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02.05.2019
Michele Passione

The autopoiesis of legitimacy

(Critical) notes to Cass. Sect. VI, N. 9438/2019

Issue 5/2019

AbstractThe judgement which is the subject of this contribution addresses two questions.

The first concerns the comparison between the general criteria for the determination of the penalty pursuant to the application of the precautionary measures (which, pursuant to art. 278 of the Italian Code of Criminal Procedure, refer to the legal framework provided for each case, accomplished or attempted) and those provided for, in particular, for the applicability of pre-trial detention in prison (anchored, ex art.275, paragraph 2 bis of the Italian Code of Criminal Procedure, to the assessment of the penalty that may actually be imposed)

The second question concerns the provisions of Article 275, paragraph 2 bis, of the Italian Code of Criminal Procedure, in relation to the provisions of Article 656, paragraph  5 Code of Criminal Procedure, as recently amended by Constitutional Court sentence no. 41 of 2018, where as a rule it is possible to suspend the execution of the sentence even when the remainder of the prison sentence is more than four years.

Both issues originate from a case that concerns a double episode of evasion committed by the plaintiff during the same day and the judgement of legitimacy examined here concerns the assessment adopted by the Court of Supervision of Reggio Calabria, with reference to the rule of precautionary proceedings.

The analysis carried out here concerns the exegetical reconstruction offered by the Supreme Court, outlining its common heuristic matrix, which will be criticized here.

 

SUMMARY: 1. Introduction. – 2. A criminal right of Man, or a criminal law and Man? – 3. Act with “caution”. – 4. The question of constitutional legitimacy. – 5. Down from the eburnea turris.

 

Non è la risposta ciò che conta: è la domanda.
Forse non saremo mai in grado di trovare una risposta
definitiva e assoluta ad alcuna domanda.
Nel corso dell’evoluzione della scienza ogni risposta implica una nuova domanda.
Ciò che la scienza ci insegna non è forse altro che questo: porre domande.
 
H. Kelsen, Origins of Legal Institutions

1. Premessa.

Con la sentenza emessa il 29 gennaio 2019, n. 9438, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso proposto dall’indagato articolato in un unico motivo, ritenendo legittima l’applicazione, in sede di merito, della misura cautelare della custodia in carcere (ex art. 285 c.p.p.) disposta sulla base di un giudizio prognostico formulato dal primo giudice circa la irrogazione di una pena detentiva superiore ad anni tre di reclusione.

La richiamata valutazione ha considerato a tal fine (anche) il quantum di pena irroganda derivante dall’aumento per la continuazione, in violazione dell’art. 278 c.p.p.[1].

Quest’ultima disposizione, infatti, nel prevedere che «agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato», fa espresso divieto (quale regola generale, salvo alcune eccezioni, previste dall’art. 275 co. 2 bis c.p.p.) di tener conto, nell’ambito della predetta valutazione, della continuazione[2].

Analogamente, con la stessa sentenza la sesta sezione della Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità prospettata dal ricorrente, avente ad oggetto il mancato raccordo tra il citato art. 275 co. 2 bis c.p.p. – che, tra l’altro, esclude l’applicabilità della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni[3], e l’art. 656 co. 5 c.p.p.[4], come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 della Corte Costituzionale, che ha elevato da tre a quattro anni il quantum di pena massimo da espiare, anche in residuo, in presenza del quale il pubblico ministero è tenuto a sospendere l’ordine di carcerazione (salve le eccezioni espressamente previste)[5].

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2. Un diritto penale dell’Uomo, o un diritto penale e l’Uomo?

Muovendo da questo apparente distinguo (ossia dalla distinzione tra un diritto penale dell’Uomo o un diritto penale e l’Uomo) prende le mosse il presente contributo, misurandosi con una decisione che, per usare le parole che si leggono nella premessa di presentazione della neonata Rivista, sembra distanziarsi dall’essere umano, dalle conseguenze del suo agire, proponendo una lettura di diversi istituti processuali che trascura le evidenti connessioni logiche tra essi esistenti.

In questo senso, possiamo qui anticipare come le denunciate aporie dipendano in qualche misura dall’estromissione dell’Uomo, che lungi dal collocarsi in semplice congiunzione al diritto, ad esso collaterale, dovrebbe costituirne sempre l’oggetto, per la soggettività che lo contraddistingue. Un Diritto Penale dell’Uomo, appunto, che anteponga i principi alle regole (che ad essi devono conformarsi), onde evitare che siano queste a prevalere, relegando i primi a meri limiti esterni, piuttosto che a fondamenta del Diritto.

