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24.02.2021
Antonio Salvati

«Let’s help us in their own homes»

About immigration, civil society and moral conscience*

Issue 2/2021

Lo scorso 15 agosto si è conclusa la procedura di regolarizzazione dei rapporti di lavoro dei migranti avviata lo scorso 1 giugno per agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona. Com’è noto la sanatoria ha previsto un doppio binario: da un lato la possibilità per il datore di lavoro di sottoscrivere un nuovo rapporto di lavoro subordinato con un cittadino straniero o di dichiararne uno irregolarmente instaurato. Sono state oltre 200mila le domande ricevute dal portale del ministero dell’Interno, in prevalenza da colf e badanti (85%); il resto ha riguardato il lavoro subordinato. Evidentemente, pur essendo in un tempo di crisi, domande di lavoro in alcuni settori ce ne sono sempre, anzi sono in crescita.

Far emergere i lavoratori stranieri dall’irregolarità – con uomini e donne sottratte all’invisibilità e restituite alla dignità e regolarità di rapporti di lavoro – è sempre positivo, ha sostenuto Andrea Riccardi, in particolar modo in questo periodo di rischio di contagio per chi è ai margini dei circuiti istituzionali.

«Un bene per loro – ha aggiunto Riccardi – e per le aree dove abitano. È stato anche un segnale alle mafie e al caporalato nelle campagne, che spadroneggiano su “uomini ombra” fuori dal sistema, bonificando “terre di nessuno” ai margini della legge. Ma è avvenuta pure la legalizzazione di rapporti di fatto, cui molte famiglie aspiravano da anni per il personale domestico, senza possibilità dal 2012. La domanda è più larga di quanti hanno potuto accedere alla regolarizzazione»[1].

Certo l’alto costo per il datore di lavoro (500 euro) ha creato – com’era prevedibile – problemi specie nel mondo agricolo e i diversi “paletti” nel provvedimento hanno reso il percorso più arduo. Purtroppo sono stati lasciati fuori i lavoratori dell’edilizia, ristorazione, logistica e altri. Tuttavia, un provvedimento di civiltà e legalità necessario per diminuire le aree “in nero” dei lavoratori (che la nostra società di fatto richiede e richiama), con l’obiettivo di regolare i “flussi” di lavoratori stranieri con processi regolari, registrando i bisogni di lavoro che si stanno sviluppando.

Chi si è speso per la regolarizzazione lo ha fatto anche perché aveva in mente un cambio radicale del mercato del lavoro, ponendo la politica di fronte ad una scelta di legalità e sicurezza, oggi più che mai necessaria, con diversi effetti positivi. Una scelta saggia e lungimirante che offre l’opportunità di vivere e lavorare legalmente a chi già si trova nel nostro Paese ma che, senza titolo di soggiorno, è spesso costretto a lavoro nero e sfruttamento. Infine, si realizza un maggiore controllo e contezza della presenza sui nostri territori di centinaia di migliaia di persone di cui non sappiamo nulla.

Chi si è speso per la regolarizzazione lo ha fatto anche perché aveva in mente un cambio radicale del mercato del lavoro, ponendo la politica di fronte ad una scelta di legalità e sicurezza, oggi più che mai necessaria

Il tema dell’immigrazione resta comunque molto divisivo, sollecita l’emotività delle masse e genera spesso reazioni irrazionali. Serve una maggiore intelligenza politica per affrontare la condizione degli immigrati presenti già nel nostro paese. Invece di una saggia lungimiranza, si continua a scegliere una prospettiva miope e dannosa per tutti, come nel caso della cittadinanza da dare ai bambini nati da genitori stranieri. Una situazione chiarissima che, tuttavia, non si riesce a sbloccare per paura da parte dei politici di perdere consensi.

Della cittadinanza da dare ai bambini nati da genitori stranieri in Italia o giunti da piccoli nel nostro paese, ne hanno parlato anche Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia, nel loro volume La coscienza e la legge, uscito nel 2019 (Editore Laterza), che tratta diffusamente il tema dell’immigrazione, nonché altri temi nevralgici del nostro tempo come la sicurezza, la corruzione, il perdono, la pena di morte, la questione carceraria, l’ingiustizia.

