, riflessivo, tipico di chi esplora senza timore, di chi non si accontenta delle prime risposte, di chi scava fino a smuovere la coscienza sociale. E a chi legge Rosso Mafia, questa voglia di conoscere fino in fondo, con ostinazione, viene senz’altro trasmessa.
Il metodo di indagine e la successiva narrazione del prof. dalla Chiesa e della giovane Federica Cabras è scientifico, riflessivo, tipico di chi esplora senza timore, di chi non si accontenta delle prime risposte, di chi scava fino a smuovere la coscienza sociale. E a chi legge Rosso Mafia, questa voglia di conoscere fino in fondo, con ostinazione, viene senz’altro trasmessa
Tuttavia, il lettore non può non cogliere la tristezza che, pagina dopo pagina, fa da leitmotiv all’intero libro: la frase pronunciata da un padrino a un affiliato, estratta da un’intercettazione, secondo cui «il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà», suscita amarezza e sofferenza per la Calabria stessa e per la moltitudine di Calabresi onesti che non si identificano in quella Calabria.
Gli Autori concludono sostenendo che, per sconfiggere la ‘ndrangheta, non basta avere consapevolezza del fatto che i veleni della criminalità organizzata hanno raggiunto i punti vitali della società civile, se poi non vengono annientati i vincoli di compaesanità e, più in generale, di contiguità che portano a una lenta e graduale assuefazione, se poi l’atteggiamento rimane quello del «ma noi che colpa abbiamo?».
È indispensabile che il desiderio di reagire e la voglia di contrastare la ‘ndrangheta come qualsiasi altra forma di mafia siano più forti della prudente rassegnazione: è questo il vibrante messaggio lanciato alla coscienza civile da Nando dalla Chiesa e Federica Cabras con il loro bel libro.