L’Uomo, […] lungi dal collocarsi in semplice congiunzione al diritto, ad esso collaterale, dovrebbe costituirne sempre l’oggetto, per la soggettività che lo contraddistingue

3. Agire con “cautela”.

Con unico motivo di ricorso dedotto, come già anticipato, il ricorrente ha denunciato la violazione di legge in relazione all’art. 275, comma 2 bis c.p.p. (il quale, come detto, fa divieto al giudice di disporre la misura cautelare in carcere laddove ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni), dal momento che il giudice di merito, nell’applicare la misura di cui all’art. 285 c.p.p. nei confronti dell’indagato, avrebbe tenuto conto, tra l’altro, dell’aumento di pena derivante dalla continuazione, in violazione del disposto dell’art. 278 c.p.p.

In relazione alla stessa disposizione, con il ricorso era stata altresì sollevata questione di legittimità costituzionale nella parte in cui l’art. 275 co. 2 bis c.p.p. aggancia il giudizio prognostico sulla pena al limite di tre anni, anziché a quattro. La questione era stata sollevata in relazione alla previsione di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p., così modificato dalla sentenza Corte cost. n. 41 del 2018, che fissa in quattro anni il quantum di pena residua per la quale scatta l’obbligo di sospendere l’ordine di carcerazione.

I due profili, pur intimamente connessi, verranno partitamente esaminati, e si darà conto di un’orditura esegetica che appare giuridicamente confutabile, poiché omette di compiere una valutazione sistemica, analizzando la norma processuale con quelle cui fa rimando e, accomunando i due aspetti vagliati, sembra ignorare il favor sotteso alle norme in questione.

Secondo la Corte di legittimità, la prognosi quod poenam che il giudice della cautela deve adottare per disporre la misura cautelare della custodia in carcere è del tutto sganciata dai criteri dettati dall’art. 278 c.p.p., dovendo riferirsi a «il diverso piano della valutazione della gravità in concreto dei reati in riferimento alla unitaria e complessiva considerazione di tutti i reati e di tutte le altre circostanze, oggettive e soggettive, che incidono sulla pena che in concreto si prevede sarà irrogata all’esito del giudizio».

Nel contrapporre il giudizio concreto, previsto ex art. 275 comma 2 bis c.p.p. per la prognosi sulla pena irroganda («può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni»), alla valutazione in astratto, ex art. 278 c.p.p., per i criteri regolatori generali per l’applicazione delle misure cautelari («agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato»), sembrerebbe, ad una prima sommaria lettura, che i giudici di legittimità abbiano preso in considerazione l’agito criminale nella sua interezza (dunque, abbiano tenuto conto anche della continuazione, elemento viceversa precluso dalla regola generale posta dall’art. 278 c.p.p.), apparentemente ritagliando la prognosi su un modello maggiormente pertinente rispetto alla decisione da assumere.

L’impressione è fuorviante, poiché l’utilizzo di questo parametro (la continuazione tra i due delitti di evasione), pur tenendo conto della concreta azione delittuosa posta in essere, si rivela contrario alle disposizioni di legge.

Così facendo, infatti, si finisce col tradire le disposizioni generali indicate al Libro IV, Titolo I, Capo I, del codice di rito (quelle relative alle misure cautelari), come se l’abito da indossare venisse cucito con materiali proibiti. Evidente la contraddittorietà dell’assunto, poiché si consentirebbe di fare in concreto ciò che la regola generale vieta.

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A sostegno della propria lettura del combinato disposto, ancora, viene citata una pronuncia inconferente, giacché riferibile a tutt’altro segmento processuale. Ed infatti, la decisione richiamata (Cass. pen. sez. I, 9 gennaio 2014, n. 6613), come ammesso dalla stessa Corte, concerne un caso di determinazione del termine di fase cautelare, ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. c) e d) c.p.p.[6], «allorché vi sia stata sentenza di condanna, in primo o in secondo grado».

Com’è ovvio, l’eccentricità del raffronto emerge dal fatto che, in tal caso, non ci si muove più in un ambito prognostico (la pena che verrà irrogata), per la cautela da assumere, ma si utilizzano criteri diversi da quelli contenuti nell’art. 278 c.p.p., dovendosi riferire il termine di fase cautelare alla pena complessivamente inflitta in concreto, unitariamente quantificata a seguito di eventuale cumulo materiale o giuridico. Nel caso in cui sia già intervenuta una sentenza di condanna (di primo o secondo grado), non avrebbe infatti senso operare un giudizio prognostico, che ponga in relazione la durata della misura cautelare in carcere con quella che si assume poter essere la pena prevista per detta ipotesi di reato, dal momento che il giudice ha già stabilito la sanzione per il delitto commesso.