Il tema dell’immigrazione resta comunque molto divisivo, sollecita l’emotività delle masse e genera spesso reazioni irrazionali. Serve una maggiore intelligenza politica per affrontare la condizione degli immigrati presenti già nel nostro paese. Invece di una saggia lungimiranza, si continua a scegliere una prospettiva miope e dannosa per tutti

Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia si confrontano a partire dalle loro differenti esperienze e visioni del mondo, cercando di comprendere e definire insieme cosa è giusto. Sulla necessità di una legge sullo ius soli si è tanto dibattuto:

«È irresponsabile – spiega Paglia – e nocivo per il paese e per gli stessi ragazzi. Oltre il 22% degli immigrati in Italia è costituito da minori (più di 932.675). Di questi ormai più di 573.000 sono nati in Italia, sono bambini e bambine che si sentono italiani, che lo sono di fatto, ma che non sono cittadini e con molte difficoltà lo diventeranno a 18 anni. La normativa attuale è del tutto irragionevole. Per un ragazzo nato 18 anni fa da genitori stranieri e che ha sempre vissuto in Italia ma non ha avuto la residenza anagrafica, non è automatico divenire cittadino italiano. Lui, che cittadino lo è di fatto, dovrà chiedere il permesso di soggiorno che così cambierà da motivi familiari a motivi di lavoro, se ha un lavoro, o un permesso di studio. Due tipi di permesso più “deboli” rispetto al precedente. Se non ha lavoro e se non fa un percorso di studio, diventa irregolare, clandestino, e quindi rischia di essere espulso nel proprio paese di origine che non conosce e dove non è conosciuto. È solo un esempio. Ma come ci si può integrare in questa situazione e con questa legge?»[2].

Da uomo di chiesa, Paglia sostiene che l’accoglienza allo straniero – “l’estraneo” al quale ci si fa “prossimo” – è scritta nel cuore stesso della fede cristiana.

«Gesù ne fa addirittura una condizione della salvezza, come appare dal noto brano di Matteo sul giudizio finale: “Venite benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, perché […] ero straniero, e mi avete ospitato” (25,34-35). È una parola universale che non riguarda solo i credenti, anzi si riferisce direttamente a chi non crede (o crede diversamente). Papa Francesco, affermando che non difendere i migranti non è cristiano, si iscrive nella immutata tradizione evangelica che traversa la storia da duemila anni»[3].

Il papa chiede saldezza sul comandamento dell’ospitalità e assieme creatività umanistica nel governare l’accoglienza.

Coscienza morale e legge civile non debbono confliggere, semmai dialettizzarsi per trovare una soluzione. È diventata una tristissima moda di alcuni politici scaricare sui migranti il sentimento di paura e di insicurezza degli italiani. Sarà pure pagante in termini di consenso. Tuttavia, immette nella società sentimenti distruttivi che sfuggono al controllo. Non mancano episodi di violenza razzista che dovrebbero far riflettere seriamente su tale deriva. La predicazione dell’odio sociale è divenuta il veicolo su cui transitano aggressività e violenza, ricorda Paglia. L’odio sociale va ben al di là dell’obbiettivo disagio dal quale è sorto, seguendo percorsi imprevedibili. L’insicurezza c’è, eccome, ricordano i due autori ed è un problema reale con cui fare i conti. Ma le cause sono ben oltre il fenomeno delle migrazioni.

Coscienza morale e legge civile non debbono confliggere, semmai dialettizzarsi per trovare una soluzione

Bauman avvertiva:

«Siamo “oggettivamente” le persone più al sicuro nella storia dell’umanità. Come le statistiche dimostrano, i pericoli che minacciano di abbreviare la nostra vita sono più scarsi e lontani di quanto generalmente non fossero nel passato o non siano in altre parti del pianeta… Tutti gli indicatori oggettivi che si possono immaginare mostrano un aumento apparentemente inarrestabile della protezione di cui uomini e donne della parte “sviluppata” del pianeta godono su tutti e tre i fronti lungo i quali si combattono le battaglie in difesa della vita umana: rispettivamente contro le forze sprezzanti della natura, contro la debolezza congenita del nostro corpo e contro i pericoli che vengono da aggressioni di altre persone»[4].

Eppure, con tutto ciò la paura aumenta. Le riflessioni contenute nel volume prendono spunto dall’analisi dei dati del fenomeno. In Italia, l’immigrazione da circa quattro anni è sostanzialmente stabile. Nel nostro paese ci sono poco più di 5 milioni di immigrati. Le difficoltà economiche sopravvenute hanno ridotto i nuovi ingressi in maniera drastica. Malgrado la visibilità degli sbarchi e dell’arrivo di richiedenti asilo, l’ingresso dei migranti incide poco su questo quadro generale. Si tratta infatti, tra rifugiati riconosciuti e richiedenti in accoglienza, di circa 350.000 persone, meno del 7% del totale.