Del resto, l’indirizzo giurisprudenziale a sua volta richiamato nella pronuncia appena citata, proveniente in questo caso dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un. 31 maggio 2007, n. 23381), si riferisce a tutt’altra situazione, nella quale, «per premessa stipulativa, sussiste un titolo legittimante la privazione della libertà personale». In tali casi, infatti, il legislatore ha previsto che ci si debba riferire alla pena irrogata, e non più edittalmente prevista, «e ciò tenendo conto dell’affievolirsi via via della presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost., co. 2)[7], e al dichiarato scopo di adeguare la durata della fase all’effettiva ritenuta gravità del fatto e alla pericolosità dell’imputato».

Che i casi siano ontologicamente diversi lo chiariscono, del resto, le stesse Sezioni Unite nella sentenza appena citata, laddove affermano che «a seguito della modifica apportata dal d.l. n. 292 del 1991 al testo dell’art. 303 c.p.p. il portato del precedente art. 278 c.p.p., diretto a dettare i criteri per accertare la pena stabilita dalla legge per ciascun reato agli effetti dell’applicazione della misura cautelare, è estraneo al problema del termine di fase a seguito della decisione di primo grado, dato che detto termine si ragguaglia, oggi, alla condanna inflitta, e non alla pena prevista in astratto». Parole chiare.

Come si vede, dunque, la sentenza in oggetto appare criticabile per una valutazione compiuta in dispregio del dovuto rispetto alle disposizioni generali in materia cautelare, tanto più necessario in presenza di un bene (la libertà personale dell’essere umano) costituzionalmente tutelato.

4. La questione di legittimità costituzionale.

Risolta (?) così la questione proposta con il primo motivo di ricorso dedotto, la Corte ritiene di non sollevare la questione di legittimità prospettata dal ricorrente, non essendovi «alcuna necessaria correlazione tra il limite di pena superiore ad anni tre considerato ai fini dell’applicazione della custodia cautelare in carcere dall’art. 275, co. 2 bis c.p.p. e quello non superiore a quattro anni, previsto per la sospensione dell’esecuzione della condanna dall’art. 656 co. 5 cod. proc. pen.».

La sopra indicata aporia assumerebbe «al più l’effetto di un mero difetto di coordinamento, cui il legislatore non ha inteso porre rimedio, ma non anche lesivo dell’art. 3 Cost, non essendo ravvisabile nel trattamento normativo differenziato alcuna irragionevolezza».

Non è così[8].

Ed infatti, per il parallelismo che si impone, è sufficiente richiamare il preambolo del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni in l. 11 agosto 2014, n. 117, nel quale si dava atto della «straordinaria necessità e urgenza di modificare il comma 2 bis dell’articolo 275 di procedura penale, al fine di rendere tale norma coerente con quella contenuta nell’articolo 656, in materia di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva».

Non è dunque possibile separare i due istituti, evidentemente connessi (tanto da aver comportato modifiche legislative con decretazione di urgenza).

La questione proposta a suo tempo dal remittente, la quale ha portato il Giudice delle leggi alla pronuncia n. 41 del 2018, non ha consentito alla Corte di decidere in via consequenziale, ex art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87[9], anche in merito al comma 2 bis dell’articolo 275 c.p.p.; tuttavia (e, anzi, a maggior ragione) ciò rafforza la ragione del nuovo interpello, essendo il riferimento a tre anni, posto nell’art. 275, comma 2 bis, c.p.p., ormai privo di senso.

Come rispetto al primo punto devoluto, anche sotto questo profilo la Corte si chiude ad una valutazione sistemica[10], mostrandosi insensibile ad un’analisi imposta (anche) dal novum costituzionale.

5. Giù dalla turris eburnea.

Un sistema giuridico, cioè, che dovrebbe essere il più possibile pronto a schiudersi alle contaminazioni ed alle conseguenze delle regole che si autoassegna, sì da conferire ad esse la massima espansione, riferibile ai bisogni concreti dell’Uomo

I due percorsi argomentativi sopra citati appaiono contraddistinti da una stessa matrice – che nega l’esistenza di una connessione tra gli istituti in questione – laddove il sistema giuridico (ed in particolare la procedura penale) deve invece sempre aprirsi al confronto con la Costituzione, pena l’auto-referenzialità.