Siamo “oggettivamente” le persone più al sicuro nella storia dell’umanità. Come le statistiche dimostrano, i pericoli che minacciano di abbreviare la nostra vita sono più scarsi e lontani di quanto generalmente non fossero nel passato o non siano in altre parti del pianeta

Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, 2018, p. 161

Ricorda Paglia – facendo tesoro dell’esperienza della Comunità di Sant’Egidio – che fino al 2014-2015 chi sbarcava in Italia proseguiva il viaggio verso il Nord Europa, e anche oggi la mobilità in una certa (faticosa) misura prosegue. In tal senso, fornire:

«I numeri degli sbarchi risalendo indietro nel tempo e facendo credere che si tratti di persone rimaste in Italia e nascoste da qualche parte è una grossolana falsificazione. Qualche piccolo spunto di chiarimento sul fenomeno migratorio in Italia mostra quanto sia ancora tendenziosa la comunicazione al riguardo. Molti, ad esempio, pensano che gli immigrati in Italia siano maschi, africani o al più arabi, e certamente musulmani. I dati ci dicono invece che si tratta in maggioranza di europei, di donne, di persone provenienti da paesi di tradizione cristiana. La seconda religione d’Italia per numero di aderenti, per quanto è possibile stimarli, è quella cristiana ortodossa, con circa 1,6 milioni di fedeli. I musulmani sono intorno a 1,5 milioni. La maggior parte degli immigrati in Italia non è quindi costituita da uomini soli, bensì da famiglie spesso accompagnate da minori: abbiamo 826.000 minori nelle scuole, benché la crescita anche in questo caso si sia pressoché arrestata, e la maggioranza di essi (oltre 500.000) è nata in Italia. Da ultimo, i dati contraddicono l’idea che l’immigrazione non sia nient’altro che una conseguenza della povertà dell’Africa che si riversa sulle nostre coste. La graduatoria dei paesi di origine, invece, classifica nell’ordine Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, Moldavia. Nessuno di questi paesi è poverissimo, dove si muoia di fame per la strada. Ed è così anche nel resto d’Europa e del mondo. I migranti provengono prevalentemente da paesi intermedi per livello di sviluppo. E non sono neppure di regola i più poveri dei rispettivi paesi. Per migrare occorrono risorse, che i più poveri raramente riescono a mettere insieme»[5].

Cantone si sofferma in particolare sul decreto sicurezza, responsabile di aver ridotto gli spazi per la protezione umanitaria tramite condizioni più stringenti, e:

«Soprattutto senza compensare questo restringimento con accordi bilaterali per rimpatriare chi non ha diritto di restare in Italia, avrà infatti come unico effetto l’aumento degli irregolari: coloro ai quali non verrà concesso l’asilo, esaurita la procedura e ottenuto il diniego, diventeranno clandestini che nessuno Stato sarà disponibile a riaccogliere perché mancano intese apposite, oppure, se esistono, l’Italia non sarà in grado di allontanarli»[6].

I migranti provengono prevalentemente da paesi intermedi per livello di sviluppo. E non sono neppure di regola i più poveri dei rispettivi paesi. Per migrare occorrono risorse, che i più poveri raramente riescono a mettere insieme

R. Cantone, V. Paglia, La coscienza e la legge, cit., cap. 5

La norma rischia dunque di produrre l’effetto opposto a quello annunciato.

«È stato calcolato che coi ritmi attuali, sostanzialmente in linea con quelli degli anni precedenti, anche se gli arrivi si interrompessero ci vorrebbe un secolo solo per riportare nei paesi d’origine tutti gli irregolari allo stato presenti sul territorio nazionale. Senza contare che ogni singola espulsione che si riesce a mettere in atto costa migliaia di euro soltanto di biglietti aerei, almeno cinque per ogni rimpatrio: tre all’andata e due al ritorno per i soli agenti di pubblica sicurezza»[7].

Come talvolta accade in Italia si sposta altrove il problema senza preoccuparsi di risolverlo davvero, come accaduto con la Bossi-Fini. In caso di tumulti o di morti nelle baraccopoli, le responsabilità ricadranno sempre contro i migranti anziché contro le condizioni in cui sono costretti a vivere.