 

Un sistema giuridico, cioè, che dovrebbe essere il più possibile pronto a schiudersi alle contaminazioni ed alle conseguenze delle regole che si autoassegna, sì da conferire ad esse la massima espansione, riferibile ai bisogni concreti dell’Uomo[11]. Un sistema giuridico problematico, cha abbia la capacità di tornare su se stesso, scartare di lato, riassestarsi, misurarsi con la realtà, guidato dalla ragionevolezza[12].

La settorialità distrugge; dipanare argomenti, la matassa, trovare concatenazioni, percorsi sovrapposti. Questo serve, a un moderno Diritto penale: «i collegamenti e i dintorni, soprattutto l’insieme»[13].

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[1] L’art. 278 c.p.p., «Determinazione della pena agli affetti dell’applicazione delle misure», stabilisce che agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato.

[2] Ai sensi della citata norma, infatti, «non si tiene conto della continuazione (81 c.p.), della recidiva e delle circostanze del reato (59 ss. c.p.), fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell’articolo 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall’art. 62 n.4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale».

[3] L’art. 275 co. 2 bis c.p.p. stabilisce letteralmente che «non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena».

[4] L’art. 656 co. 5 c.p.p. dispone che «se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non è superiore a tre anni (quattro, ex sentenza n. 41 del 2018 della Corte Costituzionale) […] il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione».

[5] Le eccezioni sono indicate dall’art. 656 co. 7 e 9 c.p.p., tra cui, in sintesi: quando la sospensione dell’esecuzione della pena per la stessa condanna è già stata concessa (co. 7); quando il soggetto è stato condannato per reati ostativi; quando la persona, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trova in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.

[6] L’art. 303 co.. 1, lett. c) e d) c.p.p., disciplina i termini di custodia cautelare massima per fase, da computarsi rispettivamente dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, sino alla sentenza di condanna in grado di appello (lett. c), e dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, sino alla sentenza irrevocabile di condanna (lett. d).

[7] L’art. 27 co. 2 Cost. precisa che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

[8] Sia consentito un rimando a M. Passione, La Consulta riallinea l’ordine di esecuzione e l’affidamento in prova: uno sguardo prospettico per nuovi e diversi scenari, in Dir. Pen. e Proc., 1/2019, pp. 57 ss.; cfr. anche F. Trapella, Automatica sospensione dell’ordine di esecuzione e accesso alle misure alternative: un binomio da tutelare in attesa della riforma, in Cass. pen., 6/58, 2018, pp. 1924 ss.; M. Cherubini e A. Mingione, Incostituzionalità dell’art. 656, c. 5, c.p.p. e ricadute in materia cautelare: liberi (quasi) tutti dopo la sentenza n. 41/2018 della Corte Costituzionale?, in Giur. pen. web., 3, 2018; D. Vicoli, Un decisivo passo verso il recupero degli equilibri sistematici: elevata a quattro anni la soglia per la sospensione dell’ordine di esecuzione, in Giur. cost., LXIII, 2018, pp. 500 ss.

[9] Ai sensi del quale la Corte, quando accoglie la questione di legittimità costituzionale, dichiara quali sono le altre disposizioni legislative, oltre a quella oggetto del ricorso, la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione.

[10] Cfr. S. Lorusso, Il diritto alla motivazione, in Diritto penale contemporaneo, 8 novembre 2018, ove l’Autore, a proposito della complessità dei percorsi motivazionali, parla di «una giuridicità relegata nell’angolo. Quasi un orpello la cui valenza appare sempre più autoreferenziale» (p. 6).

[11] F. Scamardella, La riflessività giuridica come categoria di mediazione tra individuo e diritto, in www.i-lex.it, Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza artificiale, dicembre 2011, n. 13-14, pp. 199 ss.: «è da questo nuovo modo di conoscere il diritto che si produce il vero diritto […] un diritto che si riflette e si conosce nei sistemi sociali […], ma […] anche un diritto che riflette proprio quei sistemi sociali da cui si lascia pervadere», sostiene l’Autrice (pp. 212-213).

[12] Cfr. F. Viola, Identità e comunità: il senso morale della politica, Vita e pensiero, 1999, p. 129, ove si afferma che «non basta sostenere che il diritto positivo deve essere sottoposto al sindacato della ragionevolezza, ancor più si deve dire che il diritto è ragionevolezza».

[13] M. Nobili, L’immoralità necessaria, il Mulino, 2009, p. 295.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

ISSN 2612-677X (website)
ISSN 2704-6516 (journal)

 

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