Fra l’altro, osserva giustamente Cantone:

«Nelle pieghe della nuova normativa, si cela un dettaglio non secondario: l’impossibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe per ottenere la residenza, con l’effetto di essere tagliati fuori da tutta una serie di servizi sociali. Un principio gravissimo, che ufficializza la divisione fra cittadini di serie A e di serie B: a parità di diritto a vivere in Italia, ci sarà chi avrà determinati diritti e chi no. Si tratta di un tema rilevante, di cui sembrano consapevoli quei sindaci che hanno annunciato l’intenzione di disapplicare la nuova legge. Credo che la disobbedienza civile preannunciata sia una risposta non accettabile, ma il problema posto è reale: l’iscrizione anagrafica è di competenza comunale e il decreto Sicurezza non ha abrogato la parte del Testo unico sull’immigrazione che prevede che il possesso del permesso di soggiorno sia sufficiente per ottenerla. L’intenzione di sottoporre a un giudizio di legittimità costituzionale la nuova previsione di legge potrebbe pertanto essere il modo per dirimere una questione tanto delicata»[8].

Nel dibattito pubblico sull’immigrazione viene spesso sollevata la questione dell’«aiutarli a casa loro». Spesso il dibattito generale sul tema migrazioni continua a focalizzare l’attenzione sulla gestione – o meno – degli effetti dei flussi migratori solo nella loro dimensione finale (quando prossimi all’Europa). Manca, invece, una presa di coscienza delle dinamiche complessive dell’immigrazione, cosa che permetterebbe di concentrarsi sulle vere questioni chiave e non concentrarsi solo su presunte soluzioni di breve periodo – che, oltre a porre notevoli dubbi dal punto di vista etico, di fatto continuano solo a rincorrere improbabili soluzioni, semplici e a basso costo, per problematiche che richiederebbero ben altro. «Aiutarli a casa loro» per anni è stato lo slogan di presa facile della destra. Ora è diventato il mantra di quasi tutte le forze politiche. Uno slogan carino e facile da pronunciare. Anche se, talvolta, ha avuto l’obiettivo di mettere a tacere la coscienza di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta. In fondo, è un modo per dire che tanto cattivi non siamo, né egoisti, anzi – in ottemperanza del Vangelo (oggi ritornato prepotentemente di moda nelle manifestazioni politiche e non) – scegliamo di aiutare il prossimo. Però decidiamo noi dove e come.

«Aiutarli a casa loro» per anni è stato lo slogan di presa facile della destra. Ora è diventato il mantra di quasi tutte le forze politiche. Uno slogan carino e facile da pronunciare. Anche se, talvolta, ha avuto l’obiettivo di mettere a tacere la coscienza di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta

La percezione comune dell’Africa è quella di un continente povero, e che dunque necessiterebbe di un sostanziale sviluppo economico e aumento della ricchezza. Se da un lato questo è un concetto generale corretto, dall’altro, tuttavia, non ci spiega le reali dinamiche e vicissitudini del continente africano. D’altra parte, l’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere, avvertiva Ryszard Kapuściński, straordinario reporter morto nel 2007. Il continente africano è «un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste»[9], sosteneva Kapuściński. Nonostante il presente non possa che apparire nella sua drammaticità, l’Africa non è soltanto sinonimo di miseria e arretratezza. Oggi l’Africa è cambiata, è diventata la terra delle mille opportunità. I dati assoluti rivelano che la crescita africana è enorme ed è, quello africano, l’unico continente a non conoscere la crisi. In altri termini, accanto alle cifre spaventose che tutti conosciamo – sulla povertà, l’Aids e la guerra – vi sono anche altri dati, che però non vediamo e in tanti ignorano.

In Africa – spiega Giro, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università per stranieri di Perugia ed esperto di questioni africane come pochi, che di queste vicende ci informa compiutamente da tempo – si sta svolgendo una grande guerra commerciale: un triangolo di influenze tra Cina, Europa e Usa, che potrebbe anche dirsi quadrangolo se si conta la Russia in piena ripresa di influenza. Infatti:

«I poteri politico-commerciali sanno che nel continente nero sono nascoste enormi risorse in termini di acqua, terra, minerali ed energia. Occorrono solo i denari per sfruttarle. Di business se ne farà dunque tanto negli anni a venire: innanzi tutto in agro-business. L’Africa è l’unico continente dove rimane terra coltivabile libera: 200 milioni di ettari liberi (fatte salve le foreste che non andrebbero toccate). Per nutrire il pianeta ci sarà assoluto bisogno di mettere quelle terre in produzione: un “oro verde” ormai raro. Ma per farlo ci vuole del metodo, non il land grabbing selvaggio e in ordine sparso attualmente messo in atto dalle multinazionali del food»[10].

Avverte sempre Mario Giro che:

«Sarebbe un miracolo se il settore agro-business italiano si organizzasse (si tratta di migliaia di Pmi) per fare un’offerta aperta a questa “Africa verde”. In teoria le nostre piccole e medie imprese sarebbero molto più accettate dagli africani che non i colossi anonimi, come Nestlé e Danone. Si tratterebbe di insegnare a produrre e creare la catena del valore alimentare. Possiamo farlo ma ci stiamo organizzando per questo? È un’ipotesi win-win: aiuterebbe le nostre piccole imprese del settore a crescere e internazionalizzarsi ma anche gli africani a “produrre a casa loro”, imparando le regole itosanitarie per esportare»[11].

Un altro settore importante è quello dell’energia rinnovabile dove l’Enel sta facendo bene. Occorre un modello di elettrificazione adattato al continente, considerando che il continente africano è sottopopolato e vastissimo, ma sostanzialmente vuoto. Pertanto, servono rinnovabili adattate, più che enormi tralicci stesi per migliaia di chilometri. Per quanto riguarda logistica e infrastrutture da trasporto sappiamo che Salini costruisce dighe ovunque; i cinesi si occupano di ferrovie; il francese Bolloré di porti. Occorrono tuttavia anche strade medie e logistica intermodale settore dove la situazione è anarchica. Nel 2016 l’Italia è stata la terza fonte di investimenti nel continente, dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti: un fatto storico. Il passaggio dalla ventunesima posizione del 2014 alla terza, testimonia gli sforzi che hanno portato molte nostre società ad acquisire quote rilevanti del mercato africano e a vincere appalti. Le missioni italiane imprenditoriali in Africa sono aumentate.

Tuttavia occorre un rafforzamento del sistema e degli strumenti per aumentare la forza d’urto: la nascita di operazioni di partenariato imprenditoriale necessita di tempo e di mezzi adeguati. La nuova cooperazione (che la legge 125 del 2014 permette) non può fare a meno di coinvolgere il settore privato nazionale nell’aiuto allo sviluppo per tentare di rendere sostenibili nel tempo le iniziative e autonomi sul mercato i loro protagonisti. «Aiutarli a casa loro» può diventare il risultato di una connessione tra privati e cooperazione, tra internazionalizzazione di Pmi italiane e nascita di una vera imprenditorialità africana. Occorre muoversi in fretta, avverte Giro. Le imprese italiane coinvolte in queste iniziative sono ancora pochissime. Potremmo dire lavoriamo per poter dire «Aiutiamoci a casa loro».

«Aiutarli a casa loro» può diventare il risultato di una connessione tra privati e cooperazione, tra internazionalizzazione di Pmi italiane e nascita di una vera imprenditorialità africana. Occorre muoversi in fretta, avverte Giro. Le imprese italiane coinvolte in queste iniziative sono ancora pochissime. Potremmo dire lavoriamo per poter dire «Aiutiamoci a casa loro»

Scriveva un grande credente italiano, David Maria Turoldo:

«La terra è una nave sulla quale siamo imbarcati tutti, magari c’è chi viaggia in prima classe, chi in seconda e chi nella stiva, e sarà opportuno fare in modo che tutti viaggino bene, ma non possiamo permettere che affondi, perché non ci sarà un’altra Arca di Noè che ci salverà»[12].

 

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* Testo, rivisto e aggiornato dall’Autore, dell’articolo La coscienza e la legge, pubblicato sul portale Notizie Italia News, il 26 marzo 2019, che ringraziamo per la cortese autorizzazione.

[1] A. Riccardi, La civiltà e la legalità della regolarizzazione, in Il Corriere della Sera, 24 agosto 2020.

[2] R. Cantone, V. Paglia, La coscienza e la legge, Laterza, 2019, Edizione Kindle, cap. 5.

[3] Ibidem.

[4] Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, 2018, p. 161.

[5] R. Cantone, V. Paglia, La coscienza e la legge, cit., cap. 5.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] R. Kapuściński, Ebano, Feltrinelli, 2000, p. 7.

[10] M. Giro, Aiutiamoci a casa loro, in L’Espresso, n. 24 del 9 giugno 2019, pp. 54 ss.

[11] Ibidem.

[12] D.M. Turoldo, Profezia della povertà, Servitium, 1998, p. 30.

Altro

A meeting of knowledge on individual and society
to bring out the unexpected and the unspoken in criminal law

 

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